Le Elezioni Politiche 2006 e Il Linguaggio Del Corpo

una modalità comunicativa sommersa che emerge oltre la parola

di EUFRASIA D’AMATO

Tra chi rosica per la mancata vittoria e chi festeggia per il risicato trionfo, quante parole si sono sprecate. Parole, parole, parole….e i gesti? O meglio, tutti i movimenti che il nostro corpo compie volontariamente o inconsapevolmente, che vanno sotto il nome di Comunicazione Non Verbale (CNV), dove li mettiamo? Di sicuro i nostri politici, che hanno ‘movimentato’ quest’ultima campagna elettorale hanno messo i loro gesti al posto sbagliato!

Come allievi della Scuola e studiosi di comunicazione ci interroghiamo su quanti voti ha portato, per esempio, una mano conigliosaldamente ancorata al tavolo, sinonimo di sicurezza ed asserzione, e quanti voti, al contrario, non hanno portato le braccia conserte e serrate in petto o il capo inclinato, corrispettivi di chiusura e disagio! Al di là dell’incantesimo della parola, quello che percepiamo ed osserviamo nel nostro interlocutore è rappresentato dai movimenti, dalla fisionomia, dal cambiamento di espressione. Siamo, dunque, prima visti che sentiti.

Al di là dell’incantesimo della parola, quello che percepiamo ed osserviamo nel nostro interlocutore è rappresentato dai movimenti, dalla fisionomia, dal cambiamento di espressione

Il linguaggio dei gesti è un modo naturale di ‘parlare’, perché il linguaggio stesso nasce dal gesto, da ogni nostro comportamento, anche apparentemente non-comportamento, che è uno straordinario veicolo di comunicazione. Il nostro corpo, pertanto, è uno strumento di comunicazione: ci dice come siamo e come sono gli altri. Alcuni tra i più banali gesti come per esempio grattarsi il naso, tenere il capo inclinato leggermente, cambiare continuamente posizione del corpo, tenere le braccia incrociate verso il petto ecc., possono essere apparentemente determinati da sensazioni di fastidio, prurito ma, molto spesso, lo stimolo, che è alla base di queste reazioni del corpo, non è solo di carattere fisiologico.

Lo stimolo può trovarsi, infatti, in un’azione o in una parola del nostro interlocutore, nella sua stessa presenza o nel fatto di vedere o sentire una cosa inattesa, che possono provocare in noi sensazioni inconsce di disagio. Ma anche la scarsa fiducia in noi stessi, il fatto di non credere per primi a quello che diciamo, sottende ad atteggiamenti e posture che indicano chiusura, scarsa autostima, imbarazzo e disagio.

La scarsa fiducia in noi stessi sottende ad atteggiamenti e posture che indicano chiusura, scarsa autostima, imbarazzo e disagio

Conoscere e sapere interpretare il linguaggio del corpo è molto utile a tutti (soprattutto ai politici!) poiché consente di migliorare il nostro rapporto con gli altri e, nel contempo, di accrescere la conoscenza di noi stessi. Bocca, naso, occhi, piedi, gambe, braccia….è divertente sezionare il nostro corpo in nome della scienza, o meglio, della comunicazione.

Dimmi come ti muovi e ti dirò chi sei; giocherellare con le mani, nasconderle in tasca, dietro la schiena, passarsi la mano sul collo: sono un modo per mascherare una situazione di disagio, di insicurezza e di nervosismo. Braccia aperte, inclinazione del corpo in avanti e busto eretto manifestano, al contrario, apertura ed interesse nei confronti del recettore. Così come ridere in modo stridulo, sedersi ed ancorare i piedi alla sedia, giocherellare con capelli, barba, collane e cravatte, all’occhio attento del nostro interlocutore, non ci consentono di essere credibili e padroni di noi stessi.

Il linguaggio del corpo è molto utile a tutti poiché consente di migliorare il nostro rapporto con gli altri e, nel contempo, di accrescere la conoscenza di noi stessi

question_markTutti questi gesti li compiamo in modo inconsapevole proprio perché, il vero linguaggio che ci caratterizza e ci fa entrare in relazione con il mondo, è quello non verbale per il semplice fatto che i gesti non cadono sotto la censura della mente e rilevano il nostro vero stato d’animo. Osservare per credere! Non dobbiamo, allora, pensare che mente e corpo siano entità disgiunte. Noi osserviamo e veniamo osservati; questa è una maniera eccellente di capire, di percepire, di comunicare.

Il grande regista ed attore italiano, Vittorio De Sica, lo aveva capito; gli occhi sono lo specchio dell’anima e lo sguardo è una delle componenti fondamentali e prioritaria della comunicazione non verbale, ricordate: “…quella fissità dello sguardo tipica dell’ottuso”. Molti, troppi sguardi fissi abbiamo notato nella recente bagarre televisiva pre-elettorale.

Il vero linguaggio che ci caratterizza e ci fa entrare in relazione con il mondo, è quello non verbale per il semplice fatto che i gesti non cadono sotto la censura della mente e rilevano il nostro vero stato d’animo

Troppe palpebre ammainate, teste reclinate e braccia rigidamente conserte, per non parlare di registri vocali ed espressività di infimo livello. Tutti segnali di evidente insicurezza dovuta all’incoerenza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe che gli altri pensassero di noi. E allora la paura che gli elettori potessero scoprire il bluff, ancora una volta…ha fatto 90!

I tecnici della informazione e il problema della loro formazione professionale

di FRANCESCO FATTORELLO

1. Tutti conoscono quella teoria secondo la quale l’informazione è una quantità. L’informazione come quantità diminuisce l’incertezza. Una informazione riduce della metà la quantità delle incertezze. Due informazioni riducono di tre quarti la possibilità di scelta. E così via. Ma non pare sufficiente dire che quanto maggiore è la quantità delle informazioni tanto minore è quella delle incertezze.

E’ anche vero che quanto maggiore è il numero delle informazioni tanto maggiore è il numero delle possibilità di scelta fra le medesime: i ragguagli diversi su un film mi fanno meditare sulla decisione di andarlo a vedere o meno; i ragguagli diversi su un libro mi mettono in dubbio sulla opportunità o meno di comperarlo. L’informazione è soggettiva e quanto maggiore è il numero degli informatori e delle informazioni tanto maggiore sarà il numero di interpretazioni.

