di FRANCESCO FATTORELLO
1. Tutti conoscono quella teoria secondo la quale l’informazione è una quantità. L’informazione come quantità diminuisce l’incertezza. Una informazione riduce della metà la quantità delle incertezze. Due informazioni riducono di tre quarti la possibilità di scelta. E così via. Ma non pare sufficiente dire che quanto maggiore è la quantità delle informazioni tanto minore è quella delle incertezze.
E’ anche vero che quanto maggiore è il numero delle informazioni tanto maggiore è il numero delle possibilità di scelta fra le medesime: i ragguagli diversi su un film mi fanno meditare sulla decisione di andarlo a vedere o meno; i ragguagli diversi su un libro mi mettono in dubbio sulla opportunità o meno di comperarlo. L’informazione è soggettiva e quanto maggiore è il numero degli informatori e delle informazioni tanto maggiore sarà il numero di interpretazioni.
Dunque la scelta da parte di colui che viene informato è tanto più difficile quanto maggiore è il numero delle informazioni; quanto maggiore è il numero delle informazioni tanto più difficile da parte sua dare adesione ad una piuttosto che ad un’altra delle formule di opinione che vengono offerte su qualche cosa. Per questo l’informatore si preoccupa che il suo ragguaglio, la sua informazione prevalga su ogni altra.
Ciò discende dalla natura dei processi di informazione. L’informazione è un fenomeno di opinione: è sempre un fenomeno di opinione e il giornale uno dei suoi strumenti. Ma l’informazione è anche un fenomeno di tale ampiezza che investe tutta la vita
dinamica della società. I rapporti di informazione sono quelli per cui tutti noi che ci troviamo nella condizione sociale di soggetti in stato di comunicazione, diventiamo soggetti promotori di informazioni.
2. Tutti noi, tramite queste attività, intessiamo la rete dei rapporti sociali; rapporti della nostra vita pubblica e privata, delle nostre attività contingenti e di quelle che durano assai di più della vita di un giornale o di un uomo. Nei tempi nei quali viviamo si parla spesso di “diritto alla informazione”. Ma il problema è molto più vasto perché l’informazione, al di là di un diritto che si vuole proclamare, si identifica nella nostra stessa vita sociale. L’ordine dei nostri studi e interessi si sofferma però dinanzi ad una sola delle grandi categorie dei fenomeni di informazione perché noi lasciamo da parte tutto ciò che non attiene alla informazione contingente e collettiva.
Ciò è certamente utile per delimitare l’ambito delle nostre indagini e delle nostre ricerche. Ma sarebbe colpevole dimenticare che, al di là dell’informatore del contingente, vi è l’informatore che non assume come oggetto l’attualità, le opinioni contingenti sui fatti che passano, ma i valori, le opinioni cristallizzate della vita in società. La grande importanza del fenomeno sociale dell’informazione non si può valutare appieno se non si ha la capacità di vedere questo fenomeno in tutta la sua ampiezza.
Ciò significa che i giornalisti sono soltanto una delle categorie degli informatori dell’attualità. Tuttavia una categoria molto importante perché essi, più degli altri, consapevoli o no, polarizzano intorno alle loro opinioni sugli avvenimenti di attualità le opinioni dei loro lettori.
3. Arduo problema quello della formazione professionale dei giornalisti. Sebbene relativamente recente è problema ormai aperto in tutto il mondo. E oggi si stenta a capire come ci siano stati e ci sono tuttora giornalisti che nulla vedono al di là delle attitudini innate con le quali il giornalista eserciterebbe la professione. Comunque il problema della formazione professionale dei giornalisti è problema didattico e in un secondo momento “apprentissage” di pratica professionale.
E’ problema di esperti nella didattica al quale impropriamente può opporsi solo l’esperienza tratta dall’esercizio professionale. Il problema non si risolve ponendo sulla cattedra i giornalisti come non si risolverebbe il problema della formazione dei pubblicitari ponendo sulla cattedra i professori di pubblicità. Come ho avuto modo di dire altre volte, la scuola non può sostituire la pratica professionale; ma neppure l’esercizio professionale si può sostituire alla scuola.
La scuola, convenientemente programmata, assolve compiti diversi dall’esercizio professionale: è propedeutica all’esercizio professionale. Errato dunque confondere didattica con esercizio professionale. Il fatto, come ho detto dianzi, che il giornalismo ha rapporto col fenomeno sociale della informazione, nel senso che il giornale è uno degli strumenti dei processi di informazione, pone già la complessità della programmazione di una scuola di giornalismo che prima delle tecniche strumentali ha da riconoscersi nel fenomeno generato dai processi di informazione.
4. Vi è un paese in Europa dove l’insegnamento del giornalismo ha subito un lungo travaglio manifestatosi attraverso una successiva serie di esperienze che, a mio avviso, sono molto significative. Voglio dire la Polonia.
