Le Venti Regole d’Oro (per Scrivere bene)

QUANDO SI SCRIVE, L’IMPORTANTE NON E’ SOLTANTO EVITARE GLI ERRORI D’ORTOGRAFIA O GRAMMATICALI.

CI SI DEVE ANCHE SFORZARE DI ESSERE CHIARI ED INCISIVI. UN QUALUNQUE SCRITTO,CHE SIA UNA LETTERA, UNA RELAZIONE O UN TEMA, COMUNICA PENSIERI E FATTI.

SE E’ REDATTO IN MODO OSCURO O TORTUOSO LA COMPRENSIONE DIVENTA DIFFICILE SE NON IMPOSSIBILE.

PER FARSI CAPIRE E PER MIGLIORARE LA PROPRIA CAPACITA’ DI SCRITTURA, SARA’ BENE ATTENERSI AI SEGUENTI CONSIGLI:

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Esiste un limite alla libertà di stampa ?

Il pilastro principale è senza dubbio la libertà di espressione (che nel giornalista si coniuga in diritto di cronaca nel rispetto della verità dei fatti), senza cui la stampa cesserebbe di esistere; ma questa libertà non deve mai mancare di rispetto alla reputazione altrui (in un articolo non si può diffamare un’altra persona). Per finire, la terza caratteristica principale della stampa è quella di rispettare l’interesse pubblico, senza il quale non esisterebbe la ragion d’essere del diritto di cronaca.

La “notizia di uno stupro” viene spesso trasformata in uno “stupro della notizia” in quanto è sovente che per accattivare il lettore, i giornalisti non esitino a riempire l’articolo di fatti e dettagli superflui, che non fanno altro che confondere le idee e suscitare la morbosità della gente, oltre ad alterare il valore originario della notizia.

Il limite del diritto alla libertà di espressione consiste nel rispetto dell’altrui reputazione. Risulta tuttavia possibile fare cronaca giornalistica su degli avvenimenti che riguardano un’altra persona, anche se mettono in luce la riprovevolezza della condotta, purché le informazioni siano vere e ci sia un interesse pubblico a supportare la notizia (qui ritornano i tre cardini della stampa libera e corretta).

Questa affermazione è legata alla tesi di fondo dell’articolo in quanto si può effettuare una cronaca solo nel momento in cui vi è anche un’interesse pubblico a supportarla, dove con interesse pubblico si intende il comune interesse proprio della collettività di individui che è la comunità, considerata come unità. Se questo presupposto non ci dovesse essere, allora il giornalista non è più autorizzato a scrivere e a pubblicare l’articolo.

Se Foscolo aveva stabilito come parametro di civilizzazione di un popolo la modalità con cui venivano seppelliti i defunti, a questo aggiungerei anche il livello di libertà di stampa, compreso in un più generale concetto di libertà di pensiero, che spesso viene considerata ancor più importante della libertà personale.

Infatti sin da quando è stata inventata, con i caratteri mobili di Gutenberg, la stampa è stata il mezzo preponderante con cui esprimere la propria voce e le proprie idee, e di conseguenza è presupposto e condizione di ogni altro istituto in un ordinamento democratico e tollerante.

La Costituzione italiana con l’art. 21 riconosce a tutti il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione e il secondo comma dello stesso articolo vieta le autorizzazioni e censure sulla stampa.

Ma la libertà di stampa non coincide con il “posso dire tutto quello che voglio”, e per questo ne sono stati fissati dei limiti, non certo con l’intenzione di limitarla, quanto con quella di tutelare la libertà di tutti.

Il fulcro della libertà di stampa è innanzitutto la verità. Il giornalista deve necessariamente attenersi alla verità fattuale, senza fantasticare sull’accaduto, e secondo poi non deve ledere la reputazione altrui.

Quand’anche questi due presupposti venissero rispettati, rimane tuttavia sempre al centro il problema di quanto una notizia sia oggettiva in qualsivoglia contesto, che sia politico, sociale o giuridico. Può infatti il giornalista o lo scrittore dire e riportare fatti senza minimamente influenzare questi con la sua opinione, la sua educazione o il suo pensiero?

Possiamo essere certi che le notizie che riceviamo non siano alterate in qualche modo, considerando che tutti i mezzi di comunicazione sociale dipendono da una proprietà, da un gruppo di potere economico o ideologico che hanno come obbiettivo primario l’adesione di opinione dei ricettori?

No, questo è sicuramente impossibile, in quanto il fatto in se non potrà mai entrare in un giornale o in una televisione, ma sarà sempre soggetto all’interpretazione dell’autore e all’approvazione di un suo superiore.

Informare significa infatti “dare forma” ad un fatto, “vestirlo”: il giornalista dà forma a ciò che intende trasmettere al proprio recettore ai fini del consenso; ma in questo non si deve necessariamente vedere un lato negativo, in quanto, purché alla base via sia una verità, la libertà di stampa consiste proprio nel poter esprimere la propria visione della realtà.

Per fare un esempio, se un giornalista novizio assistesse ad un incidente in cui un’auto urta un motorino e ne sbalza fuori il conducente, senza grandi danni, ma comunque con qualche contusione, ne verrebbe fuori un’articolo in cui tutto viene reso in modo melodrammatico e terribile.

Se invece allo stesso incidente assistesse un giornalista inviato di guerra, che ha assistito alla violenza e alla brutalità degli scontri bellici, ne scriverebbe un articolo di neanche due righe.

L’informazione giornalistica non rispecchia, dunque, la realtà quanto, piuttosto, valorizza frammenti di realtà, che appaiono interessanti in base alle contestualizzazioni di natura culturale, politica, economica e sociale.

Il giornalista non è obiettivo e non perché non vuole, ma semplicemente perché non può; però ha un obiettivo: ottenere il consenso del recettore, perché senza consenso non c’è comunicazione.

L’uomo, sia esso uno scienziato, uno storico, un giornalista, non può uscire dalla propria soggettività: pertanto, coloro che credono di essere obiettivi, esprimono solo la loro verità.

Alla luce di queste considerazioni potremmo domandarci se la nostre opinioni non siano altro che il frutto di quelle altrui, che riceviamo passivamente dalla lettura del giornale o dalla visione di un telegiornale. Ma fortunatamente la risposta è no, in quanto, grazie alla pluralità dell’informazione (altro pilastro della libertà di stampa), le persone possono estrapolare, dalla grande quantità di dati che ricevono, la loro personale idea sull’argomento.

Occorre infatti assumere come principio inderogabile il carattere relativo e costruzionistico della realtà. Solo così sarà possibile “informarsi” senza l’illusione di “possedere” la verità : ovviamente dipenderà dai singoli interessi e dalle personali convinzioni socio-politiche e culturali, assumere come “propria” una determinata visione, ma partendo però dal presupposto che si legge solo una delle tante possibili ricostruzioni di un determinato evento e che sia comunque opportuno leggere diverse interpretazioni dello stesso fatto, non per ricercare una verità che appare probabilmente irraggiungibile, ma al fine di possedere delle alternative, valide o meno, di giudizio.

Ogni ricostruzione – o quasi – potrà così possedere i requisiti di veridicità, in quanto grazie all’onestà intellettuale di chi scrive, il lettore saprà a priori che il fatto è stato costruito secondo la visione più obiettiva possibile, ovvero la propria.

Ma la libertà di stampa non é purtroppo prerogativa di tutti i paesi. Nei regimi assolutistici non si riconoscono libertà all’individuo che infatti è considerato suddito e non cittadino, quindi non soggetto di diritti.

Se tutti infatti possono esprimere le proprie idee significa anche che possono essere divulgati pensieri e punti di vista diversi quelli conformi al potere politico e ciò potrebbe significare mettere in crisi e danneggiare la classe governante, che per questo motivo cerca di eliminare il problema vietando la diffusione di ideali diversi da quelli conformi attraverso la censura, ovvero rendendo necessarie autorizzazioni preventive.

E questa non è certo una novità. Sin dall’antichità, e addirittura prima di Cristo, si annoverano i primi esempi di censura, attraverso la quale si eliminavano bruciandoli i libri che erano considerati pericolosi e molto spesso condannando al rogo i loro autori.

Si potrebbero fare numerosi esempi di questi avvenimenti, ma di sicuro il più conosciuto riguarda “l’Indice dei libri proibiti” emanato dalla chiesa sotto Papa Paolo IV nel 1559, per evitare il diffondersi di eresie nei fedeli cattolici, e durato addirittura fino al 1996, dopo essere stato aggiornato almeno venti volte. Una celebre vittima dell’indice fu il teologo tedesco Martin Lutero, che dopo numerose controversie e peripezie, la spuntò da vincitore e diede vita alla chiesa protestante. Ma non tutti furono fortunati come lui, e per trovarne un esempio basta guardare la biografia dello scienziato pisano Galileo Galilei, che fu costretto ad abiurare le sue teorie in nome del cristianesimo, poiché andavano contro i dogmi della fede cattolica, nonostante la loro veridicità che fu dimostrata più tardi.

In epoca più recente si può citare la censura operata dal regime durante il ventennio fascista, che puntava a oscurare ogni contenuto ideologico alieno al fascismo o considerato disfattista dell’immagine nazionale, ed ogni altro tema culturale considerato disturbante il modello stabilito dal regime.

Infine come un ulteriore esempio che riguarda l’attualità, l’epoca del coronavirus, si può citare il controverso comportamento del governo cinese, regime totalitaristico, che sembra abbia nascosto, o perlomeno fatte trapelare in ritardo e in modo filtrato, le notizie sulla vera origine del virus e i dati del decorso dell’epidemia per diversi motivi che in qualche modo potessero nuocere all’immagine della nazione stessa. L’Europa sembra essere attualmente il continente dove maggiormente è garantita la libertà di stampa ed è più facile esercitare il mestiere di operatore dell’informazione, anche se con qualche ombra.

Tuttavia, secondo il World Press Freedom Index 2020, documento che contiene la classifica mondiale delle nazioni più virtuose dal punto di vista del diritto ad informare e ad essere informato, presentato i primi di maggio a ridosso della Giornata mondiale della libertà di stampa, si sta entrando in un decennio decisivo per il giornalismo, anche a causa della crisi del coronavirus.

L’edizione 2020 del rapporto suggerisce infatti che i prossimi dieci anni saranno fondamentali per la libertà di stampa, per via di una serie di crisi convergenti. Una crisi geopolitica, dovuta all’aggressività di regimi autoritari nei confronti dei giornalisti. Una crisi tecnologica, per cui l’assenza di una regolamentazione adeguata nell’era della comunicazione digitale ha creato il caos delle informazioni. Propaganda, pubblicità e giornalismo sono infatti in diretta concorrenza. In ultimo, una crisi economica che ha causato l’impoverimento del giornalismo di qualità.

Concause di una situazione a cui si è aggiunta l’emergenza sanitaria mondiale, e alcuni aspetti della pandemia minacciano il diritto delle persone di avere a disposizione informazioni affidabili.  Sulla gravità del problema è necessario richiamare l’attenzione di tutti gli italiani consapevoli.

La libertà della stampa è sempre cosa preziosa; ma nei periodi di sottogoverno, e di mal costume politico, è una necessità vitale e inderogabile. Nessuna sventura maggiore potrebbe cadere oggi sul nostro Paese di quella rappresentata da una stampa imbavagliata, o intimidita, o costretta al conformismo.

Fonti:

  • “Cenni di diritto dell’informazione” di Alberto Alvazzi del Frate, 1992.
  • Lifegate 20, “reporter senza frontiere”
  • “La Tecnica Sociale dell’Informazione” di Francesco Fattorello

Terapia della “Parola”

Siamo quotidianamente sempre di più inondati da “parole” non sempre correttamente utilizzate; diviene, quindi, opportuno ricordare e sottolineare la valenza terapeutica della “Parola” ed il suo corretto utilizzo in funzione della Comunicazione.

 

 

L’Eroe di Solferino

L’episodio del giovane luogotenente che, sul campo di battaglia, fa scudo del suo corpo e salva la vita dell’Imperatore Francesco Giuseppe, è tratto dal libro di Joseph Roth “La marcia di Radetzky”.

Intervista al prof. Ragnetti sull’opinione pubblica

GIUSEPPE RAGNETTI E L’OPINIONE PUBBLICA

Il professor Giuseppe Ragnetti ha gentilmente rilasciato un’intervista a Francesco Bergamo, direttore responsabile dell’Agenzia Informatore Economico-Sociale.

Giuseppe Ragnetti, ascoltatore parlante. Professore di Psicologia Sociale. Specializzato nelle discipline dell’Informazione e della Comunicazione. Ha raccolto l’eredità culturale e continua l’opera del suo maestro Francesco Fattorello, approfondendo lo studio della originale Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione che insegna nei contesti più diversi favorendone la conoscenza e la fruizione a tutti i livelli.

Dirige l’Istituto Francesco Fattorello in Roma, dando continuità scientifica e didattica alla prima Scuola italiana del settore, fondata nel 1947. E’ membro istituzionale di IAMCR-AIERI, organismo internazionale dell’UNESCO, fondato a Parigi nel 1957, con il compito di coordinare studi e ricerche sulla comunicazione in tutto il mondo. Docente alla Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno (SSAI) Roma.

Già docente al Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione e al Corso di Laurea specialistica in Editoria Media e Giornalismo dell’Università degli Studi Carlo Bo – Urbino.

Professore, lo scopo di questa intervista è quello di dare agli studiosi della pubblica opinione la possibilità di studiare la materia da una diversa visuale. Le farò otto domande.

Nel corso della sua vita privata e professionale si è mai posto la domanda da che cosa sia regolata l’opinione pubblica?

«Mi sono posto la domanda e mi sono dato la seguente risposta: l’uomo è animale sociale e, come tale, ha un bisogno fisiologico di un continuo confronto su tutto ciò che, in qualche modo, lo riguarda. E arriva al punto di opinare su tutto, purché attraverso l’informazione e i suoi mille strumenti di diffusione (ivi compresi anche i rapporti interpersonali) sia venuto a contatto con il problema opinabile. Si tratta di un innato e naturale meccanismo mentale, al pari del respirare e del parlare.

Potremmo azzardare l’ipotesi che a regolare l’opinione pubblica sia soprattutto ciò che ci ha reso gli animali sociali che ora siamo, con le mille sfumature e diversità che ci caratterizzano e ci identificano. In sintesi, penso che sia la vita a regolare l’opinione pubblica prima a livello individuale e poi a livello dei gruppi sociali di dimensioni sempre maggiori fino ad arrivare al comune sentire di un intero paese o di una comunità in senso lato».

Quando, per la prima volta, ha preso coscienza dell’esistenza dell’opinione pubblica?

«Forse da sempre. O, perlomeno, da quando ho capito che qualcuno per convalidare le sue idee e, soprattutto, per raggiungere i suoi obiettivi, faceva largo uso di affermazioni quali la gente dice … il Paese vuole … gli italiani ci chiedono … l’opinione pubblica si interroga … etc. E, tanto per citare un esempio concreto, nella comunicazione politica il malvezzo di fare riferimento alla opinione pubblica rappresenta la più diffusa forma di disonestà intellettuale.

Si parla di un fenomeno e si fa continuo riferimento allo stesso, senza avere la minima conoscenza del fenomeno stesso, della sua struttura e dei meccanismi evolutivi che presiedono al suo manifestarsi».

Il suo approccio al tema in questione è frutto di studio oppure è dettato dall’istinto e dall’esperienza personale?

«Senza dubbio da un istintivo interesse personale che mi ha spinto a studiare il fenomeno e a tentare di capire le sue componenti e le sue dinamiche, anche attraverso la pluriennale esperienza didattica di Scienze dell’Opinione.

A proposito di studio, sono il fortunato possessore di un volume del 1943. E’ in lingua francese: “Theorie des opinionsà” di Jean Stoetzel, uno dei massimi studiosi del fenomeno dell’opinione pubblica.

Il mio maestro Francesco Fattorello si è confrontato con lui condividendone appieno la sua impostazione teorica. Personalmente ho trovato in questo autore molte risposte che cercavo e ritengo fondamentale per tutti gli studiosi e per gli addetti ai lavori, la conoscenza della sua impostazione scientifica.

Il suo approccio prettamente sociologico ci aiuta a capire l’individuo all”interno dei gruppi sociali e la sua acculturazione, che ha generato le sue attitudini sociali, ci spiega come possa nascere un’opinione condivisa e quindi una pubblica opinione».

Che metodi usa per rilevare la pubblica opinione?

«Il metodo più comune è quello delle ben note indagini demoscopiche che presentano accanto alla loro breve validità temporale, un limite ben più grave e, tuttavia, costantemente ignorato, e cioè il non tener conto dei diversi contesti in cui si effettuano le rilevazioni.

L’unica garanzia offerta è quella dell’attendibilità del campione, in quanto qualitativamente e quantitativamente rappresentativo dell’universo da indagare. Non si può pensare che un ragazzo possa fornire la stessa risposta ad esempio sull’argomento sesso, se interrogato fuori della scuola, nel gruppo ristretto degli amici maschi, in aula con il prof presente, o magari in famiglia.

E, invece, tutti i guru televisivi dei sondaggi quando va bene ci indicano l’ampiezza del campione e la sua distribuzione territoriale (nord, centro, sud e isole maggiori) o la sua dichiarata(!!??) appartenenza politica (centro, centrosinistra, centrodestra). E allora non posso, sommessamente, non ricordare a questi grandi esperti che non basta essere laureati in Scienze statistiche (quando lo sono) per poter conoscere e rappresentare correttamente un fenomeno di tale complessità .