Dunque la scelta da parte di colui che viene informato è tanto più difficile quanto maggiore è il numero delle informazioni; quanto maggiore è il numero delle informazioni tanto più difficile da parte sua dare adesione ad una piuttosto che ad un’altra delle formule di opinione che vengono offerte su qualche cosa. Per questo l’informatore si preoccupa che il suo ragguaglio, la sua informazione prevalga su ogni altra.

Ciò discende dalla natura dei processi di informazione. L’informazione è un fenomeno di opinione: è sempre un fenomeno di opinione e il giornale uno dei suoi strumenti. Ma l’informazione è anche un fenomeno di tale ampiezza che investe tutta la vita

Francesco Fattorello

Francesco Fattorello

dinamica della società. I rapporti di informazione sono quelli per cui tutti noi che ci troviamo nella condizione sociale di soggetti in stato di comunicazione, diventiamo soggetti promotori di informazioni.

2. Tutti noi, tramite queste attività, intessiamo la rete dei rapporti sociali; rapporti della nostra vita pubblica e privata, delle nostre attività contingenti e di quelle che durano assai di più della vita di un giornale o di un uomo. Nei tempi nei quali viviamo si parla spesso di “diritto alla informazione”. Ma il problema è molto più vasto perché l’informazione, al di là di un diritto che si vuole proclamare, si identifica nella nostra stessa vita sociale. L’ordine dei nostri studi e interessi si sofferma però dinanzi ad una sola delle grandi categorie dei fenomeni di informazione perché noi lasciamo da parte tutto ciò che non attiene alla informazione contingente e collettiva.

Ciò è certamente utile per delimitare l’ambito delle nostre indagini e delle nostre ricerche. Ma sarebbe colpevole dimenticare che, al di là dell’informatore del contingente, vi è l’informatore che non assume come oggetto l’attualità, le opinioni contingenti sui fatti che passano, ma i valori, le opinioni cristallizzate della vita in società. La grande importanza del fenomeno sociale dell’informazione non si può valutare appieno se non si ha la capacità di vedere questo fenomeno in tutta la sua ampiezza.

Ciò significa che i giornalisti sono soltanto una delle categorie degli informatori dell’attualità. Tuttavia una categoria molto importante perché essi, più degli altri, consapevoli o no, polarizzano intorno alle loro opinioni sugli avvenimenti di attualità le opinioni dei loro lettori.

3. Arduo problema quello della formazione professionale dei giornalisti. Sebbene relativamente recente è problema ormai aperto in tutto il mondo. E oggi si stenta a capire come ci siano stati e ci sono tuttora giornalisti che nulla vedono al di là delle attitudini innate con le quali il giornalista eserciterebbe la professione. Comunque il problema della formazione professionale dei giornalisti è problema didattico e in un secondo momento “apprentissage” di pratica professionale.

E’ problema di esperti nella didattica al quale impropriamente può opporsi solo l’esperienza tratta dall’esercizio professionale. Il problema non si risolve ponendo sulla cattedra i giornalisti come non si risolverebbe il problema della formazione dei pubblicitari ponendo sulla cattedra i professori di pubblicità. Come ho avuto modo di dire altre volte, la scuola non può sostituire la pratica professionale; ma neppure l’esercizio professionale si può sostituire alla scuola.

La scuola, convenientemente programmata, assolve compiti diversi dall’esercizio professionale: è propedeutica all’esercizio professionale. Errato dunque confondere didattica con esercizio professionale. Il fatto, come ho detto dianzi, che il giornalismo ha rapporto col fenomeno sociale della informazione, nel senso che il giornale è uno degli strumenti dei processi di informazione, pone già la complessità della programmazione di una scuola di giornalismo che prima delle tecniche strumentali ha da riconoscersi nel fenomeno generato dai processi di informazione.

4. Vi è un paese in Europa dove l’insegnamento del giornalismo ha subito un lungo travaglio manifestatosi attraverso una successiva serie di esperienze che, a mio avviso, sono molto significative. Voglio dire la Polonia.

La scelta da parte di colui che viene informato è tanto più difficile quanto maggiore è il numero delle informazioni; quanto maggiore è il numero delle informazioni tanto più difficile da parte sua dare adesione ad una piuttosto che ad un’altra delle formule di opinione che vengono offerte su qualche cosa

Mi scuso con il prof. Tadeus Kupiz se mi avvalgo dei suoi ragguagli pubblicati sul “Journaliste Democratique” (Praga, dicembre 1967) per riferire su questo argomento. Sebbene l’inizio di un insegnamento del giornalismo risalga in quel paese al 1930, la prima importante istituzione didattica si ebbe nel 1946, dopo la seconda guerra mondiale, con una Facoltà di giornalismo presso l’Accademia delle Scienze di Varsavia.

Nel 1950 fu istituita presso la Facoltà di Scienze Umane della Università di quella città una Sezione di giornalismo. Questa sezione passò nel 1952 alla Facoltà di Scienze Sociali e Filosofiche e nel 1955 diventò Facoltà autonoma con un programma quadriennale allungato a cinque anni nel 1956. Così, per la prima volta in Polonia, una Facoltà di Giornalismo poteva conferire un diploma di studi superiori in questa materia. Ma ecco nel 1960, la Facoltà si trasforma in corso biennale, corso post universitario, al quale possono accedere coloro che hanno conseguito il titolo accademico conferito da una Facoltà universitaria.

Nel giro di venti anni sei successive trasformazioni dovute specialmente alle inquietudini degli ambienti giornalistici. Comunque tutte queste trasformazioni avevano portato alla conclusione che: 1) il sistema migliore era quello di abbordare gli studi di giornalismo dopo una conveniente maturazione compiuta attraverso un ordine di studi universitari; 2) che gli studi di giornalismo possono dare solo una preparazione propedeutica generale sulla materia;

3) che nel giro di due anni si poteva impartire una istruzione sufficiente nella materie specifiche utili alle esigenze della professione; 4) che questa generalità degli studi era anche giustificata dalla impossibilità di creare una scuola che, ad un tempo, potesse preparare e i tecnici del giornale e quelli della radio e quelli della televisione e quelli del cinema; 5) che d’altra parte pareva inopportuno creare tante scuole separate per il giornale, per la radio, per la televisione ecc.