La scelta da parte di colui che viene informato è tanto più difficile quanto maggiore è il numero delle informazioni; quanto maggiore è il numero delle informazioni tanto più difficile da parte sua dare adesione ad una piuttosto che ad un’altra delle formule di opinione che vengono offerte su qualche cosa
Mi scuso con il prof. Tadeus Kupiz se mi avvalgo dei suoi ragguagli pubblicati sul “Journaliste Democratique” (Praga, dicembre 1967) per riferire su questo argomento. Sebbene l’inizio di un insegnamento del giornalismo risalga in quel paese al 1930, la prima importante istituzione didattica si ebbe nel 1946, dopo la seconda guerra mondiale, con una Facoltà di giornalismo presso l’Accademia delle Scienze di Varsavia.
Nel 1950 fu istituita presso la Facoltà di Scienze Umane della Università di quella città una Sezione di giornalismo. Questa sezione passò nel 1952 alla Facoltà di Scienze Sociali e Filosofiche e nel 1955 diventò Facoltà autonoma con un programma quadriennale allungato a cinque anni nel 1956. Così, per la prima volta in Polonia, una Facoltà di Giornalismo poteva conferire un diploma di studi superiori in questa materia. Ma ecco nel 1960, la Facoltà si trasforma in corso biennale, corso post universitario, al quale possono accedere coloro che hanno conseguito il titolo accademico conferito da una Facoltà universitaria.
Nel giro di venti anni sei successive trasformazioni dovute specialmente alle inquietudini degli ambienti giornalistici. Comunque tutte queste trasformazioni avevano portato alla conclusione che: 1) il sistema migliore era quello di abbordare gli studi di giornalismo dopo una conveniente maturazione compiuta attraverso un ordine di studi universitari; 2) che gli studi di giornalismo possono dare solo una preparazione propedeutica generale sulla materia;
3) che nel giro di due anni si poteva impartire una istruzione sufficiente nella materie specifiche utili alle esigenze della professione; 4) che questa generalità degli studi era anche giustificata dalla impossibilità di creare una scuola che, ad un tempo, potesse preparare e i tecnici del giornale e quelli della radio e quelli della televisione e quelli del cinema; 5) che d’altra parte pareva inopportuno creare tante scuole separate per il giornale, per la radio, per la televisione ecc.
Ma era soprattutto emerso che, sebbene il progresso delle tecniche strumentali moderne ponga esigenze diverse nella elaborazione, l’articolazione dei processi di informazione è sempre la medesima fra materia su cui informare, informatore, strumento, contenuto e recettore. Poi era emerso che, tramite le diverse strumentazioni dei processi di informazione si persegue lo stesso comune obiettivo: formazione delle opinioni del pubblico.
5. Due argomenti di grande importanza: un particolare processo che, per mezzo di una tecnica sociale, porta alla più conveniente elaborazione dei contenuti; un fine comune che muove le diverse strumentazioni dell’ informazione. Ora i comuni problemi di base non sono lo studio delle tecniche strumentali né lo studio di quante altre materie complementari al giornalismo si possono mettere insieme, ma gli insegnamenti relativi ai processi di informazione e ai fenomeni di opinione che si generano allorché l’informatore mette in moto il rapporto con i suoi recettori.
L’esigenza di siffatti insegnamenti di base per un programma più sistematico delle scuole di giornalismo, la necessità di una teoria di base cui orientare il piano didattico di una scuola, abbiamo sentito richiedere anche al congresso internazionale di Praga, nel novembre 1967, dal direttore della scuola di giornalismo di Santiago del Cile quando rilevava la necessità di rinnovare in tal modo i modelli dell’America Latina.
Anche a mio modesto avviso una scuola che si rispetti deve poggiare le fondamenta della sua didattica su una tale sistematica offerta dalla sociologia dell’ informazione.
6. D’altra parte una esigenza di tal fatta si impone alle nostre scuole anche perché esse non dovranno formare soltanto i futuri giornalisti ma i tecnici della informazione qualunque sia l’ordine delle loro applicazioni: sia esso un articolo di giornale o un manifesto o un bollettino di guerra.
Non bisogna pensare che il problema sia circoscritto al giornale o al giornalismo. Quando il portavoce della Casa Bianca diceva che il Presidente Kennedy aveva interrotto il suo viaggio elettorale perché “grippè” mentre invece era corso Washington per gli incombenti fatti di Cuba, agiva nella pratica della politica delle informazioni. Le nostre scuole debbono guardare oltre il giornale che è un piccolo o, se volete, un grande strumento; ma solo uno strumento di fronte alla grandezza, imponente varietà di cui, al di là degli strumenti moderni di diffusione collettiva, si giova l’informazione.
Le nostre sono scuole dell’avvenire. Se noi ben guardiamo aventi, agli orizzonti sconfinati della informazione, esse hanno l’avvenire dinnanzi e non possono fermarsi al giornalismo.
7. Certo in molti paesi le nostre scuole incontrano forti opposizioni. Le opposizioni sono di due ordini: quelle che provengono dall’alta cultura universitaria e quelle che provengono dal mondo professionale. Le prime si hanno nei paesi di più tradizione umanistica e discendono anche dal fatto che non si sa bene quali sono i problemi di cui ci occupiamo.