Personalmente applico un metodo molto diretto , semplice ed efficace, per farmi un’idea dell’aria che tira e, quindi, capire qual’è l’opinione condivisa dai più su un determinato problema contingente. Si tratta di ascoltare le persone nei contesti più diversi (la fila alla cassa del supermercato, il viaggio in treno Roma-Milano, la sala d’attesa dello studio medico, le ore sotto l’ombrellone, lo spostamento in taxi, la serata conviviale …) non dimenticando, ovviamente, l’importanza dei diversi contesti».

Il suo metodo personale per creare un’opinione pubblica a lei favorevole: in che cosa consiste e di quali strumenti si avvale?

«Il mio metodo consiste nell’essere credibile perché io credo in quel che dico e faccio, enfatizzando di volta in volta gli aspetti della mia personalità che possono essere di maggior interesse per chi mi ascolta. Ricordate il Presidente Pertini? anch’io ho fatto la resistenza … anch’io ho fatto il muratore. … anch’io anch’io sono stato in galera … e, incredibile ma vero, anch’io sono stato bambino !!! detto agli scolari in visita al Quirinale!

Il mio metodo è un segreto di Pulcinella tuttavia ignorato dai più: per creare un’opinione pubblica a me favorevole non è importante ciò che per me è importante, ma è di fondamentale importanza ciò che è importante per i miei interlocutori. La posta in palio è altissima: si vince o si perde, si vende o non si vende e allora si lavora o non si lavora, si seduce o non si seduce etc. etc. …

Quando saranno passati un po’ d’anni e gli storici indagheranno a bocce ferme e con occhio sociologico il ventennio politico attuale, sarà chiaro comprendere il perché dei successi o degli insuccessi dei vari schieramenti. Ho dimenticato di dire che la mamma della credibilità è la coerenza, mentre la figlia è l’affidabilità, qualità ormai sempre più rara e per questo sempre più apprezzata».

Trova differenza tra la formazione dell’opinione pubblica in Italia e all’estero?

«Penso proprio di sì: ma farei in primis una differenza sostanziale tra la vecchia Europa e la giovanissima America e poi tra i Paesi del nord Europa e quelli mediterranei.

Negli Stati Uniti, ad esempio, non è un problema dichiarare la propria appartenenza politica. In Italia rispondere ad un sondaggio sia pure in forma anonima, di votare in un certo modo, non ci offre nessuna garanzia che poi il voto reale sia coerente con quanto dichiarato.

E questo perché? Perché siamo persone ancora con un minimo di autonomia di scelta e non vorremmo essere incasellati in nessun modo. Non tutti e non sempre ci si riesce ma quando è possibile ci piace pensare di poterlo fare! E allora proverò il piacere di una decisione autonoma e sarà una gratificante trasgressione il fare di testa mia.

Per questo non dovremmo dimenticare mai la storia dei pifferi di montagna e non vendere mai a qualche credulone come oro colato indagini frettolose e superficiali senza la minima credibilità scientifica. E poi quel che funziona negli Stati Uniti non è detto che funzioni anche da noi».

Influenza di più il giornale, la televisione, la radio, internet o le relazioni e le amicizie con il passaparola?

«Qualche anno fa’ all’Università di Urbino proposi una Tesi di laurea dal titolo “Il modello turistico riminese: un fenomeno sociale tra dimensione umana e comunicazione”. Si trattò di un’analisi approfondita e documentata alla ricerca degli ingredienti principali del successo della Riviera romagnola.

I risultati? Nel capitolo conclusivo che affronta “Gli strumenti di promozione” si legge testualmente: “Se la televisione rende popolari i luoghi dai quali trasmette, quello che fa scegliere, decidere, prenotare, però, il passaparola”!!!

E allora permettetemi di dubitare del presunto potere, più o meno occulto, dei mezzi di informazione di condizionare il pubblico. Basti pensare alla fine ingloriosa di regimi e dittatori che disponevano, in assoluto, di tutti i mezzi d’informazione.

Basti pensare alla perfetta organizzazione mediatica di cui dispone la Chiesa: i suoi messaggi trovano una risonanza ed una visibilità non comune su tutti i mezzi d’informazione.

Da duemila anni la Sala stampa vaticana emette lo stesso comunicato, puntualmente ripreso dai media di tutto il mondo: “Amatevi l’un l’altro, non fate la guerra” ma quel che, invece, accade nel mondo è, purtroppo, di triste attualità.

I mezzi di informazione certamente agiscono sulle opinioni (siamo tutti contro la guerra!) ma non sono in grado di condizionare i comportamenti degli uomini: sono altri i motivi, alcuni noti altri meno, che stanno alla base delle nostre azioni».
Nei Paesi democratici il governo influenza l’opinione pubblica?

«I governi, anche democratici, attraverso l’intero sistema dell’informazione e della comunicazione, tendono sempre ad influenzare l’opinione pubblica, ma non è detto che ci riescano. E spesso i risultati non sono quelli attesi!

A costo di ripetermi debbo ribadire la complessità del fenomeno opinione pubblica è fatto di mille sfaccettature perché di mille sfaccettature è fatta la mente umana. Non sempre risulta facile comprenderne i meccanismi ed influenzarli, così come illustri personaggi di scuola americana vorrebbero far credere.

Basterà leggere l’ultimo manuale del perfetto persuasore et voilà nessuno potrà resisterti e l’opinione individuale prima e collettiva poi, ti seguiranno tranquillamente, felici di poterti dire: Son come tu mi vuoi! … Ipse dixit!».

Professore, grazie.


Nota: Intervista del 24 aprile 2013

Dieci regole per ascoltare e leggere … in modo critico e “indipendente”

Il Medium è il Messaggio ? la valenza comunicativa della Piazza

Il Medium è il Messaggio ? la valenza comunicativa della Piazza è questo il titolo della Tesi di Laurea che nell’anno 2007 proposi ad un’ottima studentessa del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, all’Università di Urbino.

Giulia Pasini si laureò brillantemente in Scienze della Comunicazione e poi nella Laurea Specialistica in Editoria Media e Giornalismo con il massimo dei voti e lode.

Non potevo immaginare che tredici anni dopo l’argomento  della Piazza sarebbe diventato così attuale, grazie all’uso che il Movimento delle Sardine ne sta facendo: e tanto meno che la Tesi di Giulia Pasini potesse fornire interessanti spunti di riflessione al suddetto movimento.

La Piazza può essere considerata un potente mezzo di comunicazione.

La Tesi contiene un’analisi della sua valenza comunicativa a partire dalla sua simbologia, dalle antiche piazze, Agorà e Foro Romano, alle piazze del Medioevo, sedi di roghi e impiccagioni; dalle Piazze politiche del Novecento a quelle odierne; dalla Piazza sede di antiche feste e, oggi, di eventi culturali, alla Piazza religiosa, fino alla nascita della “Piazza virtuale” di internet.

In linea con gli obiettivi che ci eravamo posti, dalla Tesi è emersa un’analisi della valenza comunicativa della Piazza, attraverso le sue diverse interpretazioni: commerciale, politica, culturale, religiosa.

La Piazza come luogo di costruzione di una comunità nell’antichità, cuore della vita civile, religiosa e commerciale; come luogo di punizione nel Medioevo; la Piazza politica come strumento di protesta e di manifestazioni politico-sociali; la Piazza ludica come scenografia per eventi culturali; la Piazza “dell’abbraccio” come strumento di comunicazione religiosa; la nascita di una nuova Piazza, virtuale, grazie allo sviluppo della nuove tecnologie.

D’accordo con Giulia Pasini proponiamo agli amici del nostro Istituto Fattorello l’Introduzione, la Premessa, il Sommario e la Conclusione della Tesi stessa, nonchè il capitolo “La Piazza Politica.

Giuseppe Ragnetti


Introduzione

“Ogni volta che si entra nella piazza ci si trova in mezzo in mezzo ad un dialogo”

Italo Calvino [1]

La piazza è un potente mezzo di comunicazione, lo è stato fin dall’antichità, lo è ancora oggi.

Ciò che ha ispirato questa mia ricerca sono state, prima di tutto, le immagini offerte dai  media, piazze affollate, persone di ogni età che, durante le manifestazioni di protesta contro i governi degli ultimi anni, hanno riempito, con le loro rivendicazioni, gli spazi di quotidiani e telegiornali, facendo emergere la voglia di “lottare” insieme a persone sconosciute, in favore di interessi comuni.

La piazza è un dialogo, riprendendo Italo Calvino, perché è il luogo in cui ogni individuo si affaccia alla dimensione pubblica, è lo spazio-tempo della condivisione, dello stare insieme, ambito privilegiato di chiacchiere e microcomunicazioni, luogo della protesta ma anche luogo della festa.

Perché l’uomo ha bisogno della piazza? Perché essa è un vero “ crocevia dell’opinione”[2], luogo privilegiato per la genesi e l’evoluzione dell’opinione pubblica.

Si può ipotizzare che ogni piazza gremita di gente sia un mezzo attraverso cui si comunica: la piazza, essendo un mezzo familiare e amato, può diventare di volta in volta messaggio politico, ludico, culturale, religioso.

La ricerca ha inizio con una breve analisi della storia della piazza e della sua triplice funzione, delineatasi nel Medioevo, di piazza religiosa, politica e commerciale e della simbologia della piazza e di tutti i luoghi pubblici e gli elementi che si affacciano su di essa: i caffè e le osterie, luoghi di ritrovo e di scambio di opinioni; la chiesa e il sagrato; le bande musicali, musica di piazza; l’uso della piazza per gli eventi militari come le parate.

Segue una descrizione delle antiche piazze, centro della vita civile, commerciale e religiosa della polis greca e dell’ Impero romano: Agorà e Foro.

Le piazze nel Medioevo diventano luogo del terrore e della punizione, teatro di esecuzioni, di roghi e di impiccagioni, remora per tenere vivo il potere temporale della Chiesa: ne sono emblema Piazza del Mercato Vecchio di Rouen sede del rogo di Giovanna D’Arco, Piazza della Signoria a Firenze per l’esecuzione di Girolamo Savonarola e Piazza Campo de’ Fiori a Roma per quella di Giordano Bruno.

La Piazza Politica nasce nell’ Ottocento: la piazza diventa mezzo per gridare la propria voce nelle prime manifestazioni di protesta e di lotta per problemi sociali.

La comunicazione politica attraverso la piazza si esprime tramite il comizio, strumento utilizzato per attirare la folla, soprattutto con l’avvento del microfono.

Secondo la sociologia francese le manifestazioni di piazza sono “l’affermazione fisica di un’opinione”[3] e diventano un canale privilegiato per la presentazione pubblica delle opinioni[4]. Analizzando i dati Istast che emergono dalla ricerca “Piazza, popoli e rappresentanza” realizzata nell’ambito dell’iniziativa “Un mese di sociale. Leaders senza popolo. Popolo senza leaders”, presentata al Censis nel giugno 2004 dal Direttore Giuseppe Roma, da Maria Pia Canusi, curatrice della ricerca, e da Giuseppe De Rita, Segretario generale del Censis[5], vedremo che la piazza  è vissuta come strumento che può influire sulle decisioni politiche e come esperienza di vicinanza fisica e di protesta.

La piazza Ludica è la piazza che ha ospitato le antiche feste del passato, gli spettacoli d’animazione di giocolieri, cantastorie, saltimbanchi e burattini, girovaghi di piazza in piazza, e oggi è scenografia degli eventi culturali, mezzo attraverso cui si comunica tradizione e cultura. Attraverso la descrizione di due eventi fortemente legati alla piazza, il Palio di Ferrara e il Festival dei Due Mondi di Spoleto, emerge quanto sia profondo e radicato il rapporto tra piazza e dimensione ludica, tra piazza e dimensione culturale.

La Piazza dell’Abbraccio è Piazza San Pietro, luogo di comunicazione religiosa, sede di eventi memorabili legati alla storia della Chiesa, potente richiamo per i fedeli di tutto il mondo. Attraverso la televisione, a partire dalla seconda metà del Novecento, questa piazza è entrata in tutte le case del mondo: le immagini del “discorso alla luna” di Giovanni XXIII, le folle di Giovanni Paolo II e i suoi funerali in mondovisione rimangono indelebili nell’immaginario collettivo.

Infine un accenno alle nuove Agorà virtuali che nascono su internet, “non luoghi” di discussione in cui nascono comunità virtuali, i cui membri possono “incontrarsi” senza vincolo di compresenza spazio-temporale.

[1] I. Calvino, Le città invisibili, Mondatori, Milano, 1993

[2] G. Ragnetti, Opinioni sull’opinione, Ed. QuattroVenti, Urbino, 2006

[3] P. Champagne, Faire l’opinion. Le nouveau jeux politique, Ed.de Minuti, Paris, 1990 p.62, cit in G. Grossi, L’opinione Pubblica,Laterza, Roma-Bari,2004, p.113.

[4] G. Grossi, L’opinione Pubblica,Laterza, Roma-Bari,2004, p.113.

[5] www.censis.it


PREMESSA

La mia ricerca sulla piazza come medium di trasmissione di un messaggio ha come fondamento teorico la Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione di Francesco Fattorello[1] che spiega, con una breve ma esaustiva formula, quali siano le correlazioni tra i vari fattori che operano in ogni processo di informazione.

La formula ideografica della Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione ha una duplice caratteristica: la prima analitica, in quanto affronta lo studio delle condizioni necessarie e sufficienti ad una corretta informazione; la seconda operativa, perché spiega come attivare un rapporto di informazione.

La sua rappresentazione grafica è la seguente:

Dove:

X) = motivo per cui si mette in atto un rapporto di informazione

SP = Soggetto Promotore

M = Mezzo

O = Formula di Opinione, modo in cui il Soggetto Promotore interpreta i fatti

SR = Soggetto Recettore

L’informazione è un fenomeno sociale che diventa concreto nel rapporto tra chi informa, il Soggetto Promotore (SP), ed il suo destinatario, il Soggetto Recettore (SR).

Il Soggetto Promotore interpreta secondo la propria visione soggettiva un fatto, la materia oggetto del processo di informazione (X), che può essere tutto ciò di cui si vuole informare l’altro (un avvenimento, un evento, un personaggio…). Il Soggetto Promotore trasmette l’informazione grazie ad un Mezzo (M), strumento attraverso cui si comunica il messaggio al Soggetto Recettore.

Il Soggetto Recettore elabora l’informazione usando un modo di raccontare l’accaduto: questo elemento è chiamato “ Formula d’Opinione” e varia a seconda del destinatario del messaggio.

A seconda del Soggetto Recettore varieranno sia la Formula d’Opinione, sia il Mezzo.

Il Soggetto Promotore è colui che si fa carico di iniziare il rapporto di informazione. La lettera S rappresenta un punto chiave nell’identificazione di questo termine, in primo luogo perché tale lettera lo accomuna al Soggetto Recettore e li rende pari, dotati delle medesime capacità cognitive e opinanti, ed in secondo luogo perché mette in evidenza che ciò che il Soggetto Promotore emana è soggettivo. Ogni azione e informazione promossa dal Soggetto Promotore porterà sempre con se la paternità di chi l’ha generata, quindi l’informazione non potrà mai essere obiettiva, sradicata dal contesto di chi la propone, ma al contrario sarà segnata da quei fattori di cui si è nutrito il Soggetto Promotore.

Il Soggetto Promotore, nella formula ideografica, è saldamente legato, da tratti che non hanno un verso preferenziale di percorrenza per sottolineare come tutto sia mutuamente collegato e interdipendente, sia ad M, che rappresenta il mezzo, sia ad O, che rappresenta la formula di opinione adottata per il singolo rapporto di informazione. Il Soggetto Promotore quindi ha la facoltà di scegliere di quale mezzo avvalersi per trasmettere l’informazione scelta.

Il Soggetto Recettore è colui al quale è indirizzato il rapporto di informazione, è il destinatario e il fruitore dell’azione. Non lo si può considerare passivo perché è condizionatore delle opinioni proposte ed è libero di decidere se e a quale formula aderire. I Soggetti Recettori non ricevono un solo rapporto di informazione, quindi bisogna tenere conto che altri Soggetti Promotori potrebbero cercare di interessarlo e di arrivare fino a lui.

Inoltre egli è limitato dal mezzo utilizzato: alcuni strumenti hanno un’estensione limitata, ad esempio i quotidiani locali o regionali, altri strumenti, quali i mass media o i new media, diventano accessibili solo per chi li possiede e per chi può utilizzarli.

Considerando l’enorme diversificazione tra Soggetti Recettori, è necessario avvalersi di studi e di metodi statistico-sociologici per l’analisi del recettore, per sapere dove vive, cosa fa, quali valori sono comuni al suo gruppo. Questi metodi danno vita ai sondaggi d’opinione.

Il Soggetto Recettore, nella formula ideografica, è legato al mezzo M e alla formula d’opinione O, collegamento indispensabile perché è il Soggetto Recettore che influenza O e che suggerisce come dovrebbe essere affinché egli stesso non la rifiuti. Esiste infatti anche la possibilità di rifiutare l’informazione e di non condividere l’opinione proposta.