Ma era soprattutto emerso che, sebbene il progresso delle tecniche strumentali moderne ponga esigenze diverse nella elaborazione, l’articolazione dei processi di informazione è sempre la medesima fra materia su cui informare, informatore, strumento, contenuto e recettore. Poi era emerso che, tramite le diverse strumentazioni dei processi di informazione si persegue lo stesso comune obiettivo: formazione delle opinioni del pubblico.

5. Due argomenti di grande importanza: un particolare processo che, per mezzo di una tecnica sociale, porta alla più conveniente elaborazione dei contenuti; un fine comune che muove le diverse strumentazioni dell’ informazione. Ora i comuni problemi di base non sono lo studio delle tecniche strumentali né lo studio di quante altre materie complementari al giornalismo si possono mettere insieme, ma gli insegnamenti relativi ai processi di informazione e ai fenomeni di opinione che si generano allorché l’informatore mette in moto il rapporto con i suoi recettori.

L’esigenza di siffatti insegnamenti di base per un programma più sistematico delle scuole di giornalismo, la necessità di una teoria di base cui orientare il piano didattico di una scuola, abbiamo sentito richiedere anche al congresso internazionale di Praga, nel novembre 1967, dal direttore della scuola di giornalismo di Santiago del Cile quando rilevava la necessità di rinnovare in tal modo i modelli dell’America Latina.

Anche a mio modesto avviso una scuola che si rispetti deve poggiare le fondamenta della sua didattica su una tale sistematica offerta dalla sociologia dell’ informazione.

6. D’altra parte una esigenza di tal fatta si impone alle nostre scuole anche perché esse non dovranno formare soltanto i futuri giornalisti ma i tecnici della informazione qualunque sia l’ordine delle loro applicazioni: sia esso un articolo di giornale o un manifesto o un bollettino di guerra.

Non bisogna pensare che il problema sia circoscritto al giornale o al giornalismo. Quando il portavoce della Casa Bianca diceva che il Presidente Kennedy aveva interrotto il suo viaggio elettorale perché “grippè” mentre invece era corso Washington per gli incombenti fatti di Cuba, agiva nella pratica della politica delle informazioni. Le nostre scuole debbono guardare oltre il giornale che è un piccolo o, se volete, un grande strumento; ma solo uno strumento di fronte alla grandezza, imponente varietà di cui, al di là degli strumenti moderni di diffusione collettiva, si giova l’informazione.

Le nostre sono scuole dell’avvenire. Se noi ben guardiamo aventi, agli orizzonti sconfinati della informazione, esse hanno l’avvenire dinnanzi e non possono fermarsi al giornalismo.

7. Certo in molti paesi le nostre scuole incontrano forti opposizioni. Le opposizioni sono di due ordini: quelle che provengono dall’alta cultura universitaria e quelle che provengono dal mondo professionale. Le prime si hanno nei paesi di più tradizione umanistica e discendono anche dal fatto che non si sa bene quali sono i problemi di cui ci occupiamo.

Se io volessi raccontare la storia della Scuola che io dirigo in Italia e attraverso quali lotte e opposizioni essa potè sorgere or sono ventun anni, in seno alla Università di Roma, il racconto sarebbe molto istruttivo. Né potrei proprio dire che dopo tanti anni di attività ininterrotta e tante positive esperienze, quelle opposizioni siano state infrante. Sia la tradizione umanistica, sia la tenace resistenza delle vecchie forme cui si ispira in certi paesi l’alta cultura accademica sono ancora barriere difficilmente superabili. L’altro ordine di opposizioni discende dai professionisti legati ancora al vecchio adagio: giornalisti si nasce.

Anche qui, sebbene le opposizioni siano di molto attenuate, per motivi del tutto diversi da quelle degli oppositori di cui abbiamo detto ora, da molti non si concepisce che il giornalismo possa essere anche materia di insegnamento, al di là di quello che in modo del tutto artigianale, si può dare al giornalista. Non si capisce che al futuro tecnico dell’informazione bisogna anzitutto dare una appropriata e logica giustificazione della messa in opera della sua attività: per esempio del come e perché il giornalismo abbia funzione strumentale nei confronti della informazione e perché il giornalismo non si identifica con l’informazione.

Ora va detto ai professionisti che le nostre scuole accreditano la dignità della professione e all’opposizione accademica va detto che l’ordine dei problemi di cui ci interessiamo spalanca le finestre su orizzonti che interessano tutta la nostra vita sociale. E’ molto ingenuo, se non colpevole, per noi docenti, lasciar credere che informazione vuol dire “far conoscere”; più colpevole ancora lasciar credere che informazione possa significare “far conoscere obiettivamente”.

Bisogna rendere edotto il futuro giornalista affidato ai nostri insegnamenti degli effetti cui può portare, al di là delle sue intenzioni, l’esercizio dell’informazione. Per questo affermammo prima che le nostre scuole non sono soltanto scuole per giornalisti e che il problema di cui ci interessiamo, e che pare limitato a questioni che concernono solo una professione, sta invece al centro di fenomeni ben più vasti e più drammatici che ci avvolgono ogni giorno con la forza coercitiva dell’informazione.

8. Mentre gli studi storici e giuridici sull’informazione hanno lunga tradizione, e quelli tecnici e sociologici sono di recente sviluppo: quelli sulla formazione professionale sono di data ancor più vicina a noi. Via via che l’informazione è stata intesa come fenomeno sociale e come attività della nostra vita sociale si è fatta strada anche l’esigenza di penetrare nei metodi della formazione professionale.

