CORSO DI METODOLOGIA DELL’INFORMAZIONE E TECNICHE DELLA COMUNICAZIONE
Prof. Giuseppe Ragnetti – Anno 2011
Lavoro finale di Marta Minotti
CHOMSKY E FATTORELLO A CONFRONTO: TRA MANIPOLAZIONE E LIBERTA’
Abstract
Il presente lavoro si propone di mettere a confronto le teorie elaborate rispettivamente da Noam Chomsky e da Francesco Fattorello riguardanti l’ambito della sociologia della comunicazione.
All’affermazione pessimistica di Chomsky secondo cui “i cittadini delle società democratiche dovrebbero seguire un corso di autodifesa intellettuale per evitare la manipolazione e il controllo”, Fattorello risponde tramite la sua tecnica sociale dell’informazione, che attribuisce pari dignità ai soggetti del processo comunicativo. Il soggetto recettore giudica liberamente e autonomamente le opinioni formulate dal soggetto promotore, il quale non è in grado di influire sulle scelte del soggetto recettore. Quest’ultimo agirà in base ai proprio bisogni e in base a degli schemi che sono frutto della sua acculturazione.
Si concluderà affermando che, contrariamente a ciò che viene sostenuto da Chomsky, non esiste alcuna forma di controllo ideologico sulla popolazione; piuttosto, sarà quest’ultima a dettare le leggi che sono alla base del processo di comunicazione, indicando agli “addetti ai lavori” le proprie aspettative e, soprattutto, i propri bisogni.
Sei al bar, sei uscito con i tuoi amici, per divagarti, per prendere un caffè, per stare un po’ in allegria. Si affrontano vari argomenti, si parla del più e del meno, si menziona un programma televisivo, un servizio del telegiornale, una pubblicità che ci ha particolarmente colpito e si finisce inevitabilmente per condire i nostri discorsi con “ingredienti lessicali” dal gusto amaro: condizionamento, persuasione occulta, messaggi subliminali, strapotere dei mezzi di comunicazione. Al bar eri entrato come libero cittadino, come libero pensatore, credendo di aver arbitrariamente deciso di condividere con i tuoi amici un sabato pomeriggio, davanti ad un caffè gustoso e ad una brioche deliziosa.
Alla fine, torni a casa con la convinzione che quell’uscita non possa più essere definita come “libera”, bensì come “condizionata” da una serie di fattori a noi ignoti, da una forza suprema che si è insinuata in maniera subdola nella nostra psiche al punto da obbligarci a frequentare quegli amici, quel bar, a bere quel caffè e a mangiare quella brioche.
Ma cosa ci spinge a pensare che qualcuno o qualcosa complotti contro di noi? Che qualsiasi cosa facciamo sia il frutto di una manipolazione da parte di cospiratori che controllano le nostre menti affinché tramite le nostre azioni possano raggiungere i loro scopi economici e politici?
L’esempio citato potrebbe sembrare un’esagerazione; si pensi, tuttavia, a quante volte si finisce per attribuire la scelta di un prodotto, nel nostro caso un caffè o una brioche, a un condizionamento che l’ambiente o la pubblicità ha operato su di noi.
Ma a cosa si può imputare la causa di questo senso di oppressione e di persecuzione che genera inevitabilmente pessimismo? La risposta si trova nei manuali di sociologia della comunicazione: a cavallo tra fine Ottocento e inizi Novecento, prendono piede in Europa nuove teorie riguardanti la società, come il concetto di “uomo-massa”, che ha particolare risonanza all’interno della Scuola di Francoforte.
Quest’ultima afferma che la legittimazione dell’ideologia dominante avviene attraverso un consumo quasi esclusivamente passivo che impedisce ogni forma di ribellione. La massa indistinta accetta in modo passivo e acritico le strutture di dominio esistenti. Attraverso le merci, e in particolar modo tramite i prodotti dell’industria culturale, la logica del capitalismo si impone al punto da non consentire più sguardi critici.
Anche oltreoceano si avverte l’eco di tali teorie: si sviluppano delle scuole di pensiero che definiscono il consumatore come target, ossia come bersaglio che gli strumenti del potere possono colpire a loro piacimento in modo da costringerlo a compiere involontariamente azioni finalizzate ai loro scopi utilitaristici.
Nell’ambito di tali teorie, si impone in particolar modo, a partire dalla fine degli anni ’60, quella di Noam Chomsky, linguista, filosofo e teorico della comunicazione statunitense, il cui intento è quello di spiegare come avvenga la disinformazione e quindi la manipolazione intellettuale dell’opinione pubblica attraverso i mass media.