O rappresenta la formula di opinione, l’interpretazione del fatto, è il tramite tra il Soggetto Promotore e il Soggetto Recettore. Il Soggetto Promotore deve tener conto delle attitudini sociali del Soggetto Recettore: infatti è solo quando i due soggetti sono sullo stesso piano che ci può essere comunicazione, perché entrambi devono avere qualcosa da mettere in comune e qualcosa su cui convergere, cioè l’opinione. Le formule d’opinione possono essere innumerevoli perché dipendono dalle personalità del Soggetto Promotore e del Soggetto Recettore; O quindi dipende soltanto da SP e da SR e non da X). Infatti su uno stesso avvenimento (a parità di X) ),  promotori diversi possono costruire formule di opinione diverse per diversi recettori.

Nella rappresentazione ideografica della formula Fattorelliana tutti i punti sono tra loro correlati: e così  O deve comunque influenzare  la scelta e l’utilizzo di M.

Il punto M nella formula ideografica coincide con il mezzo con cui il Soggetto Promotore intende contattare il Soggetto Recettore e rappresenta quella serie di strumenti (voce, editoria, cinema, radio, televisione, internet) che mettono in comunicazione i due soggetti. Il Soggetto Promotore deve scegliere il mezzo più opportuno per selezionare il Soggetto Recettore,  e contattarlo con buone probabilità di successo.

Come spiega Giuseppe Ragnetti[2] la teoria di Fattorello è stata definita “sociale” perché il Soggetto Promotore deve tener conto di tutto ciò che ha socializzato l’individuo, i meccanismi sociali che mette in atto nei gruppi, che sono all’origine del processo dell’opinione pubblica.

L’informazione utilizza i mezzi di comunicazione  di massa destinati ad un pubblico indeterminato, tra cui stampa, radio, cinema, televisione ed internet. L’attività del promotore è limitata nella quantità di mezzi di cui dispone e nelle caratteristiche tecniche di questi mezzi.

La realtà non può essere comunicata, ma può essere trasmessa la formula d’opinione che il Soggetto Promotore propone in modo da adattarsi al Soggetto Recettore ed ottenerne l’adesione.

La Tecnica Sociale dell’Informazione del professor Fattorello  ha restituito dignità al Soggetto Recettore, rendendolo protagonista del processo comunicativo. “Il processo dell’informazione e dell’adesione di opinione ha un carattere sociale perché è figlio del tempo in cui si realizza e non ha nulla a che vedere con il comportamento del recettore”.[3]


La piazza come punto M

Nella ricerca sulla valenza comunicativa della piazza ho considerato questa come punto M della rappresentazione ideografica della formula di Fattorello: la piazza diventa il mezzo attraverso cui Soggetti Promotori e Soggetti Recettori di volta in volta diversi accreditano le opinioni.

La piazza è un mezzo familiare alle persone, è accessibile a tutti, è un punto di ritrovo e di incontro e strumento adatto sia per comunicare le insoddisfazioni, attraverso manifestazioni di tipo politico, sia per comunicare le origini e le identità di un luogo e di una comunità, attraverso la promozione di eventi culturali.

Della piazza si può parlare da più punti di vista: a partire dalle antiche piazze (agorà greca, foro romano) che erano mezzo di costruzione di una comunità, al periodo medioevale in cui la piazza diventa luogo di punizione e terrore, teatro di numerose esecuzioni tramite roghi, impiccagioni e ghigliottine; dalla piazza teatro delle adunate oceaniche del fascismo fino ai giorni nostri in cui emergono tre principali connotazioni della piazza: luogo privilegiato di eventi culturali; luogo di manifestazioni di dissenso attraverso manifestazioni politico-sociali; infine luogo”dell’abbraccio” ai fedeli e mezzo di comunicazione religiosa riferendomi, in particolare, a Piazza San Pietro a Roma.  Un’ultima analisi può essere riferita ai nuovi ambiti comunicativi messi in atto dalle nuove tecnologie: un diverso tipo di piazza,” la Piazza Virtuale” , luogo di incontro tra gli utenti di internet.

Giuseppe Ragnetti[4] indica alcuni luoghi deputati alla conversazione, allo scambio di opinioni e al confronto che vengono chiamati”crocevia delle opinioni” perché”attorno ad una rotatoria centrale (oggetto dell’opinione) si dipartono più e più percorsi laddove le chiacchiere si inoltrano alla ricerca di un’auspicabile opinione condivisa dai più”[5].

I crocevia delle opinioni si identificano, soprattutto nei piccoli centri,  con i bar dello sport, i circoli ricreativi, la Chiesa nelle ore di massima frequenza la domenica, ma anche la piazza, “laddove gli intellettuali del paese con scienza e coscienza risolvono i problemi delle società attuale”[6].

“Il medium è il messaggio?”Si può ipotizzare che il nostro mezzo, cioè la piazza, venga a coincidere con ciò che si vuole comunicare, cioè il messaggio, riprendendo l’ipotesi di Mc Luhan? Il centro di un agorà o del foro, le piazze delle esecuzioni, dei roghi e delle impiccagioni, le piazze dei teatranti e dei giocolieri e oggi le piazze degli eventi culturali, le piazze delle manifestazioni politiche o dei fedeli riuniti diventano un messaggio? Cercheremo un risposta analizzando le funzioni e i diversi usi della piazza nei secoli.

[1]              F. Fattorello, La teoria della Tecnica sociale dell’informazione, a cura di G.Ragnetti, Quattro Venti, Urbino, 2005.

[2]              G. Ragnetti, Opinioni sull’opinione, Ed. QuattroVenti, Urbino, 2006

[3]              Ibidem, p.112

[4]              Ibidem

[5]              Ibidem, p.119.

[6]              Ibidem


Sommario

  • INTRODUZIONE
  • PREMESSA

LA TEORIA DI FATTORELLO, LA PIAZZA COME PUNTO M DELLA FORMULA IDEOGRAFICA

  • CAPITOLO 1 :STORIA E SIMBOLOGIA DELLA PIAZZA

CON LA DESCRIZIONE DI TUTTI GLI ELEMENTI TIPICI DI UNA PIAZZA (CHIESA, CAFFE’, OSTERIA, LE BANDE MUSICALI, ecc) LA PIAZZA MILITARE

  • CAPITOLO 2: LE ANTICHE PIAZZE:

L’AGORA’ LA POLIS STRUTTURA DELLA POLIS IL FORO ROMANO

  • CAPITOLO 3: LE PIAZZE DELLA PUNIZIONE

(ROGHI, IMPICCAGIONI E GHIGLIOTTINE NELLE PIAZZE PUBBLICHE)

  • CAPITOLO 4: LA PIAZZA POLITICA

LE MANIFESTAZIONI DI PIAZZA E L’OPINIONE PUBBLICA; FOLLA, MASSA E PUBBLICO NELLA PIAZZA; LA COMUNICAZIONE POLITICA ATTRAVERSO IL COMIZIO IN PIAZZA; LE PIAZZE POLITICHE DEL 900 ( in particolare le piazze oceaniche fasciste) E LE PIAZZE POLITICHE OGGI TIPOLOGIA DEGLI EVENTI DI PIAZZA IL NUOVO POPOLO DELLA PIAZZA PERCHE’ SCENDERE IN PIAZZA LA PIAZZA COME ESPERIENZA DI VICINANZA FISICA E DI PROTESTA

  • CAPITOLO 5: LA PIAZZA LUDICA LA PIAZZA SEDE DI EVENTI CULTURALI

DALLE ANTICHE FESTE AGLI EVENTI CULTURALI ODIERNI

  • CAPITOLO 6: LA PIAZZA DELL’ABBRACCIO

PIAZZA SAN PIETRO COME LUOGO DELLA COMUNICAZIONE RELIGIOSA STORIA DELLA PIAZZA IL “DISCORSO ALLA LUNA”: PAPA GIOVANNI XXIII LE FOLLE DI GIOVANNI PAOLO II TUTTO IL MONDO IN PIAZZA SAN PIETRO

  • CAPITOLO 7; PIAZZE VIRTUALI
  • CONCLUSIONI

Conclusioni

Il viaggio attraverso le piazze si conclude con nuove piazze, definite “virtuali”, generate dalle nuove tecnologie della rete, svincolate dalla fisicità di ogni contesto spazio-temporale.

Siamo partiti considerando la piazza come punto M della Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione di Fattorello, cioè mezzo attraverso cui Soggetti Promotori e Soggetti Recettori di volta in volta diversi accreditano le opinioni.

Abbiamo potuto conoscere la piazza da più punti di vista, una piazza che diventa mezzo polivalente per diversi tipi di comunicazione.

Analizzando la simbologia della piazza italiana è emerso come questa sia ricca di luoghi di socializzazione ed incontro ed abbia molti elementi tipici che si sono sviluppati durante i secoli: i Caffè e le Osterie, una Chiesa che si affaccia su di essa, le Bande Musicali, nate per la piazza. Abbiamo potuto comprendere l’intreccio, nato nel Medioevo, ma già presente nelle piazze dell’antichità, tra piazza religiosa, piazza civile e piazza del mercato.

Le antiche piazze, Agorà Greca e Foro Romano, erano i centri della vita civile, commerciale e religiosa, luoghi di costruzione dell’identità comunitaria.

Le piazze del Medioevo hanno comunicato un messaggio di terrore e punizione, attraverso i roghi e il patibolo posti al centro del cuore della vita di una città.

La piazza è stata teatro delle manifestazioni del Primo Maggio, delle adunate oceaniche del fascismo, degli scontri del Sessantotto e degli anni di piombo.

Oggi emergono tre principali connotazioni della piazza: luogo di manifestazioni di dissenso attraverso manifestazioni politico-sociali; luogo privilegiato di eventi culturali che utilizzano gli spazi pubblici come scenografia; infine luogo”dell’abbraccio” ai fedeli e mezzo di comunicazione religiosa.

L’ultimo capitolo apre a nuovi ambiti comunicativi messi in atto dalle nuove tecnologie: un diverso tipo di piazza,” la Piazza Virtuale” , luogo di incontro tra gli utenti di internet, in cui, come abbiamo visto, viene meno la comunicazione non verbale, essenziale in un dialogo tra comunicanti.

Si aprono nuovi scenari nella comunicazione contemporanea che fanno nascere importanti interrogativi. Le Piazze Virtuali sostituiranno i luoghi di circolazione delle opinioni, dell’incontro e dello scambio?

È possibile trasmettere un messaggio in modo completo senza i tipici indizi non verbali, uno sguardo, un sorriso, la vicinanza spaziale?

Cosa ci riserveranno i nuovi legami delle comunità virtuali che nascono nella rete?

La piazza in futuro sarà ancora luogo di aggregazione o circoleranno solo alter ego virtuali che si incontreranno in un punto o nell’altro del cyberspazio?

Le emozioni derivanti da uno sguardo potranno mai essere sostituite?

Vedremo cosa ci riserverà il futuro!


Capitolo “La Piazza Politica”

Le manifestazioni di piazza e l’opinione pubblica

La partecipazione politica è sicuramente un argomento molto rilevante, influenzato da molteplici aspetti. Quali sono le ragioni che spingono i cittadini ad intervenire in maniera attiva nella politica del Paese?

Uno dei tanti tipi di partecipazione politica e strumento di opinione pubblica è costituito dalle manifestazioni: la piazza ha avuto nella storia un ruolo fondamentale.

Già nell’ antica Grecia l’Agorà, piazza principale della Polis, come ho analizzato nel terzo capitolo, era il luogo in cui si riuniva l’assemblea di tutti i cittadini. Successivamente divenne vero e proprio centro della città, sia dal punto di vista economico-commerciale, in quanto sede del mercato, sia dal punto di vista religioso, poiché vi si trovavano i luoghi di culto delle divinità protettrici.

L’Agorà rappresentava il luogo della democrazia poiché sede delle assemblee cittadine.

È dopo la Rivoluzione Francese che la piazza ha visto riunirsi sempre più di frequente i cittadini che rivendicavano i propri diritti.

Nel XX secolo hanno avuto luogo sia i raduni di massa dei regimi totalitari, perfettamente organizzati come eclatante dimostrazione di forza, sia le molteplici mobilitazioni spontanee del popolo.

Molte sono le manifestazioni organizzate e spontanee che hanno animato le piazze e le strade italiane negli ultimi anni, raccogliendo masse considerevoli di persone.

Le piazze hanno ripreso, nell’ultimo periodo, la funzione di spazio collettivo, non solo fisico, ma anche emozionale e questo testimonia la continua ricerca da parte dei cittadini italiani di forme di partecipazione e di coinvolgimento nelle vicende politiche che toccano i loro interessi prioritari.

Le manifestazioni costituiscono un momento rilevante di aggregazione ed un diritto riconosciuto dalla Costituzione della Repubblica italiana al Titolo I dell’articolo 17:” I cittadini hanno il diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica[1]”.

Può essere manifestazione di piazza anche quella di una ristretta minoranza che, riunendosi, vuole comunicare in luogo pubblico cosa pensa e cosa vuole. Alcuni cortei vedono la partecipazione di milioni di persone, altri di poche decine, ma in entrambi i casi di frequente occupano le prime pagine dei quotidiani: segno che l’evento è di chiaro interesse, almeno nell’immediato. Un titolo di un certo tipo, piuttosto che di un altro, potrebbe quindi influenzare milioni di lettori sulla reale importanza di un avvenimento e questo non sfugge a chi cerca il consenso tra i cittadini e nell’opinione pubblica.

La piazza acquista una precisa funzione politica e le democrazie occidentali l’hanno riconosciuta e istituzionalizzata come luogo di libera espressione dei settori dell’opinione pubblica.

Nelle democrazie esistono tre poteri, l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario; la sede  per condurre i dibattiti politici è il parlamento ma anche i cittadini hanno il diritto di controllare i vari poteri dello Stato, guidarne l’azione e stimolarla, manifestare eventuali insoddisfazioni sulla conduzione della cosa pubblica. Le opinioni degli elettori si manifestano attraverso i media, associazioni, partiti, nonché ad opera della piazza.

Giorgio Grossi[2], analizzando il fenomeno dell’ opinione pubblica, spiega come questa si avvalga di canali per manifestarsi, cioè di supporti comunicativi e di ambiti dedicati. Per canali si intendono sia i luoghi in cui l’opinione pubblica si forma, si diffonde e viene pubblicamente esibita; sia i mezzi o veicoli attraverso cui circola, si confronta e si attiva, cioè la comunicazione interpersonale, i mass media e i new media; sia i portatori d’opinione e gli interpreti che la pubblicizzano e la rappresentano; sia, infine, le modalità, individuali e sociali, utilizzate per rendere pubbliche le proprie opinioni, cioè sondaggi, lettere, dicerie e manifestazioni.

Lazar[3] ha proposto una periodizzazione dello sviluppo dell’opinione pubblica negli ultimi quattro secoli e distingue tre tipi di opinione in base ai luoghi in cui si produce, ai canali con cui si diffonde e alle forme espressive con cui si manifesta:

  1. l’opinione illuminata, che si sviluppa nel XVII e XVIII secolo, nasce e si esprime nei salotti, nei caffè e nei club, e utilizza i canali interpersonali all’interno di una minoranza colta e la scrittura, attraverso la stampa. I suoi portavoce sono i letterati, i filosofi e gli intellettuali, i rappresentanti del popolo in parlamento. La forma comunicativa più utilizzata è il dialogo razionale, il confronto dialettico e la compresenza spazio-temporale nello stesso luogo di discussione.
  1. l’opinione gridata, che si sviluppa nel XIX secolo ed emerge dalle manifestazioni, dalle sommosse di piazza, dai movimenti collettivi; utilizza come canali la stampa popolare, le prime forme di propaganda diretta, cioè pamphlet, volantini, manifesti e canzoni. La forma espressiva più diffusa, accanto alla scrittura, è la voce, l’oralità, la testimonianza fisica di un’idea o di un orientamento attraverso manifestazioni di piazza. Denuncia, testimonianza, protesta diventano forme di manifestazione dell’opinione pubblica. A questo proposito Champagne[4] ha precisato che la manifestazione di piazza si è affermata come strumento legittimo di azione politica,”espressione quasi istantanea di un malcontento o di una indignazione tipica della sommossa, essa rappresenta soprattutto l’affermazione fisica di un’opinione”[5],
  1. l’opinione sondata, che si sviluppa nel XX secolo e utilizza come canali privilegiati i media, soprattutto la televisione, i sondaggi, le comunità virtuali di internet. Privilegia il dibattito pubblico mediato e la rappresentazione pubblica del processo di opinione. Assumono un ruolo importante i commentatori politici, i leader d’opinione, le società di relazioni pubbliche.

Se i media danno visibilità alla realtà sociale e politica, rendendo pubblici i problemi e i conflitti della collettività e svolgendo, come spiega Grossi, una funzione di intermediazione della visività pubblica, l’altro canale privilegiato per la presentazione pubblica delle opinioni è costituito dalle manifestazioni, cioè da quella forma di manifestazione politica che rappresenta appunto, riprendendo Champagne,” una affermazione fisica di un’opinione”[6]. È stata parte della sociologia francese (Champagne 1990, Favre 1990, Lazar 1995) a sottolineare l’importanza delle manifestazioni politiche, sociali, di protesta, di lotta e di sostegno, come modalità importante di espressione dell’opinione pubblica.