E si badi bene: non si tratta di sapere quali sono i criteri seguiti nei paesi dell’Est e dell’Ovest europeo, quanto di ricercar i metodi che più si convengono nella formazione di coloro che debbono esercitare una importante attività nella vita sociale del nostro tempo. Scriveva Vladimiro de Lipski che la scuola “assure aux individus la formation générale qui est préalable nécessaire de la formation professionnelle: elle leur fait acquéir les mécanismes de base de la vie sociale; elle leur fait prendre conscience de leur aptitudes et des possibilités que leur offre le milieu; elle contribue à la sélection et à la formation des élites locales et nationales; enfin elle assure sa propre expansion en récupérant en qualitè d’einseignants certains de ses meilleurrs élèves”. Sembrano parole scritte per noi che stiamo esaminando problemi tanto delicati delle nostre scuole.

Per la verità le nostre scuole sono di recente istituzione e si può capire che esigenze pratiche e urgenti si sono imposte alla loro strutturazione. Ma ora è tempo di esaminare i problemi con maggiore ponderazione. E certo, fra i tanti, quello dei docenti e della loro formazione. Una delle ragioni per cui l’alta cultura accademica si oppone alle nostre scuole, specie in alcuni paesi, discende certamente dal fatto che in esse vi è un po’ il superamento della divisione classista fra lavoro intellettuale e lavoro pratico, fra teoria e pratica.

Alla opposizione precostituita di coloro che non ritengono l’informazione oggetto di didattica vanno aggiunti coloro che non vedono l’opportunità di questo connubio. Invece il superamento di questo problema in una integrazione dei relativi insegnamenti è uno dei fatti da rilevare proprio a proposito della formazione dei nostri insegnanti.

E’ chiaro che noi non abbiamo bisogno del professore di sociologia ma del professore di sociologia dell’informazione; è chiaro che noi abbiamo bisogno del professore di tecnica delle arti grafiche, ma di quello che è esperto nelle “formule de presentation de la presse quotidienne”.

Bisogna dunque anche ricercare i metodi che più si convengono nella formazione di coloro che debbono non solo “expliquer”, come si potrebbe pensare, ma rendere consapevoli gli interessi delle responsabilità sociali che assumono nell’esercizio della loro funzione

Francesco Fattorello inventore del “Marketing Oriented”

La tecnica sociale è la base teorica dei processi di produzione orientati al mercato

di ALESSANDRA ROMANO

In una Società dove prevalgono le Leggi di libero Mercato, l’imprenditore prima di produrre deve necessariamente chiedere al proprio “Cliente” come vuole che venga costruito e personalizzato il suo “Prodotto”. Oggi ci sembra una affermazione scontata, quasi banale. Sarebbe impensabile per un imprenditore svegliarsi la mattina e iniziare una qualsiasi attività imprenditoriale senza aver prima individuato: il settore merceologico che offre ancora opportunità, a chi vendere, cosa produrre, e soprattutto, quanto produrre e a che prezzo.

Invece, neanche troppo tempo fa, in Italia la produzione, anche delle grandi industrie come FIAT, seguiva ancora tutt’altra logica: produco quello che so produrre e che ho sempre prodotto ,miglioro la produttività della mia azienda, perchè più produco, più vendo, più guadagno. La saturazione della domanda dei mercati occidentali e lo choc petrolifero di metà anni ’70 indussero le industrie di tutto il mondo a cambiare strategia.

Bisognava applicare logiche di produzione che mettessero il mercato e quindi il cliente finale al centro del processo di produzione. Assistiamo ad un incredibile capovolgimento di logica aziendale: dalla produzione orientata al prodotto alla produzione Marketing Oriented. Gli uffici Studi & Ricerche (R&S) delle aziende si posizionano sotto la direzione marketing e là elaborano prodotti rispondenti ai reali fabbisogni e gusti del consumatore.

Le odierne tecniche di Marketing Strategico sono improntate allo studio del mercato e alla ricerca dei fabbisogni del consumatore. L’ultima frontiera del marketing è la Customer Cure volta al miglioramento continuo della Customer Satisfaction, perché un cliente soddisfatto è un cliente fidelizzato. La Produzione Orientata al Mercato rappresenta un passaggio importante nelle democrazie occidentali, perché induce l’imprenditore a dare dignità al suo potenziale cliente chiedendogli cosa vuole comprare e cosa può comprare.

Il consumatore non è più un “target”, bersaglio passivo ma è un Cliente con bisogni, gusti e stili di vita. L’applicazione della

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filosofia Marketing Oriented alle aziende porta inevitabilmente ad un Processo Democratico di Produzione. Di fatto è il cliente finale che decide la produzione industriale per quantità e soprattutto qualità. Proviamo ora a pensare al Cliente finale come ad un Soggetto Recettore (SR) di un prodotto X) qualunque, proposto da una azienda (SP), che dopo una fase di studi e ricerche assume la forma di “P” un prodotto pensato proprio su misura per SR?

Sembra proprio lo schema logico della Tecnica Sociale applicato però ai processi industriali di produzione anziché al processo di comunicazione. La formula di opinione “O” è costruita in base ai valori sociali del Soggetto Recettore; parimenti il prodotto “P”, orientato al mercato, risponde ai fabbisogni e agli stili di vita del Cliente. Le antesignane e geniali intuizioni di Francesco Fatterello hanno di fatto indicato la strada: anche per le tecniche di marketing, che ricalcano la medesima logica della Tecnica Sociale dell’informazione.

In questo preciso istante la Tecnica Sociale è applicata nella comunicazione così come nel marketing, in tutte le imprese del mondo che operano in una logica di libero mercato. Ovviamente nulla è meno ovvio dell’ovvio – nelle imprese di produzione di servizi marketing oriented vanno comprese anche tutte le iniziative editoriali. La comunicazione per un editore di un Media deve essere considerata un “prodotto” da vendere al pubblico.

Anche i giornali e le televisioni possono essere considerate aziende Marketing Oriented, purché operino autonomamente sul libero mercato, ovvero non usufruiscano di pubbliche prebende – leggi canoni televisivi e sovvenzioni statali alla carta stampa quotidiana. In caso contrario il processo di produzione della “O” potrebbe rilevarsi non necessariamente tagliato su “misura” per SR.