Egli parte dal presupposto che chi detiene lo strumento dell’informazione/comunicazione ha il mezzo indispensabile per poter “comandare” tutto, in ogni settore della vita pubblica e privata. Chomsky è famoso per aver elaborato un decalogo che indica le diverse strategie utilizzate dai mass media per manipolare tutta l’opinione pubblica interessata.
Il primo punto riguarda la strategia della distrazione, secondo cui le élite politiche ed economiche distolgono l’attenzione del pubblico dai problemi importanti, inondandoli di informazioni insignificanti. “Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali”.
Il secondo punto analizza il metodo del “problema – reazione – soluzione”: ad esempio, creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici. Il terzo punto riguarda la strategia della gradualità: per far accettare una misura impopolare, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi.
Inoltre, aggiunge Chomsky, una strategia per far accettare una decisione impopolare è presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento. Il quinto punto spiega come la maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usi discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni.
Inoltre, la pubblicità sfrutta l’aspetto emozionale molto più della riflessione, in quanto il tono emotivo permette di influire sull’inconscio in modo da iniettare idee, desideri, paure, timori o da provocare determinati comportamenti. Le élite del potere devono mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità, spingendo il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.
Bisogna far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile delle proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di depressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. In ultimo, comandamento fondamentale, è conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca, in modo che il sistema possa esercitare un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su sé stessa.
Il decalogo citato è frutto di un attento studio sul sistema dei mass media, i quali, afferma Chomsky,
assolvono la funzione di comunicare messaggi e simboli alla popolazione. Il loro compito è di divertire, intrattenere e informare, ma allo stesso tempo di inculcare negli individui, tramite una propaganda sistematica, valori, credenze e codici di comportamento.
Tuttavia, i mass media sono a loro volta nelle mani di un’élite dominante che svolge nei loro confronti un controllo monopolistico affinché essi servano i loro fini. La parte dei media in grado di raggiungere un pubblico sostanzioso è legata a grandi imprese, a loro volta controllate da gruppi ancora più grandi. Le notizie devono passare attraverso dei “filtri” messi a punto dalle élite dominanti affinché esse possano arrivare alla stampa prive di tutti quegli elementi che non siano meritevoli di pubblicazione.
Tali filtri agiscono in modo talmente subdolo da ingannare anche i giornalisti: questi ultimi sono convinti di agire con assoluta onestà e in perfetta buona fede e di scegliere e interpretare le notizie in modo oggettivo e nel rispetto dei valori professionali. È anche vero che i giornalisti che entrano nel sistema non possono farsi strada se non si adeguano alla pressione ideologica ad opera degli inserzionisti pubblicitari.
L’obiettivo di Chomsky è spiegare il funzionamento dei più avanzati sistemi democratici dell’era moderna, i quali, pur dovendo in linea di principio erigere il popolo a sovrano di tutte le decisioni, vedono il potere concentrasi nelle mani della classe privilegiata, che modella il modo di pensare della popolazione in base ai suoi interessi.
“La mia personale opinione”, afferma Chomsky, “è che i cittadini delle società democratiche dovrebbero impegnarsi in un lavoro di autodifesa intellettuale per proteggersi dalla manipolazione e dal controllo e per gettare le basi d’una democrazia più significativa”.
Pertanto, egli propone una “democratizzazione” dei media, ossia il loro affrancamento dai vincoli del potere privato o statale e auspica che emergano delle forze popolari in grado di opporsi alle strutture del dominio e dell’autorità che governano le vite degli uomini attraverso un sistema di illusioni e inganni adottato per mantenere passiva e marginalizzata “la plebe”.
Con particolare riferimento agli Stati Uniti, Chomsky afferma che dal 1917 fino alla fine degli anni ’80, la “belva bolscevica” ha fornito una pronta giustificazione per accettare ogni violenza legata agli interventi statunitensi nel Terzo Mondo. Il potere e la brutalità della tirannia sovietica erano usati per impaurire la popolazione e quindi per indurla ad accettare sacrifici e disciplina.
La scomparsa dell’URSS ha imposto uno spostamento dell’orientamento propagandistico verso il terrorismo internazionale, i narcotrafficanti latinoamericani, gli arabi, ecc.
I giornalisti scoprono che conformarsi al sistema ideologico architettato dal potere statale e dalla grande industria è più semplice e permette di ottenere privilegi e prestigio. Mettere in questione l’ideologia dominante significherebbe essere tacciati di fanatismo ideologico e essere espulsi dal sistema.
In questo modo, i media principali e le altre istituzioni ideologiche non fanno che riflettere le prospettive e gli interessi del potere costituito. Chomsky afferma che, nelle società democratiche più avanzate, si riscontra il declino progressivo delle istituzioni culturali che appoggiano valori e interessi diversi da quelli dominanti, così da privare i singoli dei mezzi necessari per pensare e agire in maniera autonoma al di fuori dell’assetto imposto dal potere economico.