La manifestazione di piazza si è sviluppata soprattutto nell’Ottocento, prevalentemente nella sua modalità di lotta operaia e contadina e appare ”una dimostrazione dell’opinione popolare, una forma di espressione che permette di dimostrare al popolo la sua volontà, di contestare il potere dei parlamentari[…]. Nel corso del XIX secolo essa diventa progressivamente una componente importante, presa in considerazione da parte degli attori del campo politico”[7].

La manifestazione dunque ha svolto, e svolge anche oggi, un ruolo fondamentale perché rappresenta una modalità alternativa di espressione di opinioni e spesso è l’unico canale disponibile per rendere visibili le proprie idee, uno strumento di pressione e di rafforzamento di orientamenti già conosciuti che si caratterizza per una più forte condivisioni delle opinioni stesse. Inoltre la manifestazione ha un’ altra caratteristica essenziale:”diversamente dal sondaggio di opinione che diluisce il peso effettivo delle minoranze attive, la manifestazione, dando corpo ad una rivendicazione, le attribuisce visibilità”[8].

Champagne spiega come la manifestazione contribuisca a trasformare una semplice opinione individuale in un’idea-forza, perché esprime una determinazione più forte ed un impegno fisico più intenso rispetto, ad esempio, ad una petizione o alle votazioni stesse[9].

Le manifestazioni interagiscono con i media, grazie ai quali acquistano visibilità, e molto spesso sono pianificate in funzione della copertura che i media offrono.

Un ultimo aspetto da sottolineare è la connotazione tipicamente antimaggioritaria della manifestazione di piazza che valorizza correnti di opinione, anche minoritarie, ma in grado di svolgere un ruolo attivo di denuncia e di influenza.

Folla, massa e pubblico nella piazza

Le manifestazioni si esprimono attraverso le numerose folle che riempiono le piazze.

Il XX secolo segna l’inizio di studi specifici sull’opinione pubblica e sugli ambiti in cui essa si manifesta. Questi studi si sviluppano grazie al progredire dei mezzi di comunicazione e all’ausilio di nuove discipline quali la psicologia sociale, la sociologia, l’analisi della propaganda.

Gli studi di Le Bon e quelli di Tarde, psicologisti francesi, sui concetti di “folla”, “massa” e “pubblico” danno origine al filone denominato “psicologia delle folle”, basato sull’idea chiave che l’uomo, nella folla, pensa e agisce diversamente dall’uomo isolato. Questa  impostazione viene attribuita alla scuola italiana di criminologia: Pasquale Rossi, con i suoi libri “L’anima della folla” (1898) e “Psicologia collettiva” (1900) individua nella folla il contagioso fenomeno della simpatia, l’annullamento della razionalità e l’amplificazione dell’istintività e dell’affettività[10]. L’individuo è assorbito dalla massa e riesce a liberare gli istinti repressi.

Una folla è una moltitudine di persone che, trovandosi fisicamente insieme in uno stesso luogo, come la piazza, reagisce in modo uniforme ad uno stimolo. Questa reazione  viene chiamata in sociologia “ comportamento collettivo”.

Una massa è qualcosa di più di una folla, in quanto le persone che ne fanno parte possono anche essere lontane le une dalle altre, pur reagendo anch’esse nello stesso modo al medesimo stimolo.

Gustav Le Bon è stato il primo psicologo a studiare scientificamente il comportamento delle folle, cercando di identificarne i caratteri peculiari.

La nascita della massa, intesa come grande quantità indistinta di persone che agisce in maniera uniforme, inizia a prendere forma sul finire del  XIX secolo come nuovo soggetto che si affaccia sulla scena politica, dominandola per tutto il Novecento.

Le Bon sottolinea una delle caratteristiche principali della folla: essa è diversa dalla somma degli individui che la costituiscono, in quanto l’individuo perde la propria autonomia e la folla viene quindi dominata dall’inconscio. Quando un certo numero di persone si trova riunito per caso, possono nascere caratteri psicologici nuovi dal solo fatto di questa vicinanza. Il loro insieme costituisce un anima collettiva potente, ma momentanea.

Contemporaneo di Le Bon, Gabriel Tarde, con la sua opera “L’opinion et la foule” (1901) elabora il concetto di “pubblico” e contrappone questa nuova categoria alla folla: il pubblico è una collettività puramente spirituale, gli individui sono fisicamente separati e la coesione è mentale, mentre la folla è “un fascio di contatti fisici”[11].

Smelser[12] specifica ulteriormente il concetto di folla, distinguendolo da quello di massa: la folla è caratterizzata dai rapporti diretti che intercorrono tra coloro che ne fanno parte, la massa invece si basa su un comune oggetto d’attenzione.

È Park a tracciare la netta differenziazione tra folla e pubblico: nella folla l’individuo perde la sensazione di essere insignificante a causa dell’influenza suggestiva esercitata reciprocamente dalle persone. Nella folla si riscontra una inibizione degli impulsi e degli interessi individuali, mentre “gli atteggiamenti del pubblico hanno tipicamente due facce. L’ esistenza delle cose, il cui significato viene accettato come identico per tutti i membri del gruppo, e il valore delle cose, diverso per tutti i membri, divergono non appena nasce il pubblico”, a differenza della folla dove esistenza e valore coincidono[13].

Inoltre, secondo Park, un’ altra fondamentale differenza è data dal fatto che il pubblico esprime senso critico, al contrario della folla. Le dinamiche che si sviluppano nel pubblico sono guidate dalla riflessione razionale, la folla invece è influenzata dalla spinta collettiva ed emotiva. Tuttavia gli individui di una folla e di un pubblico possiedono un elemento in comune, cioè la mancanza di una tradizione che accomuni gli individui stessi. Quindi sia la folla sia il pubblico non danno vita ad una collettività permanente.

Ragnetti [14]spiega come l’opinione pubblica sia ciò che identifica e qualifica un determinato ambiente e ciò che accomuna gruppi sociali di varia dimensione in uno specifico contesto spazio-temporale, come la piazza. Nella folla di una manifestazione è possibile l’anonimato:l’uomo isolato trova forza nell’unione, cioè nella solidarietà del gruppo; da solo non è in grado di esprimere un’opinione pubblica, ma”ha bisogno di un insieme di individui che opinino con lui, legati tra loro da medesimi interessi. È il gruppo a generare e a contribuire alla formazione dell’opinione pubblica[…]. La comunanza di interessi e di convinzioni condivise, dunque, fanno sorgere la coscienza di collettività, di gruppo”[15].

Nelle manifestazioni di piazza si verifica un paradosso: la folla tenta di riprodurre le dinamiche di un gruppo primario quando in realtà ci si trova di fronte ad un gruppo secondario.

Nei gruppi primari, come sottolinea Ragnetti, i membri sono intimamente legati tra loro, si conoscono e hanno rapporti continui come, ad esempio, la famiglia. I membri, inoltre, sono uniti dalle convinzioni che hanno in comune (la stessa fede religiosa, la condivisione dei medesimi problemi…). Nei  gruppi secondari invece i membri non si conoscono reciprocamente ma sono legati da un interesse comune. Non c’è interazione faccia a faccia ma si comunica attraverso mezzi indiretti come riviste, siti web, mail list, che mantengono vivo l’interesse che li unisce.

L’opinione pubblica, nel gruppo primario, si manifesta nelle riunioni di tutti i membri, dove le decisioni sono prese collettivamente. Nei gruppi secondari invece l’interazione non è diretta, non c’è forte coesione tra i membri, e le convinzioni convergono soltanto intorno all’interesse che tiene unito il gruppo. I gruppi secondari hanno bisogno di mezzi di comunicazione per diffondere le opinioni tra i componenti del gruppo stesso; qui l’opinione è il risultato non dell’interazione di varie personalità, ma dell’azione di poche persone, quindi non nasce un’opinione pubblica che tutti hanno contribuito a formare. Nelle manifestazioni di piazza si riuniscono gruppi secondari spinti da un medesimo interesse, persone che non si conoscono reciprocamente, ma sono spinte dalla necessità di comunicare proteste o disagi su determinate questioni politiche e sociali, molto spesso guidate da leaders e associazioni che organizzano i raduni cercando di raggiungere il maggior numero di partecipanti possibile.

Le persone che scendono in piazza si sentono come in “una grande famiglia”, in un gruppo primario, si alleano per esprimere le loro opinioni su una questione rilevante( cortei per la pace, contro la finanziaria, contro la guerra, contro le riforme…); nella piazza si sentono a casa, improvvisano inni e canzoni contro ministri e leader, utilizzano le stesse bandiere e molti striscioni, spesso ironici; si sentono uniti, come se ci si conoscesse da sempre, in nome di un determinato interesse, ma questa unione ha breve durata, il tempo di condivisione di una piazza gremita per manifestare problemi e disagi.

La comunicazione politica nella piazza:il Comizio

Il comizio è stato uno strumento fondamentale della lotta e della comunicazione  politica ma lascia tracce documentarie ridotte e contraddittorie a causa del suo carattere di comunicazione parlata che lo espone al rischio dell’oralità ed è difficilmente documentabile.

Dei comizi esistono resoconti sui giornali del giorno dopo, oppure redazioni a stampa da parte degli autori: ma quando questo avviene l’edizione trasforma secondo i canoni della scrittura un evento profondamente diverso, legato alla specifica situazione del discorso parlato, in piazza, fatto di enunciazioni che si formano nel particolare rapporto che si instaura o che non si riesce a instaurare con il pubblico. Inoltre questa trasformazione della comunicazione orale in testo scritto avviene soprattutto per i comizi di leader politici, non per la miriade di comizi tenuti da militanti di base e destinati, spesso, a risolversi nell’evento, lasciando probabilmente tracce importanti nella coscienza degli ascoltatori ma non per chi all’evento non abbia partecipato.

Il comizio, negli anni che precedono l’utilizzazione del microfono per amplificare la voce dell’oratore, consiste in un tipo di comunicazione che raggiunge un pubblico limitato: un teatro, al massimo. “In quest’epoca chi voleva raggiungere un pubblico numeroso scriveva sul giornale; poi, forse, teneva anche comizi: ma se l’oratore era celebre, ecco di nuovo il giornale del giorno dopo rimpossessarsi del comizio, fornendone il resoconto”[16].

Un comizio nei primi anni di utilizzo del microfono

L’invenzione del microfono e la sua utilizzazione pratica a partire dagli anni Venti, costituiscono un momento importante nella storia del comizio. Prima l’oratore poteva contare unicamente sulla voce naturale, sulle sue risorse foniche eventualmente aiutate da un ambiente capace di amplificare il suono: ecco perché, prima del microfono, spesso i comizi più numerosi erano tenuti in luoghi chiusi, sale da conferenze o teatri. Inoltre solo alcuni potevano parlare in pubblico, in quanto disponevano di una voce sufficientemente potente.

Con l’avvento del microfono la situazione cambia perché sono travolti i limiti naturali dell’emissione della voce e della sua propagazione nello spazio: tutti possono parlare in pubblico, non solo gli oratori naturali ma anche quelli che hanno una voce flebile; un singolo oratore può raggiungere un’audience molto maggiore di quella raggiungibile un tempo. Così i luoghi chiusi, cioè il teatro o la sala da conferenze, diventano lo spazio dei comizi piccoli, mentre prima erano il luogo delle grandi adunate. Da ora invece queste  si tengono in luoghi aperti, nelle piazze, dove la voce amplificata dell’oratore può raggiungere una folla immensa.

Inoltre il microfono, collegato alla radiofonia prima, e alla televisione poi, permette di raggiungere  ogni potenziale ascoltatore direttamente  a casa. Si apre così la strada per il trasferimento del comizio nel medium radiofonico e poi televisivo: con gli anni Sessanta iniziano in Italia le «Tribune politiche» pre elettorali. Non si tratta di comizi, ma invadono lo spazio del comizio: è lo stesso leader tante volte ascoltato in piazza che parla, “anche se ora si opera un vistoso spostamento sia del comiziante che del suo pubblico: il primo si trasferisce nello studio televisivo, il secondo è raggiunto dal messaggio non più nella piazza o nel teatro, ma direttamente in casa, con la moglie ed i figli accanto”[17].

Garibaldi è uno dei primi a svolgere una vera e propria attività di comiziante. Tuttavia spesso si tratta di  discorsi brevi  che accompagnano l’immagine del generale affacciato al balcone.

Nel corso della campagna elettorale del 1867 questa attività oratoria non è più episodica, perché il Generale percorre gran parte dell’Italia del Nord, in alcuni casi, la sua semplice presenza in città, anche in assenza di comizio vero e proprio, infiamma la piazza[18].

Nei decenni successivi il comizio è utilizzato dai repubblicani, emergendo progressivamente da un’iniziale manifestazione che è insieme celebrazione (per l’onomastico di Mazzini, di Garibaldi, l’anniversario della Repubblica romana ), festa popolare, corteo.

Anche  gli anarchici  iniziarono ad usare la parola in pubblico  che diventa centrale, perché con loro per la prima volta la parola del comiziante tocca problemi sociali terribilmente seri.

In questi anni, epoca di attentati e persecuzioni, il comizio anarchico in Italia prese una forma quasi clandestina: i cortei del Primo Maggio si svolgevano soprattutto fuori dal centro cittadino, in campagna, ed era proibita la bandiera dell’anarchia.

I comizi anarchici spesso terminavano con altri comizi più piccoli: infatti dopo che l’oratore più famoso ed esperto aveva parlato, la riunione continuava articolandosi in tanti altri luoghi, dove il militante comune esponeva il suo punto di vista ai suoi compagni.

Ettore Ciccotti, nell’opera “Psicologia del movimento socialista[19]” parla delle diverse forme di propaganda e sostiene che la «propaganda parlata» è fondamentale. Ciccotti considera i diversi tipi di propaganda a disposizione del movimento: gli opuscoli, costruiti secondo il procedimento dell’apologo e del dialogo, stampati in migliaia di copie e continuamente riprodotti, letti e riletti; il giornale; il discorso parlato, perché “da noi abbondano gli analfabeti per cui non è possibile altra propaganda se non quella parlata”[20]: questo tipo di propaganda riesce a far presa sull’emotività dell’ascoltatore,  la quale è preceduta da un’attesa che predispone a quella che sarà l’autosuggestione del pubblico “spesso affollato, più spesso eccitato, qualche volta entusiasmato o commosso così che la soglia percettiva di ciascuno è come alzata, perché l’ascoltatore è per così dire trasformato in cooperatore del messaggio che ascolta”[21].

Prima della Grande Guerra il comizio socialista e quello sindacalista hanno utilizzato un nuovo e diverso modo di parlare alle folle, perché adesso non si cerca più di mobilitare un’identità di classe ma si punta sull’esaltazione della guerra patriottica.” Sono talvolta gli stessi oratori, quelli che ieri eccitavano la classe operaia alla rivoluzione e oggi cercano di recuperare le masse alla patria”[22].

Con l’avvento del fascismo inizia la crisi del comizio perchè la voce di avversari e oppositori inizia ad esser fatta tacere: molti comizi  diventano impossibili da portare a termine perché interrotti, anche con la violenza.

Le difficoltà crescenti di questo tipo di comunicazione in quegli anni di trasformazione del quadro politico sono presenti in modo emblematico in un comizio famoso degli anni di transizione al fascismo: quello di D’Annunzio in piazza della Scala a Milano il 3 agosto del 1922 [23].

Qui “l’appropriazione finale del discorso del Comandante da parte dei fascisti viene sancita da “ Il Popolo d’Italia”, che pubblica il discorso in forma mutila, quasi a sottolineare la supremazia del giornale di partito sul discorso parlato”[24].

Con l’approfondirsi della guerra civile appare chiaro come i fascisti considerino il comizio avversario, una voce da rendere muta con la violenza, così come si rende muta la voce dei giornali avversari.

Il comizio viene soffocato progressivamente, e da questo momento per venti anni la voce pubblica dell’opposizione, sia dalle piazze che sui giornali, è spenta. Sopravvive solo la comunicazione del foglio clandestino, che comunque raccoglie l’eredità del grande discorso parlato: “gli anziani militanti antifascisti ricordano spesso un fondo letto su una piccola pubblicazione clandestina con la stessa enfasi con la quale ricordano, del periodo precedente al fascismo, il discorso in piazza di un grande leader”[25]. Più tardi, con il diffondersi della radiofonia, i comunicati radio antifascisti trasmessi attraverso altoparlanti prendono il posto del comizio di piazza.

Ora  lo spazio pubblico è occupato dalle adunate fasciste che prevedono il discorso di Mussolini e l’ascolto collettivo della sua voce trasmessa via radio., ma esse hanno poco in comune con l’antico comizio e sono eventi del tutto nuovi per l’epoca.

La grande innovazione delle adunate oceaniche è il microfono, che rende possibile il rapporto diretto tra il dittatore ed il popolo, in una piazza colma di folla che diventa metafora del rapporto che Mussolini pensa di avere con l’intero popolo italiano. Questo diviene ancor più evidente quando la radiofonia permette di diffondere la sua voce fin nella più piccola piazza d’Italia, dove folle inquadrate e disciplinate acclamano un oratore senza che questo possa sentirle.

“Lo stile oratorio di Mussolini,[…] esibisce negli anni della dittatura la stessa mimica inventata durante gli anni dell’attivismo socialista, adatta un tempo ad un pubblico che solo in parte riusciva a seguire le parole dell’oratore e con il quale si doveva cercare di comunicare a distanza anche attraverso movimenti caricati del corpo e del volto ormai resi obsoleti dall’uso del microfono, e ancor più dalla registrazione cinematografica”[26]

La cinematografia, disponibile come fonte storiografica a partire dagli anni Venti, permette di cogliere la grande differenza tra i partecipanti alle adunate fasciste e i partecipanti che affollano i comizi del dopoguerra: i primi costituiscono una  folla rigida e ordinata, i secondi una folla più appassionata e disordinata.