Potrebbe essere un processo Product Oriented del tipo: “scrivo perché sono una buona penna e perchè ho la verità in tasca e quindi il lettore deve pensarla come me” tanto SR comprerà comunque il mio giornale e guarderà il mio TG e, anche se così non fosse, i finanziamenti pubblici mi permetteranno di resistere sul mercato. In questa impostazione si presume che SR sia un soggetto passivo senza scampo e che il ruolo dell’informazione sia quella di condizionare il proprio pubblico.

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Per assurdo, continuando a ragionare così potremmo arrivare a spiegare un paradosso tutto Italiano: Mediaset, organizzazione privata decisamente orientata al mercato, attiva un processo di produzione di un prodotto di comunicazione orientato ai gusti del pubblico e quindi più “democratico” della pubblica Rai che produce per il suo SP politico. Aggiungo un’ulteriore importante riflessione “fattorelliana” – se è vero che il cliente compra solo se il prodotto è stato progettato su “misura” per lui, allora è il marketing che fa vendere il prodotto, non è la pubblicità.

 

La pubblicità informa solo che ” il prodotto che tu volevi ora esiste ed è sul mercato ad un prezzo a te accessibile”. Infatti, nelle aziende, per comunicare correttamente un prodotto, il bravo tecnico dell’informazione acquisisce i dati di SP e di SR dagli uffici di marketing per costruire correttamente la “O”.

E allora è più importante il Marketing o la Comunicazione! Ma questa è un’altra storia che dimostreremo la prossima volta….

Un modo Di-Verso

di SARA ANGELUCCI

E’ ancora forte l’eco dei dibattiti della trascorsa campagna politica: caratterizzata dal tono esasperato degli scambi, dai confronti serrati, dall’aspra contestazione di quella parte imprenditoriale che, naturalmente, sembra più vicina alla passata coalizione governativa. Parole, tante parole, che ogni argomento sembra non aver più il senso costruttivo, o meglio ricostruttivo, di unaCOM_0005 coscienza politica che come fine ha il bene comune e non l’interesse personale.

Così, la critica di parte del gruppo dirigente della Confindustria all’ex Capo del Governo, ha destato stupore. Una parte della nostra imprenditoria, si è accorta che la competitività, passa attraverso la costruzione di relazioni che riconoscono l’altro, relazioni articolate nell’intento di raggiungere un obiettivo comune.

Sono imprenditori che vogliono difendere il prestigio del loro prodotto, che non temono la concorrenza a basso costo, certi che la differenza è nel prestigio del “made in Italy”. Per tutelare e far crescere tutto ciò, chiedono politiche economiche che incentivino la ricerca scientifica e la formazione professionale perché sono certi della necessità di recuperare qualità e professionalità.

Se analizziamo il discorso, tra un superiore ed un dipendente, nel caso in cui i risultati di un incarico non siano quelli attesi, capita spesso di rilevare come il tono sia aggressivo e le frasi pronunciate non abbiano nulla a che fare con l’oggetto del lavoro, SEN_0011ma diventino offese e vessazioni nei confronti del sottoposto.

Stili di comunicazione di questo tipo, ripetuti e continuati nel tempo non sono da stimolo per chi, pur volendosi sentire parte del gruppo, ne è, invece, progressivamente escluso, maturando senso di ostilità nei confronti dell’azienda. Le parole sono piccoli semi che germogliano e crescono nella nostra mente, guidano le nostre azioni e costruiscono la nostra realtà.

Non esistono parole buone o parole cattive, ma esistono espressioni migliori di altre, esistono modi diversi di comunicare, di gestire i conflitti e le situazioni di crisi, dalle quali possono derivare effetti positivi, nuove idee e nuove prospettive.

 

Deformazione?

Così scriveva Francesco Fattorello nell’ottobre del 1974:

Deformazione?

Più volte in queste pagine si è richiamata l’attenzione del lettore sulla soggettività della informazione. Un articolo di un eminente penalista ci dà modo di ritornare sull’argomento.

Si tratta di un articolo pubblicato sul quotidiano romano “Il Tempo” il 1° ottobre 1974, dal titolo “Informazione o deformazione” e già il titolo ci offre occasione per dire qualche cosa e cioè che non molto appropriata pare questa distinzione. Infatti i processi di informazione (tramite il giornale o qualsivoglia altro strumento) possono sempre essere considerati come processi che informano o deformano secondo uno o altro punto di vista dei soggetti recettori.

Francesco Fattorello

Francesco Fattorello

Il fatto che un giornalista pubblichi un rendiconto su una certa mostra d’arte rilevando aspetti negativi atti a screditare la mostra stessa così da indurre il pubblico a non interessarsene, può essere giudicato dagli organizzatori della mostra come una “disinformazione” di quella iniziativa. In materia di informazione i processi muovono da un soggetto promotore tramite mezzi o strumenti atti a trasferire certi contenuti i quali sono la forma data da detti soggetti alla materia oggetto di informazione.

La forma dipende dalle facoltà opinanti dei soggetti promotori. Essi hanno facoltà di informare in quanto hanno facoltà di opinare e la varietà delle “formule d’opinione” che essi possono introdurre nel processo sono infinite e sempre “informanti” o “deformanti” se negative secondo il punto di vista dei soggetti recettori.

Sono i soggetti recettori, diretti o indiretti, coloro ai quali le informazioni possono sembrare “deformate” se divergenti dal modo di vedere, di opinare, che a loro è confacente. Il problema discende sempre dalla soggettività della informazione: soggettività del promotore e del recettore.

Che il promotore informi bene o male è una valutazione del recettore secondo il suo punto di vista; ma è sempre una informazione inserita nel tessuto dei rapporti sociali che è fatto non di informazioni buone o di informazioni cattive, ma di queste e di quelle o meglio di quelle che a ognuno di noi sembrano “buone” e di quelle che a ognuno di noi sembrano “cattive” secondo una valutazione del tutto soggettiva che fa ognuno di noi in virtù di quelle stesse facoltà opinanti con le quali il soggetto promotore le informò per noi.