Se io volessi raccontare la storia della Scuola che io dirigo in Italia e attraverso quali lotte e opposizioni essa potè sorgere or sono ventun anni, in seno alla Università di Roma, il racconto sarebbe molto istruttivo. Né potrei proprio dire che dopo tanti anni di attività ininterrotta e tante positive esperienze, quelle opposizioni siano state infrante. Sia la tradizione umanistica, sia la tenace resistenza delle vecchie forme cui si ispira in certi paesi l’alta cultura accademica sono ancora barriere difficilmente superabili. L’altro ordine di opposizioni discende dai professionisti legati ancora al vecchio adagio: giornalisti si nasce.
Anche qui, sebbene le opposizioni siano di molto attenuate, per motivi del tutto diversi da quelle degli oppositori di cui abbiamo detto ora, da molti non si concepisce che il giornalismo possa essere anche materia di insegnamento, al di là di quello che in modo del tutto artigianale, si può dare al giornalista. Non si capisce che al futuro tecnico dell’informazione bisogna anzitutto dare una appropriata e logica giustificazione della messa in opera della sua attività: per esempio del come e perché il giornalismo abbia funzione strumentale nei confronti della informazione e perché il giornalismo non si identifica con l’informazione.
Ora va detto ai professionisti che le nostre scuole accreditano la dignità della professione e all’opposizione accademica va detto che l’ordine dei problemi di cui ci interessiamo spalanca le finestre su orizzonti che interessano tutta la nostra vita sociale. E’ molto ingenuo, se non colpevole, per noi docenti, lasciar credere che informazione vuol dire “far conoscere”; più colpevole ancora lasciar credere che informazione possa significare “far conoscere obiettivamente”.
Bisogna rendere edotto il futuro giornalista affidato ai nostri insegnamenti degli effetti cui può portare, al di là delle sue intenzioni, l’esercizio dell’informazione. Per questo affermammo prima che le nostre scuole non sono soltanto scuole per giornalisti e che il problema di cui ci interessiamo, e che pare limitato a questioni che concernono solo una professione, sta invece al centro di fenomeni ben più vasti e più drammatici che ci avvolgono ogni giorno con la forza coercitiva dell’informazione.
8. Mentre gli studi storici e giuridici sull’informazione hanno lunga tradizione, e quelli tecnici e sociologici sono di recente sviluppo: quelli sulla formazione professionale sono di data ancor più vicina a noi. Via via che l’informazione è stata intesa come fenomeno sociale e come attività della nostra vita sociale si è fatta strada anche l’esigenza di penetrare nei metodi della formazione professionale.
E si badi bene: non si tratta di sapere quali sono i criteri seguiti nei paesi dell’Est e dell’Ovest europeo, quanto di ricercar i metodi che più si convengono nella formazione di coloro che debbono esercitare una importante attività nella vita sociale del nostro tempo. Scriveva Vladimiro de Lipski che la scuola “assure aux individus la formation générale qui est préalable nécessaire de la formation professionnelle: elle leur fait acquéir les mécanismes de base de la vie sociale; elle leur fait prendre conscience de leur aptitudes et des possibilités que leur offre le milieu; elle contribue à la sélection et à la formation des élites locales et nationales; enfin elle assure sa propre expansion en récupérant en qualitè d’einseignants certains de ses meilleurrs élèves”. Sembrano parole scritte per noi che stiamo esaminando problemi tanto delicati delle nostre scuole.
Per la verità le nostre scuole sono di recente istituzione e si può capire che esigenze pratiche e urgenti si sono imposte alla loro strutturazione. Ma ora è tempo di esaminare i problemi con maggiore ponderazione. E certo, fra i tanti, quello dei docenti e della loro formazione. Una delle ragioni per cui l’alta cultura accademica si oppone alle nostre scuole, specie in alcuni paesi, discende certamente dal fatto che in esse vi è un po’ il superamento della divisione classista fra lavoro intellettuale e lavoro pratico, fra teoria e pratica.
Alla opposizione precostituita di coloro che non ritengono l’informazione oggetto di didattica vanno aggiunti coloro che non vedono l’opportunità di questo connubio. Invece il superamento di questo problema in una integrazione dei relativi insegnamenti è uno dei fatti da rilevare proprio a proposito della formazione dei nostri insegnanti.
E’ chiaro che noi non abbiamo bisogno del professore di sociologia ma del professore di sociologia dell’informazione; è chiaro che noi abbiamo bisogno del professore di tecnica delle arti grafiche, ma di quello che è esperto nelle “formule de presentation de la presse quotidienne”.
Bisogna dunque anche ricercare i metodi che più si convengono nella formazione di coloro che debbono non solo “expliquer”, come si potrebbe pensare, ma rendere consapevoli gli interessi delle responsabilità sociali che assumono nell’esercizio della loro funzione