Il primo tipo di comizio ha sempre a disposizione il microfono, e riproduce, per quanto riguarda le dimensioni della folla coinvolta, la grande  adunata oceanica fascista.

Il comizio del dopoguerra raggiunge il suo apice con la combinazione di microfono e telefono che rende possibile raggiungere traguardi ancora più ambiziosi:

si dovette ricorrere a collegare insieme molte chiese e molte piazze con l’uso degli impianti telefonici e con gli altoparlanti in ciascuna […]. Il sistema degli allacciamenti telefonici s’inaugurò a Milano nel marzo 1948, giungendosi nella massima diffusione a 14 chiese contemporaneamente; a Torino nell’ottobre erano già 24, di cui parecchie extraurbane; a Genova nel novembre erano 51, di cui molte fuori città; un anno dopo, nella predicazione della crociata a Roma, le chiese collegate nell’Urbe e nel Lazio con sistema radiotelefonico furono 200. In quelle condizioni computare a 100.000 gli uditori, 200.000, anche 300.000 non è esagerato.[27]

Essendo una tecnica comunicativa, il comizio è stato coinvolto dall’evoluzione dei mezzi di comunicazione di massa. Già l’uso del microfono, combinato con il telefono e soprattutto con la radiofonia aveva trasformato il comizio classico.

Ora possono parlare tutti, non solo i superdotati della voce; si può raggiungere un pubblico virtualmente illimitato, così che la piazza gremita diventa un ricordo, perché lo stesso messaggio può essere ascoltato in casa propria, senza bisogno di recarsi vicino all’oratore: alla radio, se il comizio è trasmesso via radio; o in casa, grazie all’amplificatore collegato al microfono.

Tuttavia il comizio resiste fino a quando continua a poter offrire l’immagine dell’oratore, non solo il suono della sua voce. Per vedere di persona i grandi leaders politici, la cui voce è comunque accessibile tramite la radio, bisogna andare in piazza.

Con l’inizio degli anni Sessanta, quando si inaugura la trasmissione televisiva “Tribuna elettorale”, siamo di fronte ad una grande rivoluzione della comunicazione politica perchè per la prima volta il volto parlante del leader è a disposizione, nel piccolo schermo televisivo ed è più “vicino” a ogni telespettatore di quanto posso essere, in piazza, durante un comizio.

Anche la retorica del discorso cambia e, grazie soprattutto alla presenza dei giornalisti che pongono domande, “si attenua fino a sparire l’autocelebrazione del partito proclamata dall’oratore e salutata dal pubblico in piazza”[28].

Il comizio comunque non cessa di essere praticato e continua ad esistere a fianco della nuova forma di comunicazione. Il pubblico ora non si reca ad ascoltare l’oratore in piazza per assumere informazioni: al comizio si va per significare una presenza militante; il comizio diventa quasi unicamente un modo per significare la propria affiliazione politica di parte.

“In piazza, dove il comizio non ha più l’antica funzione di ammaestrare, di insegnare gli artifici retorici da utilizzare nella cerchia del lavoro e del quartiere, ma diventa un modo per «contarsi», il corteo diventa più creativo, sovversivo, carnevalescamente divertente: si portano striscioni fatti in sezione, si salta e si corre. Si inventano slogan e parole d’ordine.I megafoni portatili amplificano gli slogan, rendendoli udibili anche da chi guarda dal bordo della strada o dalla finestra”[29].

Oggi il comizio non è più ascoltato come una volta: la voce amplificata sovrasta la piazza, ma i manifestanti chiacchierano fra di loro: in questo modo il brusio della folla e la voce  dell’oratore trasmessa attraverso l’altoparlante si sovrastano a vicenda.

Le piazze politiche del Novecento

Molti sono i momenti storici significativi in cui si è sviluppato l’uso della piazza come mezzo di comunicazione politico-sociale in Italia. Di seguito ho analizzato gli eventi principali del XX secolo dando rilievo alle diverse funzioni e al molteplice utilizzo della piazza.

Le origini del Primo Maggio

Le prime grandi manifestazioni di massa sono indissolubilmente legate alla nascita del Primo Maggio, giornata internazionale dei lavoratori.

Molte furono le lotte per l’introduzione della giornata lavorativa di otto ore. Nel 1886, negli Stati Uniti, per la prima volta fu avanzata questa importante rivendicazione attraverso il Congresso operaio generale di Baltimora.

Per rivendicare le otto ore di lavoro, il sindacato americano organizzò, il I° Maggio 1886, una grande manifestazione a Chicago cui presero parte 50.000 operai. Dura fu la repressione governativa: intervennero la polizia e l’esercito e molti manifestanti furono uccisi.

Nel 1889 si tenne a Parigi il Congresso della fondazione della Seconda Internazionale dei lavoratori, dove venne istituita la giornata internazionale del lavoro, in ricordo dell’eccidio degli operai di Chicago. Nel documento intitolato “ Manifestazione Internazionale del Primo Maggio 1890 ” è scritto: “ sarà organizzata una grande manifestazione internazionale a data fissa, in modo che contemporaneamente in tutti i Paesi e in tutte le città, lo stesso giorno convenuto, ingiungano ai poteri pubblici di ridurre legalmente a otto ore la giornata lavorativa e di applicare le altre risoluzioni del Congresso Internazionale di Parigi”[30].

Il I° Maggio 1890 si tennero grandi manifestazioni dei lavoratori nelle più importanti città statunitensi ed europee, dove la classe operaia manifestava per la prima volta a favore della  propria emancipazione.

In Italia la prima celebrazione del I° Maggio nel 1890 ebbe dimensioni diffuse ed imponenti: scioperi e manifestazioni si tennero nelle principali città del Paese, con migliaia di lavoratori in piazza. Da allora il I° Maggio ha segnato momenti storici di lotta: le proteste del 1914 contro il conflitto mondiale; le lotte operaie del 1920; gli scioperi del 1943 contro il fascismo; le folle immense che riempirono le piazze nel 1945 all’indomani della liberazione del nazifascismo; le grandi lotte del 1968.

Il Primo Maggio, fin dalle origini, è caratterizzato da una connotazione festosa, pur essendo nato nella rivolta. “ Una dimensione di festosa presa della piazza è certo manifesta sin dai primi tentativi del neonato partito socialista italiano di misurarsi con questa nuova, ma già importante scadenza del proletariato internazionale”[31].

Un’ immagine delle prime manifestazioni del 1° Maggio in Italia

Isnenghi spiega come i nuovi raduni proletari del 1° Maggio abbiano come precedenti la parata militare e lo snodarsi della processione religiosa lungo le vie e verso la piazza dove si trova la chiesa. Questi due modelli costituiscono importanti punti di riferimento “per gli strateghi delle nuove coreografie del popolo che prova a prendersi la piazza in proprio”[32].

All’epoca, in Italia, non esiste ancora una legge che garantisca la libertà d’associazione e ogni nuova manifestazione dei movimenti nascenti è a rischio:

la polizia proibì, dietro ordini ricevuti, che il circolo operaio vi si recasse in forma ufficiale con musica e bandiera. La mancanza di questi mezzi di pubblicità, i soli che possono richiamare l’attenzione di una popolazione come questa, toglieva ogni speranza di concorso alla conferenza per cui vi si dovette rinunciare, come pure alla progettata passeggiata di propaganda, essendo proibite rigorosamente le riunioni pubbliche per le vie[33].

I primi assembramenti e i primi cortei popolari conquistano le strade e le piazze sotto i governi Zanardelli e Giolitti, nei primi anni del Novecento. La giornata dei lavoratori diventa una vera e propria invasione di piazza. Marco Fincardi racconta la dimostrazione del 1° Maggio del 1906 a Reggio Emilia:

L’invasione, che la dimostrazione del 1° maggio vuole raffigurare spettacolarmente, risulta particolarmente evidente a Reggio nel 1906, quando i lavoratori affluiscono in città da quattro punti cardinali, con diversi cortei. Gli spazio urbani che la massa invade e gli edifici che fanno da scenario ai movimenti del corteo, ora non appaiono come prima: non sono i luoghi ostili al lavoratore di campagna, in cui un povero deve sempre prestare attenzione a riverire i signori e a non disturbare la loro quiete. Le bandiere proletarie che colorano le strade, e inoltre le bandiere esposte a diversi balconi danno ai lavoratori un senso – prima sconosciuto – di padronanza del centro urbano. Le sale dei teatri accolgono le conferenze operaie. I maggiori fatti memorabili – registrati nelle cronache giornalistiche e dagli obiettivi dei fotografi – sono ora i grandi comizi popolar, che ora si tengono nelle piazze[34].

I lavoratori riempiono le piazze delle grandi città, ma contemporaneamente esiste anche un movimento dalla città  verso la campagna, perché la festa del 1° Maggio molto presto è celebrata anche nei piccoli centri:

a Caparra, Campegine, Castelnovo Sotto, Felina e nella maggior parte delle piccole località rurali, il corteo del Primo Maggio parte, o arriva, davanti alla sede della Cooperativa di consumo o alla Casa del popolo. Da secoli le processioni avevano come punto di riferimento obbligato le chiese, mentre ora quelle del proletariato hanno come riferimenti i luoghi di ritrovo laici. Le stesse adiacenze dei luoghi sacri tradizionali assumono per i socialisti un’importanza rilevante, nel momento in cui diventano spazi conquistati dai lavoratori per loro liturgie laiche, usate in modo esplicitamente polemico verso la cultura che deputava sempre al prete il ruolo di ministro della ritualità collettiva[35].

Le manifestazioni del 1° Maggio vedono un aumento di partecipanti dopo la Prima Guerra Mondiale: la situazione è diversa, non c’è più il clima delle origini, la guerra ha portato lutti enormi, anche se emergono  comunque grandi speranze di rinnovamento sociale e politico. Anche l’”Avanti!” nel 1921 segnala questi cambiamenti:

Strano Primo Maggio è stato quello di ieri: senza fanfare, senza canti, senza bandiere. Primo Maggio pensoso, di raccoglimento, di meditazione. Le folle operaie han rinunciato alla “festa”, celebrata, in gaiezza, tra i suoni e le danze… In molti luoghi, dove la reazione fascista-governativa imperversa in forme di criminale crudeltà, neppure il comizio fu possibile, perché il sangue l’avrebbe battezzato[36].

La “ Piazza Oceanica”: utilizzo della piazza nel Fascismo

Il periodo della dittatura fascista in Italia si potrebbe definire periodo di apoteosi della piazza che fu utilizzata come mezzo di comunicazione tra Mussolini e il popolo italiano, attraverso rituali elaborati.

Piazza Venezia diventò il centro della dittatura, luogo delle celebrazioni più solenni del culto del littorio: Mussolini teneva i suoi discorsi affacciandosi dal balcone di Palazzo Venezia; di fronte a lui una folla oceanica.

Il regime mise in atto profondi mutamenti in quella piazza: l’Altare della Patria si trasformò con gli anni in monumento-simbolo dell’ intera nazione fascista e diventò sfondo scenografico verso il nuovo centro della piazza, cioè il balcone dove parlava il duce.

Come scrisse Ottavio Dinale, sindacalista rivoluzionario, poi prefetto fascista, nel suo testo” La rivoluzione che vince ( 1914-1934 )” , in cui dedicò un capitolo alla piazza oceanica dal titolo “ Piazza che ha vinto la Piazza “:

il Fascismo ha riabilitato la Piazza. Che è stato il suo campo di battaglia, il foro dei suoi trionfi. Da Piazza San Sepolcro a Piazza Belgioioso a Piazza Venezia, attraverso tutte le piazze, grandi e piccole, delle città e dei villaggi d’Italia […] tutta la penisola è un campo di battaglia, di manipoli che travolgono, di folle che fuggono e defezionano. Dalla piazza si parte per combattere, alla piazza si torna nel fremito della vittoria.[37]

Interessante è la testimonianza lasciata da Scalfari in un intervista a “ L’ Espresso”:

Aggiungerò che le varie divise indossate nelle adunate del sabato, le canzoni che si cantavano, le esercitazioni che facevamo, le sfilate del Foro Mussolini, nonché l’ esaltazione che ci prendeva quando assistevamo a certi discorsi del duce a Piazza Venezia nei momenti culminanti della storia di quel periodo, fecero parte del mio vissuto e riempirono la mia testa di bambino e poi di ragazzo e di adolescente lasciando margini esigui alla critica e all’autocritica.[38]

Tra gli elementi che contribuirono alla formazione del consenso durante il fascismo, oltre alla scuola e al sistema educativo, centrale fu l’uso della propaganda e dei mezzi di comunicazione di massa che diffusero i miti e gli ideali che il regime adottò per far presa soprattutto sulle nuove generazioni. I miti più diffusi furono quello della patria e quello di una missione di Roma nel mondo. La figura del Duce era vista dal popolo italiano come quella dell’artefice della patria: Mussolini, grazie alla sua capacità oratoria, riusciva ad arringare le folle ottenendo il loro completo consenso. La prova tangibile di questo è data dalle numerose statue erette in suo onore in luoghi pubblici e piazze, dalle sue immagini che comparivano ovunque e dai suoi motti riportati sulle facciate degli edifici[39].

Uno dei testi più apprezzati da Mussolini fu “ Psicologia delle folle” di Gustav Le Bon che parla della modalità comunicative del moderno dittatore, il quale deve saper cogliere i desideri e le aspirazioni della folla e proporsi come l’incarnazione di tali desideri e come colui che è capace di realizzare tali aspirazioni. L’oratore si mette in intima comunione con la folla e sa evocare le immagini che la seducono.

Piazza Venezia venne amplificata durante il fascismo. In origine era una modesta piazzetta su cui sfociava via del Corso. Vi si affacciavano il quattrocentesco Palazzo Venezia, sede di ambasciatori prima della Repubblica Veneta e poi dell’Impero Austro-Ungarico, con il relativo palazzetto e i palazzi Nepoti e Torlonia. Il maggior intervento architettonico dell’età contemporanea fu l’edificazione, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, del monumento a Vittorio Emanuele II, che fu causa di una serie di demolizioni e spostamenti che diedero all’area la struttura attuale.

Di fronte al palazzo storico che da il nome alla piazza fu poi costruito il Palazzo delle Assicurazioni Generali, inaugurato insieme al Vittoriano nel 1911.

Con il fascismo la piazza divenne lo spazio politicamente più rilevante del regime.

I grandi eventi, come la proclamazione dell’Impero e la dichiarazione di guerra, costituirono solo i momenti più solenni di una vicenda storica che vide questo scenario incessantemente impegnato a ospitare i riti della liturgia politica di Mussolini.

Le ultime demolizioni effettuate negli anni Trenta eliminarono ciò che restava degli edifici storici. Lo stesso Vittoriano, simbolo dell’ Italia post-unitaria, fu annesso ideologicamente dal regime insieme alla statua del Milite Ignoto che doveva, da quel momento, rappresentare il legame tra il sacrificio dei combattenti della Grande guerra e la rivoluzione fascista[40].

Piazza Venezia, Roma

Dopo la soppressione dei giornali contrari al regime ( l’Avanti , l’Unità , la Voce Repubblicana ) , tutti gli altri furono posti sotto controllo delle autorità fasciste che li utilizzavano per fare una continua propaganda.

Il fascismo si servì della radio, che proprio negli anni Venti appariva per la prima volta in Italia: nel 1927 fu istituito l’ EIAR ( Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), utilizzato come strumento di propaganda. Poche erano le famiglie che potevano acquistare un apparecchio e pagare il canone di abbonamento, perciò il governo fece distribuire apparecchi nelle scuole e nei municipi e fece installare altoparlanti nelle piazze per poter ascoltare le parole del Duce[41].

Il nuovo soggetto che occupa la piazza è l’altoparlante: i discorsi di Mussolini vennero trasmessi simultaneamente nelle scuole e nelle piazze di tutto il paese e vennero ascoltati collettivamente dall’intera comunità; inoltre erano percepiti come veri e propri eventi a cui si assisteva di persona. Per questo la radio divenne mezzo per eccellenza del messaggio propagandistico.

Inoltre Mussolini stesso girò tutta l’Italia, di piazza in piazza, per poi tornare a parlare dal balcone di Piazza Venezia, in vista dell’Altare della Patria e del Milite Ignoto, che assume un ruolo importante nell’immaginario fascista “ perché consente, da quel balcone e con quella voce, che può giungere a tutti via radio, di parlare agli italiani più alto degli alleati concorrenti del Quirinale e del Vaticano”[42].

Negli anni Trenta la voce acquisì una centralità unica tanto che si può parlare delle piazze italiane come vere e proprie “piazze elettriche”, occupate dalla radio, dal magnetofono e dai microfoni collegati ad altoparlanti. Prese forma la possibilità, non immaginabile fino a pochi anni prima, che messaggi verbali, musiche e suoni venissero riprodotti nel tempo e nello spazio e fossero udibili contemporaneamente da un grandissimo numero di persone.

Il microfono e gli altoparlanti divennero elementi irrinunciabili della comunicazione politica: i grandi raduni al cospetto di Hitler e Mussolini non sarebbero stati gli stessi senza la potenza della voce riprodotta e amplificata al punto di poter raggiungere milioni di persone.