Coloro che tanto discutono di informazione obiettiva (secondo il loro punto di vista professionale o politico che sia) dovrebbero tenere nella dovuta considerazione la realtà dei fenomeni dai quali non può discendere soltanto la loro obiettività.

Sei in grado di informare e comunicare? La tecnica fattorelliana risponde…

di ELEONORA PICCI

La comunicazione ha sempre rappresentato, sin dalle epoche più remote, uno dei bisogni più reali e concreti degli uomini. Questi, attraverso la comunicazione, hanno creato, mantenuto o alterato l’ordine sociale e le loro relazioni mutando la propria identità. Nessun sistema sociale si sarebbe potuto creare senza la comunicazione, che ha reso possibile la realizzazione di qualsiasi attività.

Il comunicare implica una condivisione e consiste nel rendere partecipi gli altri di ciò che si possiede

A tal proposito in uno spazio di comunicazione quale il Fatto-rello, che vuole informare gli “addetti del settore”, non poteva mancare un’importante sezione dedicata interamente ai processi e ai meccanismi che sono alla base di ogni rapporto di comunicazione. Prima di andare a fondo in tali rapporti è necessario mettere in evidenza l’importante differenza, che pochi conoscono, esistente tra l’informare ed il comunicare.

Si tratta di due momenti inscindibili ma distinti del fenomeno di cui questa sezione del nostro bollettino si occupa. L’informare è semplicemente il “dar forma” all’oggetto che si vuole trasmettere, e rappresenta quindi il momento appena precedente alla trasmissione. Il comunicare invece implica una condivisione e consiste nel rendere partecipi gli altri di ciò che si possiede. Le teorie generali alle quali ci si riferisce per sostenere le tesi esposte, si basano sulle ricerche, approfondite e sempre attuali, del grande studioso di comunicazione Francesco Fattorello.

Da sessanta anni, la tecnica sociale da lui realizzata risulta la più valida, per dimostrare che tutte le componenti del processo di comunicazione hanno un proprio significato. Legata allo status sociale di ciascuno, la comunicazione è un elemento di un complesso sistema organico: cambiando quindi il contesto ed i mezzi in un processo di comunicazione, cambia anche l’efficacia di quest’ultima e la percettività dei suoi soggetti.

L’informare è semplicemente il “dar forma” all’oggetto che si vuole trasmettere

Le tecniche fattorelliane hanno rivoluzionato la maniera di intendere e fare informazione, basando tutto il processo della comunicazione su alcuni “termini chiave”, che costituiscono gli elementi insostituibili dell’impostazione teorica sostenuta dal Prof. Francesco Fattorello. Analizzando più da vicino i termini della tecnica sociale si può facilmente capire il successo delle teorie di questa piccola ma importante scuola di comunicazione di Roma, unica depositaria dell’eredità culturale fattorelliana.

Secondo la Tecnica Sociale, infatti, il fenomeno dell’informazione si concreta in uno speciale rapporto fra due termini principali:quello promotore e quello recettore. Il soggetto promotore (Sp) trasmette al soggetto recettore (Sr) la sua interpretazione (O) del fatto (X), che è il motivo per cui si attiva il rapporto di informazione attraverso il mezzo (M). Per comprendere a fondo il processo è possibile avvalersi della seguente formula ideografica:

X) Mezzo S Promotore S Recettore Opinione

Per ottenere il successo desiderato, l’adesione cioè del Sr alla formula di opinione proposta, tutto il processo di comunicazione dovrebbe ruotare intorno al soggetto recettore: studiarlo a fondo dunque per conoscere la sua acculturazione che determina le attitudini sociali in base alle quali si aderisce o meno alla proposta del Sp.

Quando si verifica una convergenza di interpretazioni tra Sp e Sr sull’interpretazione proposta dalla X), ne scaturisce l’auspicata adesione di opinione. Naturalmente il fenomeno qui analizzato, con i suoi vari elementi che lo compongono, è circoscritto e configurato in una formula ideografica che, pur rappresentando un punto iniziale ed uno finale, non si separa dall’incessante rinnovarsi ed articolarsi dei rapporti sociali, tramite i quali vive e si perpetua la società.

Pur avendo estratto il fenomeno dalla dinamica sociale, è importante sottolineare come questo possa vivere ed abbia senso solo nella realtà sociale. Il fenomeno dell’informazione è alimentato dall’articolarsi dei rapporti sociali nei quali la società si perpetua e si rinnova.

La corretta rappresentazione ideografica dovrebbe quindi essere la seguente: X) M M M SP SR-SP SP SR-SP SP SR-SP O O O Questo schema esplica come il processo di comunicazione attivi altri processi di comunicazione in cui un soggetto recettore diventa, a sua volta, soggetto promotore. Ognuno, dunque, può diventare fonte di informazione, motivo che giustifica l’importanza dell’acquisizione delle tecniche di comunicazione per ciascuno di noi.

Con la messa in atto di un processo di informazione hanno inizio le responsabilità sociali dell’informatore, il quale non dà solo dei ragguagli ma l’avvio a quella catena di rapporti d’informazione nel contesto sociale.

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Francesco Fattorello – il fenomeno dell’informazione: analisi scientifica e metodologia professionale

Roma, 18 aprile 1989
Convegno Nazionale di Studio promosso da IPR e FERPI:
“La comunicazione in Italia 1945-1960”

Francesco Fattorello
il fenomeno dell’informazione:
analisi scientifica e metodologia professionale

relazione a cura di Carlo d’Aloisio
(atti pubblicati in vol. 4 collana “Politica della Comunicazione” – Bulzoni Editore)

Se, come credo di poter interpretare, questo convegno nazionale di studio è stato promosso con lo scopo essenziale di conoscere e di analizzare ciò che di importante si è determinato nel campo della “comunicazione” nel contesto italiano tra gli anni che vanno dal 1945 al 1960, con questo intervento intendo produrre un contributo che ritengo, quanto meno, particolare.

Dalla lettura delle varie testimonianze, che si possono evincere anche dall’incontro preliminare tenutosi lo scorso novembre, certamente emerge un quadro ricco di esperienze personali e professionali molto significative e di analisi storicistiche altrettanto interessanti ed articolate.