Chomsky emana una sentenza molto pessimistica, ritenendo necessario assicurare che coloro che governano il Paese e che controllano gli investimenti siano contenti, altrimenti tutti saranno costretti a soffrire: “per i senzatetto che stanno nelle strade, quindi, è prioritario far sì che gli abitanti delle ville siano ragionevolmente soddisfatti; […] l’unica cosa razionale da fare appare la massimizzazione dei vantaggi individuali a breve termine, insieme alla sottomissione, all’obbedienza, nonché all’abbandono dell’arena pubblica”.
Nella nostra democrazia, afferma Chomsky, “il cittadino è un consumatore, un osservatore, non un partecipante”. Sono coloro che detengono il potere economico ad assumersi l’onere di controllare la pubblica opinione, costruendo il consenso attraverso i media e sopprimendo le forze contrarie al loro potere. Per dimostrare la modalità con cui si esplica l’operazione di controllo ideologico interno, Chomsky ha analizzato in particolar modo il periodo storico della Guerra del Vietnam e dei movimenti popolari degli anni ’60 che dovevano essere controllati e neutralizzati, avendo messo in pericolo le capacità concorrenziali delle grandi imprese americane sul mercato mondiale.
Dunque, è stato necessario svolgere un’intensa operazione di fabbricazione del consenso nei confronti dell’élite culturale per costituire “l’illusione necessaria” degli Stati Uniti come parte offesa e dei vietnamiti come aggressori. Infatti, il bersaglio principale della propaganda è di regola costituito da quelli che sono ritenuti “i membri più saggi della comunità”, gli “intellettuali”, gli “opinion leader”, che servono ad arginare possibili sommosse popolari e a controllare il consenso.
Chomsky afferma che nel sistema democratico le illusioni necessarie non possono essere imposte con la forza, ma devono essere istillate nella mente delle persone con mezzi più raffinati. In democrazia c’è sempre il pericolo che il pensiero indipendente dia origine ad un atto sovversivo, quindi è indispensabile eliminare tale pericolo.
Tuttavia, il dibattito non può essere messo a tacere, né sarebbe opportuno farlo, perché in un sistema propagandistico ben organizzato esso può avere una funzione di appoggio alle istituzioni se incanalato entro limiti adeguati e ben precisi. Sempre rimanendo entro confini adeguati, il dibattito va addirittura incoraggiato, perché contribuisce all’affermazione delle dottrine dell’élite dominante e contemporaneamente consolida l’impressione che la libertà imperi. Ai media è data la possibilità di contestare la politica governativa soltanto all’interno della griglia di problemi determinata dagli interessi dello Stato e del potere economico.
I media, dice Chomsky, sono agenzie di manipolazione, indottrinamento e controllo al servizio dei potenti e dei privilegiati.
Nell’assetto sociale attuale, la gente comune deve continuare ad essere oggetto da manipolare, non un soggetto in grado di pensare, di partecipare al dibattito, alle decisioni. Tutto ciò può dare l’impressione che il sistema sia onnipotente, ma è bel lungi dall’esserlo: la gente può resistere e a volte lo fa con grande efficacia.
L’esistenza di limitazioni interne, anche in uno Stato potente, consente alle sue vittime un margine di sopravvivenza e ciò non dovrebbe mai essere dimenticato.
Chomsky si fa portavoce di una “politica democratica della comunicazione” che dovrebbe cercare di sviluppare mezzi d’espressione e d’interazione che favoriscano l’azione individuale e collettiva. Tuttavia, Chomsky afferma che le prospettive di successo d’una tale politica sono inevitabilmente limitate dal potere delle élite, che determina il funzionamento delle principali istituzioni sociali.
La risposta risiederebbe nelle prospettive di successo di quei movimenti popolari, che hanno a cuore i valori repressi o marginalizzati nell’attuale ordine sociale e politico.
Chomsky, nel suo libro “La Fabbrica del Consenso”, afferma che le critiche istituzionali che lui e il coautore del libro hanno presentato vengono comunemente liquidate dai commentatori dell’establishement come “teorie cospiratorie”, ma questo è solo un modo per sbarazzarsi del problema. Il loro studio, al contrario, è legato ad una profonda analisi di mercato, che ha smascherato la modalità con cui le élite del potere, supportate dalle élite intellettuali, riescono ad imporsi e a far valere il loro operato, attraverso un annientamento progressivo dell’opinione pubblica, che resta passiva e dunque incapace di far valere la sua opinione.