Piazza Venezia divenne “ centro di un macrosistema di spazi pieni mentalmente collegati l’uno con l’altro”[43] : il balcone di Palazzo Venezia era collegato a tutte le piazze d’Italia. Piazza Venezia divenne il concentrato e la metafora di tutte le piazze del paese per vent’anni. Inoltre Mussolini visitò molti centri italiani:

la pratica itinerante e la riuscita di questi appuntamenti periodici fra il duce e la folla nei luoghi canonici della sociabilità  cittadina devono molto alla cultura della piazza.  Nessun capo di governo liberale ha mai sentito il bisogno e posseduto i talenti per ricreare l’agorà, moltiplicarne il numero e la capienza e arringare masse nei grandi spazi all’aperto. Questo lo ha voluto e lo ha saputo fare Garibaldi. Lo hanno fatto i vescovi, in occasione dei congressi eucaristici o delle adunanze delle associazioni cattoliche. Ed è poi diventata pratica quotidiana nell’azione sindacale e politica dei socialisti[44].

L’uso di Piazza Venezia fu:

una grande operazione massmediologica: inusitata per l’assiduità e la durata nel tempo, l’unicità dell’emittente, la programmazione e la centralizzazione dei messaggi, la dilatazione dei destinatari, la potenza dei mezzi di supporto. L’incontro con “Lui” sulla piazza è solo il momento culmine, il punto di arrivo di una preparazione sotterranea e visibile, in cui sono mobilitate forze e servizi statali e di partito, apparati amministrativi e polizieschi, organismi di categoria e giornali[45].

I grandi incontri tra il duce e la folla erano quindi preparati meticolosamente, come nelle parate militari del passato. A differenza di queste però, basate su una folla selezionata, le grandi adunate erano costituite da masse di civili che dovevano essere inquadrate e disciplinate.

I discorsi di Mussolini, oltre a produrre una profonda attesa e a richiedere un’accurata preparazione, lasciavano una lunga eco su stampa e radio.

Piazza Venezia, Adunata del 10 giugno 1940. sulla sinistra il Palazzo delle Assicurazioni Generali, mentre il famoso balcone è sul lato opposto.

Piazza Venezia era teatro delle Adunate Generali, come spiega il comandante della Marina Italiana  Salvatore Romano in un’ intervista di Cristiano D’Adamo[46].

Il comandante descrive il giorno della dichiarazione di guerra, 10 giugno 1940:

ero a Roma e frequentavo il 2° Liceo Classico al Mamiani. Ero Avanguardista Moschettiere, anzi “ Cadetto”, cioè avevo il grado più elevato raggiungibile da un Avanguardista. Ciò comportava alcune modeste responsabilità quali, ad esempio, quella di inquadrare, in caso di Adunata Generale, il maggior numero possibile di Avanguardisti e raggiungere di corsa Piazza Venezia. Sottolineo: a piedi e di corsa. Per chi conosce Roma, fare di corsa da Piazza Mazzini a Piazza Venezia non è una passeggiatina!

Al prolungato ululato delle sirene bisognava interrompere qualsiasi attività, indossare divisa e correre a Piazza Venezia per ascoltare la parola del Duce […] Di Adunate Generali non ce ne furono molte. Che io ricordi, tre o quattro, anzi quattro: in occasione delle Sanzioni all’Italia (18 novembre 1935), in occasione della conquista di Addis Abeba (5 maggio 1936), della proclamazione dell’Impero (9 maggio 1936) e dell’inizio della guerra (10 giugno 1940).

In tutte e quattro le Adunate Generali io ero presente e sempre “piazzato” quasi sotto il fatidico balcone perché il percorso lo facevo veramente di corsa ed arrivavo sul posto dell’Adunata prima che la Piazza fosse gremita dalla “marea oceanica” di camice nere come si vede nella documentazione fotografica dell’epoca.[47]

L’avventura di Mussolini ebbe fine in un’altra famosa piazza: Piazzale Loreto a Milano.

Venuto a conoscenza di un tentativo di arresto, riuscì a fuggire dalla Prefettura di Milano, dove si era rifugiato, anticipando l’arrivo dei partigiani. Tentando la fuga in Svizzera o in Germania, la sera del 25 aprile 1945 fece dirigere il convoglio in direzione di Como, lungo la sponda occidentale del lago dove era stanziata una colonna di mezzi tedeschi in ritirata.

La mattina del 26 aprile tentò la fuga insieme ad alcuni gerarchi e all’amante Claretta Petacci, nascondendosi in un camion della colonna travestito da militare tedesco, ma i partigiani lo riconobbero e lo chiusero in un casolare durante la notte tra il 27 e il 28 aprile.

Mussolini venne fucilato il 28 aprile del 1945. Il suo corpo, insieme a quello di Claretta Petacci e di altri tre gerarchi furono legati a testa in giù ed esposti a Piazzale Loreto a Milano.

I corpi Mussolini (secondo a sinistra) e di Claretta Petacci (riconoscibile dalla gonna), esposti a Piazzale Loreto, Milano, insieme ai corpi di tre gerarchi.

La caduta del Fascismo e il dopoguerra

Il 10 luglio 1943 gli alleati sbarcarono in  Sicilia e il 25 luglio dello stesso anno il Gran Consiglio tolse a Mussolini la guida del partito e dell’Italia. Il Re affidò a Badoglio l’incarico di Primo Ministro. In città vennero promosse manifestazioni di piazza e feste popolari, nell’illusione che, con la caduta del regime, la guerra fosse finita. È in questa fase che si aprì la riconquista della piazza da parte dell’antifascismo.

Nel periodo che intercorse tra la caduta del fascismo e l’occupazione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco ( 8 settembre 1943 ) si scontrarono da un lato il diffuso desiderio di pace e dall’altro la volontà del governo Badoglio di impedire movimenti di piazza. In tutta Italia vennero represse manifestazioni popolari, alcune con conseguenze tragiche: è il caso delle Officine Reggiane di Reggio Emilia, dove il 28 luglio un corteo di operai che si accingeva a manifestare si scontrò con un reparto militare che aprì il fuoco, uccidendo 9 lavoratori.

Inoltre le occupazioni da parte dei braccianti delle terre lasciate incolte dai latifondisti e le manifestazioni contro il razionamento e la disoccupazione sfociarono in vere e proprie stragi.

Alla fine del secondo conflitto mondiale, la piazza è stata il luogo in cui gli italiani ritrovarono la possibilità di riunirsi per protestare o per dissentire e non più solo per obbedienza.

Le manifestazioni erano guidate dai partiti politici e dai neo-nati sindacati, per i quali la piazza rappresentava lo strumento più importante per riunire e raggiungere i propri simpatizzanti. Le manifestazioni erano sia momenti di festa per la libertà riconquistata, sia momenti di impegno politico.

I grandi partiti di massa che si stavano riorganizzando avevano bisogno di far crescere il senso di appartenenza dei cittadini e i raduni politici di massa erano lo strumento di reclutamento politico fondamentale.

La novità del dopoguerra è costituita dal fatto che la piazza richiamò non solo i partiti comunisti e socialisti, ma anche quelli cattolici che, rompendo il riserbo storico della Chiesa ad uscire al di fuori dei propri spazi tradizionali (le cerimonie e le processioni religiose), hanno cercato un accesso all’interno di spazi laici.

La piazza del dopoguerra venne a rappresentare lo specchio di una società alla ricerca di nuove forme di sviluppo e di leaders da cui farsi motivare e coinvolgere.

Il Sessantotto

Il 1968 è stato un anno denso di manifestazioni e cortei. Grandi movimenti di massa socialmente disomogenei (operai, studenti e gruppi etnici minoritari) attraversarono molti paesi del mondo con la loro carica  contestativa e sembrarono far vacillare governi e sistemi politici in nome di una trasformazione radicale della società.

Il movimento nacque alla fine degli anni Sessanta in America e raggiunse la sua apoteosi nel 1968. Ebbe origine presso i giovani e gli operai contro la allora nuova società dei consumi basata sul valore del denaro e del mercato ed ebbe come nemico comune l’autorità: nelle scuole si contestava l’autorità dei professori e il sistema scolastico obsoleto; nelle fabbriche si contestava l’autorità del potere economico e l’organizzazione del lavoro; nella famiglia si contestava l’autorità dei genitori.

Gli obiettivi dei giovani e degli operai erano gli stessi: riorganizzare la società in base al principio di uguaglianza, rinnovare la politica in nome della partecipazione di tutti i cittadini alle decisioni, eliminare ogni forma di oppressione sociale e di discriminazione razziale, estirpare la guerra come mezzo di relazione tra gli Stati.

Il movimento americano per i diritti civili aveva costituito, fin dall’inizio degli anni Sessanta, il prototipo di questa dinamica. La rivolta studentesca aveva come obiettivo prioritario la piena attivazione di quella democrazia americana che la costituzione prometteva ma che la società aveva in parte negato.

Le agitazioni promosse dai giovani si diffusero progressivamente in varie aree del pianeta tra la fine del 1967 e l’autunno del 1968. Francia, Cecoslovacchia e Germania occidentale furono attraversate da crisi politiche di vasta portata.

La presenza di operai a fianco di studenti caratterizzò anche il Sessantotto italiano, il più intenso e ampio tra quelli dell’ Europa occidentale.

In Italia la contestazione fu il risultato di un malessere sociale profondo poiché lo sviluppo economico non era stato accompagnato da un adeguato aumento del livello di vita delle classi disagiate.

L’espressione degli scioperi operai in fabbrica si saldò con il movimento degli studenti che scese nelle piazze rivendicando il diritto allo studio per i giovani in condizioni economiche disagiate.

La contestazione fu attuata attraverso forme di protesta fino ad allora poco conosciute: vennero occupate scuole ed università e vennero organizzate manifestazioni che in molti casi portarono a scontri con le forze dell’ordine. Per la prima volta il mondo dei lavoratori e il mondo studentesco provocarono tensioni radicali nel paese. Quando queste due linee di lotta si sono unite, l’andare in piazza ha acquistato molti significati. Prima di tutto gli operai portarono nei centri delle città una protesta che per molto tempo era stata vissuta nei reparti e in prossimità dei cancelli delle fabbriche. Entrare in città era un modo per sottolineare l’urgenza dei conflitti all’interno di contesti borghesi e ”salottieri” fino ad allora ostili e disinteressati a certi temi.

Le manifestazioni operaie divennero quindi simbolo di occupazione delle città e portarono ad alcuni importanti risultati: aumenti salariali, interventi nel sociale, minori ore di lavoro, diritti di assemblea e consigli di fabbrica;inoltre gettarono le basi dello Statuto dei lavoratori, siglato nel 1970.

I primi cortei del 1968

Le piazze della contestazione operaia e studentesca divennero anche luogo di costruzione di identità, basti pensare al movimento femminista che si sviluppò in quel  periodo. Le ragazze degli anni Settanta sfilarono in corteo per l’aborto libero, gratuito ed assistito e diedero vita ad una protesta che portò alla promulgazione della legge sull’aborto nel 1978. Molti furono i cortei anche a  favore del divorzio, fino alla legge del 1° dicembre 1970.

Il movimento delle donne è stato quello che più ha vissuto e denunciato i limiti della modernizzazione italiana, la commercializzazione dell’immagine femminile e l’accentuata identificazione tra la libertà delle donne e la loro disponibilità sessuale.

Nonostante fosse diffusa in tutto il mondo, la protesta giovanile si spense,  all’inizio degli anni Settanta, senza aver riportato risultati significativi.

In Italia il movimento non si spense, ma si trasformò aumentando di intensità e continuò per tutto il decennio successivo. Merito del movimento giovanile fu quello di mettere al centro dell’attenzione valori che fino a poco tempo prima erano stati interessi di pochi. Temi come il pacifismo, l’antirazzismo, il rifiuto del potere come forma di dominio, i diritti delle donne e l’interesse per l’ambiente entrarono a far parte stabilmente del dibattito politico.

Gli anni di piombo

La piazza degli anni Settanta diventò il luogo della violenza e la sede degli atti più efferati. Alcuni movimenti, insoddisfatti della situazione politico-istituzionale, utilizzarono la violenza di piazza e successivamente la lotta armata e il terrorismo per modificare gli equilibri politici dello Stato.

L’inizio degli anni di piombo coincise con la contestazione studentesca ed operaia del Sessantotto: il primo caso di scontro violento contro le forze dell’ordine si ebbe a Roma il 1° marzo 1968 durante la battaglia di Valle Giulia, un noto scontro di piazza tra manifestanti politici e polizia. I manifestanti attaccarono la polizia che presidiava la Facoltà di Architettura dopo aver fatto uscire gli studenti che la occupavano.”Valle Giulia” è il nome della zona di Roma, alle pendici dei Parioli, dove hanno sede diverse istituzioni culturali internazionali. Si registrarono 148 feriti tra le forze dell’ordine e 478 tra i manifestanti.

Il primo atto della tensione che caratterizzò quegli anni fu la strage di Piazza Fontana a Milano il 12 dicembre 1969.

Strage di Piazza Fontana

Molte furono le organizzazioni coinvolte negli anni del terrorismo italiano: Lotta Continua, Prima Linea, le Brigate Rosse come gruppi di estrema sinistra e i NAR come gruppo di estrema destra.

I violenti scontri di piazza, la lotta armata e le stragi furono essenzialmente contro la forma politica della società che si desiderava modificare in base al modello marxista-leninista, che vedeva nell’azione rivoluzionaria uno strumento per effettuare il cambiamento della società in senso comunista.

Le spinte furono molto forti ma lo Stato democratico-parlamentare sopravvisse.

Il 1969 fu un anno denso di contestazioni. Il 12 dicembre avvennero cinque attentati nell’arco di un’ora. Il più grave fu la già citata strage di Piazza Fontana dove una bomba esplosa nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura provocò 16 morti e 88 feriti.

Altre terribili attentati degli anni di piombo furono: la strage di Piazza della Loggia a Brescia il 28 maggio 1974; la strage dell’ espresso Roma-Brennero il 4 agosto 1974; la strage della stazione di Bologna il 2 agosto 1980.

Le manifestazioni di piazza spesso degeneravano in guerriglia urbana: il livello di scontro culminò in quella che venne definita “strategia della tensione” portando ad un clima di insicurezza e di pericolo. Non solo stragi clamorose, ma tantissimi attentati contro obiettivi minimi, singoli cittadini, agenti dell’ordine. Nelle piazze molti manifestanti si presentarono mascherati, spesso armati di spranghe e chiavi inglesi, talvolta di bombe incendiarie e di pistole.

In questo clima l’opinione pubblica arrivò ad accettare una risposta di tipo “militare” da parte dello Stato e a giustificare l’emanazione di leggi speciali.

I partiti di governo,  cioè Democrazia Cristiana, partito social-democratico, partito repubblicano, partito socialista e partito comunista si unirono per la difesa della democrazia in pericolo elaborando una serie di leggi tra cui la legge Reale(n. 152, 22/5/1975) che autorizzava la polizia a sparare nei casi in cui ne ravvisasse la necessità. Questa legge fu approvata a grande maggioranza dall’opinione pubblica.

Nel 1978 seguì l’istituzione di corpi speciali con finalità antiterroristiche: il GIS, Gruppo Intervento Speciale dei Carabinieri e il NOCS, Nucleo Operativo Centrale di Sicurezza della Polizia.

Il 4 maggio 1977 a Milano, nel corso di una manifestazione, alcuni partecipanti aprirono il fuoco contro la polizia uccidendo un agente.

Verso la fine del decennio gli episodi di violenza scemarono e crollò il sostegno alle Brigate Rosse dopo l’assassinio di un operaio nel 1979.

L’idea che la lotta armata e la violenza in piazza potessero essere un mezzo per risolvere conflitti sociali aveva perso credito all’interno delle frange più estreme dei due schieramenti politici.

Uno sguardo fuori dall’Italia: la protesta di Piazza Tian’anmen

Piazza Tian’anmen, Pechino

La protesta di piazza Tian’anmen iniziò da una dimostrazione studentesca scoppiata nella piazza della città di Pechino tra il 15 aprile e il 4 giugno 1989.

La protesta, nata per denunciare l’instabilità economica e la corruzione politica dello stato cinese, fu soppressa con la violenza da parte del governo, sotto il controllo del Partito Comunista Cinese. Il numero dei morti causati dalla repressione è difficile da determinare, ma oscilla tra i 200-300 (dati governativi) e i 2.000-3.000 (dati delle associazioni studentesche e della Croce Rossa cinese)[48].

La protesta studentesca cominciò nell’aprile del 1989 e fu scatenata dalla morte di Hu Yaobang, il vicesegretario generale del partito, liberale, che fu obbligato alle dimissioni da parte di Deng Xiaoping: ciò venne giudicato  negativamente, specialmente da parte degli intellettuali.

La protesta ebbe inizio in modo relativamente pacato, nascendo dal cordoglio nei confronti di Hu Yaobang e chiedendo al partito di prendere una posizione ufficiale nei suoi confronti. La protesta divenne  più intensa dopo le notizie dei primi scontri tra manifestanti e polizia. Gli studenti si convinsero allora che i mass media cinesi stessero distorcendo la natura delle loro azioni, che erano solamente volte a supportare la figura di Hu Yaobang.