Sono tutti elementi informativi che aiutano a comprendere come, in quegli anni nel settore e in concomitanza con una notevole serie di innovativi fenomeni sociali, si siano evolute e sviluppate professioni anche nuove, così come l’avvento di nuovi massmedia abbia contribuito a determinare modificazioni radicali nelle abitudini e nei costumi di vita.

La testimonianza che intendo, però, proporvi si riferisce ad uno studioso del fenomeno dell’informazione, oggi in Italia non da tutti conosciuto, così come ieri, sempre in Italia e soprattutto da una certa “elite” ufficiale, non adeguatamente “riconosciuto”.

La sua opera, tuttavia, a testimonianza dell’importanza scientifica e culturale, è conosciuta e diffusa nelle università e nelle sedi scientifiche estere dove si studiano i fenomeni della “comunicazione” o meglio, se mi si consente una puntualizzazione terminologica, dell'”informazione”.

Curiosamente, ma non nel senso di un’inopportuna sottolineatura campanilistica, è un italiano e dà il nome – lo avrete certamente compreso – all’Istituto di Pubblicismo che qui mi onoro di rappresentare.

Francesco Fattorello, scomparso da alcuni anni, rappresenta uno straordinario patrimonio teorico, scientifico e didattico maturato in 60 anni di attività e sviluppatosi, in particolare, proprio nel periodo considerato dal convegno.

Già oggi, un testo di riferimento come l’Enciclopedia Treccani, citando l’Istituto Italiano di Pubblicismo fondato da Fattorello, segnala le peculiari caratteristiche delle attività interdisciplinari, finalizzate alla pratica formazione professionale dei tecnici operanti nel settore pubblicistico, sottolineandone l’ampiezza dei programmi rispetto alle “semplici scuole di giornalismo e di pubblicità”.

Il Prof. Fattorello, dal 1936 ordinario di Storia del Giornalismo presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma ed autore di una vasta serie di saggi su studi letterari e sulla storiografia del giornalismo italiano, fu, tra il 1939 e il 1942, promotore e direttore de “Il Giornalismo”, la prima (e forse unica per finalità e omogeneità culturale) rivista specializzata in problemi giornalistici.

Fattorello, da ricercatore del fenomeno, proprio in quegli anni maturava la consapevolezza che lo studio del “giornalismo” non potesse essere ristretto in una mera registrazione e analisi dei fatti storici.

La “storia del giornalismo” non poteva identificarsi con la storia degli eventi della società politica puntualmente ripresi dai giornali, né poteva apparentarsi alla storia letteraria; impostazione romantica, quest’ultima, ereditata dal giornalismo di fine secolo, ma che era ancora molto diffusa e per la quale “il giornalismo” era considerato come una sottospecie della “letteratura” ed i “giornalisti”, per tale motivo, una sottospecie dei “letterati”.

Mentre era opinione diffusa ritenere che il giornalismo potesse essere oggetto di storia, il Prof. Fattorello, che pur proveniva da questa tesi, veniva maturando l’idea che non si potesse scrivere la storia del giornalismo finché non fosse chiaro quale in realtà fosse il suo oggetto.

In quegli anni, infatti, il “fenomeno giornalistico” era confusamente vissuto da studiosi e addetti, ora come un’arte, ora come una scienza, ora come una missione (e purtroppo questi luoghi comuni sono tuttora molto diffusi, come ad esempio la mitica tradizione del “giornalista si nasce, non si diventa”), mentre nelle analisi di Fattorello appariva sempre più come un fenomeno legato ad un altro più importante, di cui non si faceva menzione, e che pure era tutto nella vita della società; quello dell’informazione.

Negli anni in cui cominciava a farsi strada anche in Italia la sociologia, già affermatasi nel resto del mondo, l’idea di Fattorello poté trovare terreno fecondo grazie soprattutto all’incontro con Corrado Gini, l’eminente sociologo e statistico, che fornì a Fattorello la risposta ai suoi interrogativi sull’oggetto della storia del giornalismo.

Alla luce di questa disciplina il “giornale” appariva come uno strumento dell’informazione contingente e perciò doveva essere studiato nel quadro di questa prospettiva. Il “fenomeno giornalistico” non era altro che l’esercizio dell’informazione tramite lo strumento del “giornale”; esso non poteva essere più oggetto soltanto della storia politica e della storia letteraria.

Da qui, ora, ricominciava lo studio del Prof. Fattorello: la sociologia consentiva non solo lo studio scientifico del fenomeno sociale, ma soprattutto di far risaltare la funzione del “giornale”, nella dinamica della vita sociale, sui fenomeni d’opinione.

Lo studio della sociologia e gli accostamenti alla statistica portarono Fattorello a confrontarsi anche con studiosi stranieri, soprattutto con Stoetzel, per la sua teoria dell’opinione, e con Dupréel.

Lo sforzo teorico e culturale era quello di riuscire a configurare scientificamente una disciplina che fosse in grado di analizzare il fenomeno giornalistico, in particolare, e quello dell’ informazione, in generale, al di là degli schemi rigidi e sacrali della letteratura e dello storicismo.

Per questo, Fattorello fondò nel 1947, anche grazie al particolare appoggio di Gini, allora Preside della Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università di Roma, l’Istituto Italiano di Pubblicismo, con il proposito di promuovere in Italia un movimento di studi che avesse come oggetto non tanto il giornalismo, ma il fenomeno sociale dell’informazione nelle sue diverse applicazioni.

Nello stesso anno, non senza grandi difficoltà, Fattorello riuscì ad istituire il “Corso Propedeutico alle Professioni Pubblicistiche”, il cui ordine degli studi comprendeva l’analisi del fenomeno dell’informazione articolato in una tecnica che ne individua i due principali soggetti il promotore ed il recettore , la forma data al contenuto, il mezzo; studio completato dal contributo che alla comprensione del fenomeno arrecano la statistica applicata ai sondaggi d’opinione, la legislazione pubblicistica, la storia degli strumenti di comunicazione. L’interpretazione e lo studio del fenomeno non dovevano, tuttavia, essere fini a se stessi: con il “Corso di Applicazione” nacque, così, la “Scuola di Tecniche Sociali dell’Informazione” che prima in Italia conferiva un titolo di qualificazione per l’esercizio delle professioni pubblicistiche.