Tali considerazioni, seppur convalidate da un’attenta analisi, sono ormai completamente inaccettabili per chi, pur per un breve periodo, si è abbeverato alla sorgente “Fattorello”, fonte di teorie e pensieri positivi che liberano il soggetto dalla paura e dalla gabbia della manipolazione.
Il significato profondo degli studi fattorelliani sta nell’aver rivalutato il soggetto recettore rispetto al soggetto promotore: l’opinione proposta da una minoranza ottiene l’adesione dei recettori che non la accettano passivamente, ma soltanto dopo una valutazione di coerenza con la propria scala di valori. Solo una volta concessa l’adesione il recettore farà sua l’opinione proposta e la sosterrà presso altri recettori.
Nel caso specifico della propaganda, fenomeno preso in esame da Chomsky, Fattorello dice che
è semplice agire sulle opinioni, ma i comportamenti umani restano difficili da prevedere. Quando si parla di propaganda ci si riferisce sempre all’ambito dell’informazione, intesa come tecnica sociale, che giunge all’adesione d’opinione attraverso lo studio delle attitudini sociali che scaturiscono dall’acculturazione dell’individuo.
Per cui l’informazione non ha nulla a che vedere né con la psicologia dell’individuo né con il suo inconscio; di conseguenza non sono psicologiche le tecniche da adottare per agire sull’opinione degli uomini. La tecnica è stata definita “sociale” perché non ha nulla a che fare con i meccanismi della psiche umana che verrebbe, secondo Chomsky, manipolata da seducenti imbonitori dotati di poteri magici in grado di irretire dei “poveri” recettori (lettori, spettatori, consumatori) che quindi non avrebbero alcun scampo.
I parametri di cui il tecnico dell’informazione deve tener conto sono l’acculturazione e la socializzazione dell’individuo. La comunicazione avrà luogo solo quando le opinioni del promotore e del recettore convergeranno in un’unica interpretazione.
Non esiste dunque ciò che viene definito “strapotere” dei mezzi della comunicazione. Sono solo un’illusione gli uomini che hanno superpoteri che condizionano gli esseri umani.
Basta parlare di persuasione occulta e evitiamo di ascoltare coloro che parlano con superficialità di informazione e di comunicazione. Il recettore non è più da considerare oggetto passivo della comunicazione, ma soggetto opinante di pari dignità che interagisce sempre con il promotore, all’interno di una complessa dinamica sociale. Come è stato dimostrato, la Teoria della Tecnica Sociale si pone in antitesi con l’impostazione teorica di Chomsky e dei suoi seguaci, nonché con l’impostazione anglosassone che per decenni ha fatto leva sulla psiche dell’individuo attribuendo alla comunicazione la capacità di “persuasione occulta”.
Non è facile per Fattorello affermare a gran voce la sua teoria, in quanto il periodo in cui si manifesta la sua visione è totalmente influenzato dall’impostazione teorica anglosassone che, come detto in precedenza, vede la comunicazione come un processo subito da un ricevente passivo. Superare l’idea del recettore come target e come altamente condizionabile è stata la sfida dei fattorelliani che hanno di tutta risposta proposto un soggetto recettore dotato delle stesse facoltà opinanti del soggetto promotore.
L’informazione del giornalista, come informazione contingente, potrà “manipolare” positivamente il fatto, per rivestirlo di quell’abito lucente e attraente che lo rende appetibile al consumatore, riconfermando le opinioni cristallizzate e i valori su cui si basa il pubblico. L’individuo, infatti, si conforma automaticamente con quei valori che egli identifica con la verità, col bene, mentre tutto ciò che non riconosce come parte del suo bagaglio culturale rappresenta l’errore e il male.
Le opinioni cristallizzate oppongono resistenza ad ogni trasformazione e concorrono a creare nell’individuo una barriera che contrasta l’entrata di opinioni che non riconosce.
La Tecnica di Francesco Fattorello rappresenta quindi il superamento delle teorie di Chomsky in quanto stabilisce che è possibile influenzare l’opinione di un individuo e non i suoi comportamenti. Tutto ciò che si può ottenere è un’adesione di opinione, ma non si può fare nulla per condizionare i comportamenti degli uomini, che posseggono un sistema di valori determinato dalla loro dimensione culturale e sociale.
BIBLIOGRAFIA
Chomsky N., Illusioni necessarie. Mass media e democrazia, Elèuthera editrice, 1991.
Ragnetti G., Opinioni sull’opinione, Edizioni Quattro Venti, Urbino, 2006.
Fattorello, F., Teoria della tecnica sociale dell’informazione, Edizioni Quattro Venti, Urbino, 2005.
Abbruzzese A e Mancini P., Sociologie della comunicazione, Gius. Laterza & Figli, 2007.