In occasione dei funerali di Hu un vasto gruppo di studenti si recò in Piazza Tian’anmen, chiedendo d’incontrare Li Peng, oppositore politico di Hu, ma questi non volle ascoltare le loro richieste. I giovani così proclamarono uno sciopero generale all’università di Pechino.

Il 26 aprile, un editoriale del People’s Daily, riportando un discorso di Deng Xiaoping, accusò gli studenti di complottare contro lo stato e fomentare agitazioni di piazza[49].

Dopo queste dichiarazioni  gli studenti scesero nelle strade di Pechino il 27 aprile, sfidando il pericolo di repressioni da parte delle autorità e richiedendo nuovamente che il governo ritrattasse le dichiarazioni fatte in precedenza.

Il 4 maggio circa 100.000 persone marciarono nelle strade di Pechino, chiedendo un dialogo formale tra le autorità del partito e una rappresentanza eletta dagli studenti. Il governo rifiutò la proposta,e acconsentì solamente il dialogo con i membri designati dall’organizzazione studentesca.

Il 13 maggio un gruppo di manifestanti occupò Piazza Tian’anmen, cominciando uno sciopero della fame per chiedere al governo di ritrattare l’accusa riportata dall’editoriale del People’s Daily.

Migliaia di studenti si unirono allo sciopero della fame, supportati da centinaia di migliaia  di residenti di Pechino[50].

I manifestanti innalzarono al centro della piazza un’enorme statua costruita con polistirolo e cartapesta , chiamata Dea della Democrazia.

Il 20 maggio il governo dichiarò la legge marziale, ma la protesta continuò. Dopo questa delibera dei leader del partito, fu ordinato l’uso della forza per risolvere la crisi; Zhao Ziyang fu rimosso dal suo incarico a causa della sua incapacità nel risolvere la situazione senza dover ricorrere all’uso della forza.

Hu Jintao, allora segretario del Partito nella regione autonoma tibetana, prese posizioni molto dure nei confronti della situazione, mandando un telegramma ai vertici del Partito, nel quale dichiarava di appoggiare in pieno l’uso della forza contro i manifestanti.

Nella notte tra il 27 e il 28 fu mandato l’Esercito di Liberazione Popolare  a riprendere il controllo della città, dotato di carri armati. Questi attaccarono gli studenti e i lavoratori nelle strade di Pechino. La repressione causò morti sia tra i civili che tra i militari.

Ancora oggi le stime dei morti variano. Il governo cinese parlò inizialmente di 200 civili e 100 soldati morti, ma poi abbassò il numero di militari uccisi ad “alcune dozzine”.

La CIA stimò invece 400-800 vittime. La Croce Rossa riferì 2600 morti e 30.000 feriti. Le testimonianze di stranieri affermarono invece che 3000 persone vennero uccise. La stessa cifra fu data da un sito inglese di Pechino. Le stime più alte parlarono di 7.000-12.000 morti[51].

La repressione di Piazza Tian’anmen provocò la ferma condanna da parte di numerosi Paesi occidentali nei confronti del governo comunista cinese

Oltre all’ enorme statua di polistirolo, un altro simbolo della rivolta è il rivoltoso sconosciuto che, completamente disarmato, affronta una colonna di carri armati: le fotografie che lo ritraggono sono popolari nel mondo intero e sono per molti un simbolo di lotta contro la tirannide.

Le piazze politiche oggi

I primi anni di questo nuovo secolo dimostrano che la piazza non ha affatto esaurito il suo ruolo vitale. Negli ultimi anni la piazza  è tornata viva, partecipata, scenario della protesta e della volontà di cambiamento di milioni di persone di ogni generazione.

Ma a quali cambiamenti portano le ritrovate manifestazioni di piazza oggi?

Chi utilizza la piazza e perché?

La ricerca “Piazza, popoli e rappresentanze”, realizzata nell’ambito dell’iniziativa “Un mese di sociale. Leaders senza popolo. Popolo senza leaders”, presentata al Censis nel giugno 2004 dal Direttore Giuseppe Roma, da Maria Pia Canusi, curatrice della ricerca, e da Giuseppe De Rita, Segretario generale del Censis, rappresenta un ritratto dei nuovi frequentatori della piazza e delle loro motivazioni.

La piazza attuale viene definita “carismatica”[52] perché molto spesso si gremisce di gente spinta da un leader che riesce ad emozionarla e a chiederne il consenso, ma “fluida ed ininfluente”[53]: chi vi accorre infatti ha già un’identità definita altrove, a differenza delle grandi folle che riempirono le piazze nel dopoguerra.

Di questa piazza colpiscono soggetti e gruppi spontanei che in parte affidano la definizione della propria identità alla rappresentazione che i media ne danno, senza lasciare alcuna traccia del loro passaggio. Un esempio è dato dalle manifestazioni “no global”, organizzate soprattutto da gruppi giovanili appartenenti ai centri sociali autogestiti (alcuni nati già negli anni Settanta). Numerosi ed eterogenei per riferimenti culturali e strategie d’azione, i centri sociali sottolineano la difesa dei gruppi più emarginati e l’esigenza di riappropriazione dello spazio e della costruzione identitaria.

La protesta è utilizzata come strumento di pressione sulle istituzioni: chi protesta,  interrompendo attraverso una forma non convenzionale di azione la routine quotidiana, si rivolge innanzi tutto all’opinione pubblica prima ancora che alla rappresentanza eletta.

Siamo di fronte ad una piazza composta da una molteplicità di soggetti, talvolta incompatibili tra loro, che con essa hanno un rapporto di passaggio, senza sviluppare una cultura e proposte comuni. E questo è il limite della piazza contemporanea: di non trattenere alcun legame di identità nonostante la visione esterna che  di essa ci propongono i media.

Tipologia degli eventi di piazza

La ricerca “Piazza,popoli,rappresentanze” ha ricostruito le caratteristiche principali degli eventi di piazza dal maggio 2003 al maggio 2004, basandosi sull’elaborazione Censis di dati Istat e  di notizie presenti sui quotidiani “ La Repubblica”, e il “Corriere della sera” sul piano nazionale, “Il Mattino” di Napoli e “Il Gazzettino” di Venezia sul piano locale.

I soggetti organizzatori degli eventi di pizza a livello nazionale sono stati soprattutto i sindacati( 30,5% degli eventi), sia come sigla unitaria (Cgil, Cisl, Uil), sia come singole confederazioni.

La maggior parte delle iniziative hanno avuto luogo a Roma (circa il 70%) e a Milano ( il 18%), e solo il 12% nelle regioni meridionali. Nella capitale si svolgono le  manifestazioni che vogliono avere risonanza nazionale.

Sul piano locale spicca la spontaneità delle iniziative di piazza, organizzate soprattutto per dar voce a problemi sociali ed economici, mettendo in secondo piano il peso dei promotori.

Tra gli eventi di piazza le manifestazioni sono state la tipologia più frequente (54%), seguita da cortei (20%)  e dai raduni (10%), mentre le iniziative di piazza legate agli scioperi sono state il 6% del totale.

Per quanto riguarda il numero di soggetti coinvolti dagli eventi di piazza, non è possibile disporre di dati certi, poiché quelli riportati dai promotori sono costantemente in contrapposizione con quelli delle Questure. Le manifestazioni a livello nazionale sembrano aver coinvolto circa 6 milioni di persone, con una media di partecipazione ad evento di 135mila persone.

Molti eventi sono stati organizzati per motivi politici (56%): i raduni, i comizi dei partiti, le manifestazioni contro la riforma delle pensioni e la finanziaria, le marce per la pace. Sono rilevanti anche le iniziative commemorative e ludiche, come i concerti e i festeggiamenti per l’ elezione di politici.

Analizzando i dati emerge, come motivazione principale per l’organizzazione di eventi di piazza, soprattutto la protesta contro diverse azioni di governo.

Il nuovo popolo della piazza

Oggi la piazza è animata da ceti medi abbastanza indifferenziati. Il “tipo” che va in piazza è soprattutto maschio, giovane (tra i 18 e i 34 anni), laureato, occupato o studente, residente in città medio-grandi, soprattutto del Centro-Sud. La piazza risulta essere specchio dell’attuale struttura sociale italiana, dove il ceto medio rappresenta la componente più ampia.

Gli italiani scesi in piazza tra maggio 2003 e maggio 2004, secondo la ricerca Censis, sono stati il 12,8% della popolazione. Tra questi il 3% dichiara di averlo fatto solo una volta, il 5,2% due  o tre volte,  il 3,6% più di tre volte ( soprattutto persone residenti al Centro). Ciò fa supporre che chi utilizza la piazza non lo fa in modo isolato, ma sulla base di un rapporto di frequentazione costante. Tra chi partecipa a manifestazioni più di tre volte, il 4,5% è di sesso maschile (soprattutto tra i 18 e i 34 anni) e il 2,8% è di sesso femminile (soprattutto tra i 35 e i 64 anni).

Il 12,8% degli italiani sono scesi in piazza, un dato del tutto diverso da quelli che ci giungono da altre fonti. Infatti analizzando i risultati delle indagini Multiscopio sulla “Vita quotidiana” dell’ Istat relative all’anno 2003-2004, emerge che gli italiani coinvolti in cortei e manifestazioni sono passati dall’8% del 1994 al 4,9% del 2004. Il 12,8% rilevato dall’indagine Censis porta a più di un raddoppio del dato Istat, segno di una maggior attenzione per gli eventi che richiedono una presenza diretta ed attiva delle persone.

Un altro dato da analizzare è quello della partecipazione politica dei cittadini. La prima osservazione rilevabile riguarda le donne che rappresentano il 90,6%  di chi non va in piazza, contro l’85% degli uomini, smentendo le immagini trasmesse dalle televisioni in occasione delle manifestazioni più importanti, in cui vengono inquadrate spesso le donne.

Inoltre, come emerge dai dati Istat:

  • le donne che non parlano mai di politica sono il 45,4%, gli uomini il 23,6%;
  • le donne che parlano tutti i giorni di politica sono solo il 4,7% mentre gli uomini l’11,4%;
  • le donne che svolgono attività gratuita per un partito sono lo 0,6%;
  • le donne che ascoltano dibattiti politici sono il 18,2%, gli uomini il 28,3%;
  • le donne che partecipano a cortei sono il 3,9% contro il 6% degli uomini.

La partecipazione ad eventi di piazza coinvolge molto i giovani, soprattutto gli studenti (30,7%) e gli occupati (13,2%), mentre è più ridotta  tra i disoccupati, le casalinghe e i pensionati.

Il titolo di studio di chi va in piazza indica una netta prevalenza di formazioni alte, cioè universitarie (16%) e di scuola secondaria superiore (15%), a cui si collega anche una partecipazione assidua  di   chi è andato in piazza più di tre volte nell’arco di un anno.

Un altro elemento che influenza la partecipazione di piazza è la dimensione del luogo in cui si vive: premia molto di più la grande città rispetto alla piccola dimensione. Nelle città medie, infatti, si concentra la maggior percentuale di chi non va in piazza ( 90,4%), forse perché si tratta di contesti locali in cui la qualità della vita è buona o elevata, tale da non sentire la necessità di protestare o manifestare attivamente su questioni economiche e sociali che sembrano appartenere ad altri. Il 9,3%  delle persone che sono scese in piazza due o tre volte nell’arco di un anno risiedono in città che hanno una popolosità di oltre 250.000 persone.

Anche la cultura informatica sembra essere collegata alla propensione a scendere in piazza: chi usa Internet ha manifestato di più rispetto a chi non ha questa abitudine ( il 17% contro l’8,1%). Da questo dato si può capire come una maggior dimestichezza con l’informatica si può tradurre in una maggior partecipazione sociale e politica. Internet infatti è uno degli strumenti che oggi possono avvicinare di più alla politica: tutti i partiti politici sono dotati di siti web attraverso cui divulgano informazioni di propaganda e informano i simpatizzanti su eventuali eventi e manifestazioni di piazza, oltre ad attivare forum di discussione interattivi per mantenere elevato il livello di partecipazione politica.

Perché scendere in piazza

Molto interessante è capire le motivazioni che spingono i cittadini ad utilizzare la piazza come mezzo di comunicazione politico-sociale: che cosa ne pensano le persone delle manifestazioni?

Analizzando le risposte raccolte dal sondaggio Censis emerge come motivazione più diffusa dell’andare in piazza la possibilità di ritrovarsi insieme a persone che la pensano allo stesso modo (per un totale di dichiarazioni d’accordo pari al 64%)

Al secondo posto tra le motivazioni dell’utilizzo della piazza vi è l’idea che le manifestazioni siano un modo di protestare o di esprimere il proprio consenso nei confronti delle istituzioni politiche (58,6%); al terzo posto l’opinione secondo cui le manifestazioni sarebbero uno strumento per influire sulle decisioni politiche (50,3% di dichiarazioni d’accordo).

Inferiori, ma non marginali,  le posizioni di chi vede le manifestazioni come elemento di disturbo dell’ordine quotidiano (  44,9%) o un’inutile perdita di tempo(28,3%). Gli italiani quindi credono molto nell’utilizzo della piazza come mezzo di partecipazione politica, anche se in misura e in forme diverse.

L’ordine di preferenze delle motivazioni per la partecipazione alle manifestazioni non muta anche se misurato su chi realmente ha partecipato a qualche evento di piazza nell’anno analizzato dall’indagine: per tutti, anche per chi non ne ha fatto esperienza diretta, la piazza è un luogo d’incontro di idee simili e di chi ne è portatore, un luogo in cui sembra svilupparsi una sorta di sentire comune e il desiderio di condividere esperienze in una dimensione diversa.

Analizzando le motivazioni in base al sesso emerge che le donne sono a favore della dimensione comunitaria della piazza, cioè della possibilità di trovarsi insieme a persone che la pensano nello stesso modo( 65% delle donne), mentre gli uomini vedono le manifestazioni come strumento per esprimere protesta o consenso(59,3% degli uomini).

Per quanto riguarda la differenziazione di questi giudizi sul piano territoriale, si può osservare che la dimensione comunitaria della piazza è avvertita in modo più forte al Nord, soprattutto al Nord-est (68,2%).

Al Centro prevale l’idea che attraverso le manifestazioni si possa influire sulle decisioni di governo. In questa area ricade la città di Roma e la vicinanza con i luoghi decisionali della politica può influenzare questa percezione.

Al Sud invece spicca in modo più significativo che altrove il giudizio negativo sulle manifestazioni, viste come elemento di disturbo alla quiete pubblica (45,6%).

Anche la condizione occupazionale influenza le valutazioni espresse nei confronti della piazza:  le casalinghe e i pensionati sono i più infastiditi dagli effetti di disturbo provocati  dagli incontri di piazza, mentre gli studenti sono i più entusiasti perchè vedono nelle manifestazioni una reale possibilità di influire sulle decisioni pubbliche.

Chi rappresenta gli interessi dei cittadini

Per capire il rapporto dei cittadini con la piazza, la ricerca “Piazza,popoli e rappresentanze” ha individuato i soggetti che meglio di altri rappresentano gli interessi collettivi: in questo modo è possibile ricostruire i soggetti verso cui si dirige la domanda di delega espressa dagli italiani e come questa domanda si intreccia con il loro rapporto con le manifestazioni.

Dai dati del sondaggio emerge che gli italiani si sono totalmente distaccati dalle strutture organizzate storicamente per offrire rappresentanza. Infatti il soggetto in cui gli italiani si riconoscono di più nella rappresentazione dei propri interessi sono le Associazioni che curano il benessere della persona (39,3%), seguite dalle organizzazioni di volontariato (38,8%), dalla Presidenza della Repubblica (35,3%) e dalle Chiese (34,2%). Questo dato è collegato al fatto che per gli italiani al primo posto vengono il benessere, i servizi alla persona e i Valori; seguono il lavoro, lo sviluppo e la crescita economica; infine, il bisogno di rappresentanza politica da parte di istituzioni quali il Parlamento, il Governo e i leaders dei partiti. Infatti quella offerta dalle Associazioni che curano il benessere della persona non è rappresentanza sociale in senso stretto, ma è espressione di alcuni bisogni avvertiti come prioritari dalla popolazione ( la qualità della vita, il pensare alla propria cura, la Patria e Dio).

Dopo le Chiese vengono indicati i media, cioè giornali e fonti di informazione televisiva, come più rappresentativi dei sindacati e dei partiti politici (28% contro il 26,5% dei sindacati e il 15,6% dei partiti).

Le istituzioni politiche sembrano aver perso il fondamento della loro esistenza, cioè la fiducia con la popolazione, infatti sono collocate in fondo alla graduatoria: solo il 18,3% degli italiani indica il Parlamento come soggetto che meglio rappresenta i propri interessi, mentre solo il 17,5% indica il Governo. All’ultimo posto vengono indicati i singoli leaders politici (14,1% degli italiani).

Le Associazioni che curano il benessere della persona sono particolarmente significative per i giovani fino a 34 anni. Le donne si sentono più rappresentate dai sindacati, dai media, dalle Chiese e dalle organizzazioni di volontariato, mentre gli uomini prevalgono fra chi apprezza la Presidenza della Repubblica come soggetto che rappresenta i propri bisogni.

La condizione occupazionale non influenza la vicinanza o la distanza dalle organizzazioni di rappresentanza: i disoccupati condividono con le casalinghe e i pensionati l’apprezzamento per gli organismi di volontariato, gli occupati e gli studenti preferiscono le Associazioni del buon vivere come riferimenti di rappresentanza. Gli studenti, in particolare, sono coloro che dichiarano di sentirsi rappresentati dai partiti politici, molto più  rispetto a chi lavora e questo indica il potenziale di partecipazione di cui sono portatori.