L’istituto , dunque, si proponeva due finalità: una scientifica, che presupponeva l’interpretazione sociologica del fenomeno dell’informazione; l’altra pratica, finalizzata alla definizione di una Tecnica dell’Informazione come strumento metodologico fondamentale, uguale per le diverse discipline pubblicistiche, quali il giornalismo, la propaganda ideologica, la pubblicità, le c.d. relazioni pubbliche, ecc., sostenendo e dimostrando, cioè, che come esiste una tecnica industriale per lavorare sulle cose, così esiste una tecnica per agire sulle opinioni degli uomini, che consente, una volta individuata, di essere applicata in ogni attività sociale.

Secondo l’analisi di questa tecnica, la dinamica della vita collettiva si concreta in rapporti sociali che costituiscono la trama del tessuto sociale; questi rapporti sono messi in moto dall’iniziativa dei soggetti promotori e si articolano attraverso i mezzi utilizzabili, siano essi naturali o artificiali; tali rapporti di informazione si sviluppano nel rispetto di determinate leggi e di una tecnica che l’uomo pratica se ne è consapevole, ma nei termini della quale è costretto ad operare anche se per avventura la ignora.

L’uomo, perciò, non comunica, cioè non trasmette come una macchina l’oggetto dell’informazione, ma trasmette tramite il mezzo la forma nella quale ha configurato per sé e per gli altri l’oggetto che ha percepito.
‘uomo come essere intelligente è dotato della facoltà di percepire e poi di configurare ciò che ha percepito e quindi di predisporre la trasmissione ad altri di questa rappresentazione.

La trasmissione avviene con uno scopo ben preciso: quello di ottenere da parte del soggetto recettore da considerare sempre come un soggetto opinante un’adesione di opinione alla formula proposta.

Questa formula, proprio per le intenzioni del promotore, ma anche al di là di tali intenzioni, può essere più o meno rappresentativa dell’oggetto del rapporto di informazione, può anche divergere in tutto o in parte; comunque non ci potrà mai essere identificazione totale tra l’oggetto dell’informazione, la rappresentazione del medesimo proposta dal promotore e l’interpretazione da parte del recettore.

E’ questa una delle caratteristiche fondamentali del rapporto di informazione; molte altre, come, ad esempio, l’inesistenza dell’obiettività o la distinzione tra l’informazione contingente e quella non contingente, non possono, per rispetto agli evidenti problemi di tempo, essere rappresentate in questa sede.

D’altra parte, la straordinaria modernità di questa concezione è recentemente testimoniata dalla riflessione e dalla conseguente evoluzione che sta coinvolgendo, in particolare, la stampa periodica americana (ma non solo quella): non più la stereotipata formula dei fatti obiettivi separati dalle opinioni, ma sempre più diffusa la consapevolezza che è il “tasso di opinione” (più o meno accentuato) a caratterizzare (più o meno marcatamente) i processi informativi.

L’opera di Fattorello, nel decennio 1947/57, fu rivolta allo sviluppo ed alla diffusione di questi studi e delle loro applicazioni; tra le altre, attivò iniziative come:
– la pubblicazione semestrale della collana “Saggi e Studi di Pubblicistica” (iniziata nel 1953 e annoverata tra i periodici di alto valore culturale), i cui contenuti documentavano in concreto l’applicazione di questa tecnica ed offrivano materia di consultazione sulle professioni pubblicistiche;
– la pubblicazione mensile, dal 1957, del bollettino “Notizie e Commenti” sull’informazione dell’attualità;
– l’istituzione del “Centro Nazionale di Studi sull’Informazione”, creato d’intesa con la Presidenza del Consiglio dei Ministri nel quadro delle attività internazionali promosse dall’UNESCO.

Fattorello, comunque, nel dicembre del 1959, a coronamento di queste sue nuove ricerche, pubblica la teoria sociale dell’informazione (che aveva già esposta per la prima volta l’anno precedente all’Università di Strasburgo) nel libro “Introduzione alla Tecnica Sociale dell’Informazione”: questo testo avrà numerose riedizioni e sarà tradotto in più lingue anche per essere adottato in diverse università straniere.

Se gli anni ’50 furono anni di riflessione e segnarono per Fattorello il coronamento dei suoi sforzi con l’elaborazione della teoria dell’informazione, gli anni ’60 furono, invece, ricchi di scambi e di affermazioni scientifiche in campo internazionale.

Testimonianza dei proficui scambi intrapresi non sono soltanto le lezioni ed i corsi tenuti da Fattorello in numerose università estere, ma anche la partecipazione che eminenti studiosi di tutto il mondo vollero dare ai corsi da lui organizzati presso la Facoltà di Scienze Statistiche di Roma.

La “Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione” rappresenta, dunque, il contributo per un’interpretazione non solo storicistica del fenomeno “comunicazione”, ma soprattutto una proposta chiara, non ideologica né stereotipata, uno strumento di conoscenza attinente alle scienze sociali, culturalmente aperto al confronto.

La Dott.ssa Rosario de Summers, rappresentante permanente alle Nazioni Unite della Commissione Economica per l’America Latina (con l’incarico di coordinare i rapporti con i massmedia di tutto il mondo), intervenendo quest’anno all’inaugurazione dei Corsi della Scuola di Metodologia dell’Informazione che per il 42° anno consecutivo danno continuità all’impostazione intrapresa da Fattorello ha inteso sottolineare proprio come, nel contesto internazionale, la conoscenza e l’uso delle tecniche sociali stia acquisendo sempre più valenza di fondamentale utilità pratica e metodologica per tutti coloro che, come noi, si occupano quotidianamente di questi problemi.

Per concludere, credo di poter sottolineare come questa occasione possa rappresentare, non solo una sede opportuna per fare onore all’attività scientifica di Fattorello, ma anche un significativo arricchimento agli interessanti contenuti di conoscenza maturati grazie a questo convegno.

Carlo d’Aloisio Mayo