Inoltre, la preferenza per i partiti politici e per i singoli leaders politici è espressa in misura maggiore da chi usa Internet. Ciò conferma come i partiti che utilizzano questo mezzo di comunicazione riescano a riavvicinare i giovani alla politica attraverso iniziative che coinvolgono gli utenti.

Fra partecipazione a manifestazioni di piazza e domanda di rappresentanza esiste una relazione molto significativa. Infatti coloro che frequentano i cortei, i raduni, i girotondi, oltre alle Associazioni del benessere personale, collocano al secondo posto, come soggetti che rappresentano i propri interessi, i sindacati e gli organismi di categoria, facendo salire verso l’alto il riferimento a questi soggetti che sono invece lontani dalle preferenze della popolazione. Emerge però un clima di protesta, visto che solo il 7,3% di chi scende in piazza riconosce nel Governo un soggetto che possa rappresentare gli interessi, e 14,7% il Parlamento, mentre ritiene che i singoli leader politici lo facciano nel 22,6% delle risposte.

Da questi ultimi dati emerge una identificazione tra la piazza e l’ opposizione politica più o meno organizzata, che trova conferma anche nelle motivazioni per cui questa componente frequenta le manifestazioni, motivazioni che spesso sono contro le iniziative del Governo.

Chi ritiene la piazza una perdita di tempo o addirittura un danno per la collettività ha sviluppato un rapporto molto distante dalla politica: chi non si sente rappresentato da nessuno dei soggetti proposti è il 21,9% , di cui il 17,7% esprime giudizi negativi sulla piazza. Si tratta di persone che si affidano molto alle organizzazioni di volontariato e alle Chiese.

Chi invece enfatizza la partecipazione attiva agli eventi di piazza (soprattutto persone dai 35 anni in su) vede nei sindacati, nei partiti e negli Enti Locali gli organismi più vicini ai bisogni legati al lavoro e al posizionamento.

La piazza come esperienza di vicinanza fisica e di protesta

Analizzando i dati, la ricerca” Piazza, popoli e rappresentanze” parla della piazza come “ esperienza comunitaria “ che si esaurisce non appena ha fine una manifestazione. Infatti oggi la piazza non riesce più a formare identità sociali come accadeva in certi periodi del passato. La piazza è “comunitaria” perché si costituisce soprattutto come una sede in cui condividere idee,  ma anche agire in prossimità fisica con altri e si alimenta di rapporti immateriali: dall’atto di convocazione all’immagine che le viene attribuita, anche dai media.

Le manifestazioni spontanee nascono spesso grazie a contatti a distanza, tramite fax o Internet, con i quali è stato possibile inventare nuove modalità di convocazione per eventi distanti nel tempo e nello spazio.

Chi scende in piazza è soprattutto colui che è alla ricerca di soluzioni per uscire dalla condizione di “ solitudine sociale “[54] in cui molto spesso si trova ad essere collocato.

La tendenza ad utilizzare la piazza è in crescita: la voglia di ritrovarsi insieme per condividere le stesse idee diventa elemento di protesta rispetto al sistema sociale.

Si potrebbe pensare che l’orientamento alla protesta e al dissenso possa nascondere anche la nascita di associazioni ed istanze antigovernative. Però è improbabile che i giovani studenti e i professionisti che frequentano la piazza diventino neo-rivoluzionari, poiché pur essendo categorie tra loro diverse, entrambe sembrano orientate alla ricerca di compatibilità con il sistema sociale ed economico esistente.

La crescente partecipazione ad eventi di piazza quindi è più di tipo civico che politico e rispecchia interessi di tipo personale più che collettivo. È una partecipazione diversa rispetto a quella collegata alle piazze del passato poiché non è portatrice di scelte e di comportamenti collettivi antagonistici. La piazza “comunitaria” rappresenta un nuova e diversa modalità di partecipazione: il vero input delle manifestazioni sembra essere rappresentato dalle incertezze dei cittadini nei confronti del sistema socio-politico che li rappresenta.

I dati empirici analizzati evidenziano che nelle piazze contemporanee non siamo di fronte ad un nuovo, unico popolo, ma a tante persone unite da un evento per esporre il proprio dissenso e il proprio punto di vista su questioni che toccano i propri interessi.

La piazza “comunitaria” non porta alla costruzione di decisioni acclamate all’unanimità, come poteva succedere fino a venti anni fa, pronte ad essere analizzate in sede parlamentare. Anche le motivazioni che spingono a scendere in piazza sono diverse rispetto a quelle del passato, essendo legate più a spinte personali che collettive.

In definitiva si può affermare che la piazza è tornata come luogo in cui le motivazioni individuali degli italiani si condensano in dimensioni comunitarie e in manifestazioni, dando vita ad un nuovo fenomeno di aggregazione che si può definire discontinuo.

Manifestazione della Sinistra Italiana, ottobre 2007, Roma

Manifestazione della Casa delle Libertà, 2 dicembre 2006, Roma


[1] Cuocolo, F. Lezioni di diritto pubblico, Milano , Giuffrè 2002, p. 391.

[2] G. Grossi, L’opinione Pubblica,Laterza, Roma-Bari,2004

[3] J. Lazar, L’ opinion publique,Sirey, Paris, 1995, cit. in G. Grossi, L’opinione Pubblica,Laterza, Roma-Bari,2004

[4] P. Champagne, Faire l’opinion. Le nouveau jeux politique, Ed.de Minuti, Paris, 1990 p.62, cit in G. Grossi, L’opinione Pubblica,Laterza, Roma-Bari,2004, p.113.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] J. Lazar, L’ opinion publique,Sirey, Paris, 1995, p.132 cit. in G. Grossi, L’opinione Pubblica,Laterza, Roma-Bari,2004, p.121.

[8] Ibidem.

[9] P. Champagne, Faire l’opinion. Le nouveau jeux politique, Ed.de Minuti, Paris, 1990 p.62, cit in G. Grossi, L’opinione Pubblica,Laterza, Roma-Bari,2004, p.121.

[10] G. Ragnetti, Opinioni sull’opinione, Ed. QuattroVenti, Urbino, 2006

[11] Ibidem, p. 30.

[12] Smelser, Il comportamento collettivo,  Vallecchi Firenze,1968

[13] R. Park, La folla e il pubblico, Roma, Armando Editore,1996

[14] G. Ragnetti, Opinioni sull’Opinione,Quattro Venti, Urbino 2006

[15]  Ibidem, p. 127

[16] G. Contini, Il comizio, saggio in I luoghi della memoria, strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.173

[17] Ibidemi

[18] G. Sacerdote, Vita di Garibaldi, Rizzoli, Milano 1957, cit in [18] G. Contini, Il comizio, saggio in I luoghi della memoria, strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.177

[19] E. Ciccotti, Psicologia del movimento socialista, in G. Contini, Il comizio, saggio in I luoghi della memoria, strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari, 1997.

[20] Ibidem

[21] Ibidem

[22] G. Contini, Il comizio, saggio in I luoghi della memoria, strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.185.

[23] G. Contini, Il comizio, saggio in I luoghi della memoria, strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari, 1997

[24] Ibidem, p.190.

[25] Ibidem, p.191.

[26] Ibidem, p.192.

[27] Padre Lombardi, Per un mondo nuovo, Roma 1951, pp. 15-16. Cit. in  M. Isnenghi, L’Italia in piazza- I luoghi della vita pubblica dal 1948 ai giorni nostri, Biblioteca Storica il Mulino, Bologna 2004, p.

[28] G. Contini, Il comizio, saggio in I luoghi della memoria, strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Laterza, Roma-Bari, 1997, p.200.

[29] Ibidem, p.201.

[30] www.wikipendia.org , alla voce 1° Maggio

[31] M. Isnenghi, “L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri”, p.147

[32] Ibidem,  p. 148

[33] La citazione è tratta da “Lotta di classe” del 6-7 maggio 1893, in M. Isnenghi, “L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri”, p.148

[34] Marco Fincardi, “ Primo maggio reggiano. Il formarsi della tradizione rossa emiliana”, Camere del lavoro di Reggio e di Guastalla, Reggio Emilia, 1990 vol. 2, p.124. la citazione è tratta dal quotidiano di Reggio Emilia “La giustizia”, 3 maggio 1906. In M. Isnenghi, “L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri”, p. 149

[35] Giovanni Zibordi, “ Ricordi e scorci di vita. Memorie di 1° maggio” in” Avanti”, 1° maggio 1910. In M. Isnenghi, “L’Italia in piazza. I luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri”, p. 150

[36] “Tra le violenze borghesi i proletari hanno celebrato il 1° maggio. Il significato”, in “Avanti!”, 3 maggio 1921 in M. Isnenghi, L’ Italia in piazza, i luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Biblioteca storica Il Mulino, Bologna 2004 p.150

[37] O. Dinale, La rivoluzione che vince(1914-1934), Campitelli, Roma p. 57 cit in M. Isnenghi, L’ Italia in piazza, i luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Biblioteca storica Il Mulino, Bologna 2004 p. 49.

[38] E. Scalfari, L’ Espresso, 25/11/1999

[39] F. Fiorani, F. Tacchi, Storia Illustrata del Fascismo, Giunti, 2000

[40]M. Isnenghi, L’ Italia in piazza, i luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Biblioteca storica Il Mulino, Bologna 2004

[41] F. Fiorani, F. Tacchi, Storia Illustrata del Fascismo, Giunti, 2000

[42] in M. Isnenghi, L’ Italia in piazza, i luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Biblioteca storica Il Mulino, Bologna 2004, p.50

[43] M. Isnenghi, L’ Italia in piazza, i luoghi della vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Biblioteca storica Il Mulino, Bologna 2004, p. 370

[44] Ibidem, p. 356

[45] Ibidem, p. 364

[46] www.regiamarina.net

[47] Ibidem

[48] www.wikipendia.org  alla voce Piazza Tian’anmen

[49] Ibidem

[50] Ibidem

[51] Ibidem

[52] “Piazza, popoli e rappresentanze”, p. 4

[53] ibidem, p. 5

[54] Ibidem, p.42.

Pensavo fosse amore e invece …

Non ho sempre saputo cosa fare del mio futuro.

A dieci anni, molto fiera del fatto che le insegnanti amavano la mia esuberanza e la mia loquacità, mi ero convinta di voler diventare un avvocato. Qualche tempo dopo, a dodici anni, mossa dalla mia ingenua passione per il disegno, sarei voluta diventare una stilista.

Finché un giorno, in un tema di terza media, ho scritto che sarei diventata una giornalista.

Questo sogno mi ha accompagnato a lungo. Ho cominciato a credere che la mia naturale dote per la scrittura mi sarebbe bastata, e mi avrebbe portato a realizzarlo.

Negli anni del liceo ho iniziato a scrivere seriamente. Mi ricordo che in uno dei primi temi ebbi il voto più alto della classe: ero molto fiera.

All’insegnante era piaciuto perché ero stata sincera, perché avevo detto la verità: e allora credetti di capire perché avevo scelto quel sogno anziché un altro. Si radicò in me la convinzione che un buon giornalista è capace di dirla la verità.

Dice quello che vede, non calca la mano, non romanza. Un buon giornalista conosce la differenza fra le opinioni e ciò che invece la gente merita di sapere.

Il mio percorso di vita con tutto il bagaglio di esperienze che ne consegue, e i miei studi hanno orientato il mio pensiero verso due nuove direzioni e, siccome credo che solo le persone stupide non cambiano mai idea, ho lasciato che tesi più convincenti demolissero le mie.

Il mio percorso di vita mi ha fatto capire che la verità non esiste, e che se esiste non sarà mai la sola. I miei studi, invece, mi hanno insegnato che la professione che ho scelto per il mio avvenire presenta delle controversie che io nemmeno immaginavo; ho commesso degli errori di valutazione credendo ciò che non è.

A questa conclusione mi ci hanno portato soprattutto gli ultimi studi fatti in materia di informazione e comunicazione, capendo finalmente che le due cose sono differenti, ma differenti davvero.

Questa “strana” tecnica sociale così diversa da tutto quello che mi era stato inculcato con assidui ammaestramenti, che ha sovvertito tutte le mie convinzioni, che mi ha confusa, ma che forse ha portato un po’ di realtà in un universo che è stato a lungo falsato.

Perciò via l’idea che siccome mi piace scrivere e ne sono naturalmente portata, questa sia una valida ragione per voler diventare una giornalista. Via l’idea che il giornalista dice la verità, che è testimone freddo e asettico come l’occhio della telecamera.

Molto spesso la parola “verità” è stata la sorella della parola “obiettività”, tema quest’ultimo assai dibattuto, dal momento che molti ritengono sia la prima regola nella gerarchia della deontologia del giornalista. Addirittura in America la si insegna nelle università: ma è mai possibile insegnare l’obiettività? Esiste l’obiettività? E sopratutto: un giornalista può mai essere obiettivo?

Probabilmente no.

Un fatto indiscusso è che il giornalismo è mediazione tra la fonte e il destinatario di qualsivoglia messaggio: mediatore è appunto il giornalista.

Mediazione significa che ci si mette al servizio di un fatto, che lo si propone al cospetto della personalità, della cultura e della soggettività di colui che lo farà diventare una notizia capace di coinvolgere il cittadino-lettore, soddisfarne gli interessi, i bisogni, le curiosità.

Mediatore, ma anche interprete. Ma l’interpretazione non ha nulla a che vedere con l’obiettività.

Il secondo punto che ho sottoposto ai dubbi degli ultimi tempi e degli ultimi studi riguarda la differenza tra letteratura e giornalismo. Nello scegliere la professione giornalistica come mia futura occupazione forse avrei dovuto tener presente qualcosa di cui purtroppo non ero ancora a conoscenza, almeno non nel dettaglio.

La tecnica sociale di Francesco Fattorello, con la sua schematicità, ha fatto molta chiarezza sull’argomento.

Si parla di due tipi di informazione:
● Contingente: tempestiva, il cui valore si identifica nel momento più utile
● Non contingente: più lenta, non basa il suo successo sul carattere tempestivo

I fenomeni dell’informazione della prima categoria si identificano nell’informazione pubblicistica (tra cui anche il giornalismo), cioè nell’informazione indirizzata a quel particolare gruppo recettore, pur esso tempestivo e contingente, che si crede spesso di poter identificare nel così detto pubblico. I fenomeni di informazione che appartengono alla seconda categoria si concretano per mezzo di un processo che nei suoi termini non è diverso dal precedente ma le sue categorie e modalità appaiono diverse da quelle della prima categoria.

Del giornalismo c’è una bella definizione di Umberto Eco: “una storiografia dell’istante”.

Storiografia, dunque, non letteratura.

Il legame tra giornalismo e letteratura, l’opinione, anzi, che il giornalismo sia addirittura un genere letterario, nasce da una secolare tradizione, così radicata nel comune giudizio da trasformare in uno dei miti della professione quello che è invece un pesante impedimento a un modo moderno di fare informazione.

Ieri viveva la passione per il pezzo ben scritto, per la prosa elegante, per un linguaggio che però finiva col divenire troppo lontano dalla lingua parlata, e spesso poco comprensibile; oggi vive la convinzione che solo un stile scarno, asciutto, rapido ed essenziale, e alla portata di tutti può rispondere alla quella funzione fondamentale che è la mediazione di cui parlavo prima. Ecco perché qualcuno azzardò un concetto che inizialmente mi sembrò impossibile e assurdo ma che, con la dovuta attenzione, riuscì a comprendere fino in fondo:
“Indro Montanelli è stato il peggiore giornalista della storia italiana, Emilio Fede ne è il migliore”.

Come dicevo prima, i processi di informazione contingente e non contingente hanno gli stessi termini ma diverse modalità di comportamento.

Entrambi hanno come elementi:
● SP: un soggetto promotore che trasmette (e se è bravo comunica anche) non il fatto ma la forma che egli ha dato al fatto, ovvero l’opinione
● SR: un soggetto recettore che non si limita a ricevere ma interpreta a sua volta, ovvero aderisce o meno all’opinione
● M: un mezzo attraverso il quale trasmettere
● O: l’oggetto, il contenuto cui dar forma
● X): elemento che sta al di fuori del processo, il motivo per cui si mette in atto il processo d’informazione

Sono le modalità di comportamento a cambiare:
● la materia oggetto del primo processo attiene sempre a ciò che è attuale e contingente; nel secondo caso il processo attiene a opinioni cristallizzate
● La tempestività è una caratteristica fondamentale del primo processo ma del secondo, in cui non ci sono limiti di tempo.
● La pubblicità del processo contingente è caratteristica fondamentale, nell’informazione non contingente la pubblicità non conta
● Il processo contingente trae effetto dal fattore della “novità”, nel secondo caso la novità non ha effetto.
● Nel processo contingente il promotore può non avere una qualificazione specifica,
nel non contingente il soggetto è qualificato
● Nel processo contingente il recettore è generico, di breve durata ed eterogeneo; nel secondo caso è di norma qualificato, di lunga durata e omogeneo
● Nel processo contingente il contenuto è generico, nell’altro il contenuto è specifico
● Il processo contingente si basa su opinioni contingenti e fattori di conformità; il secondo si articola tramite procedimenti logici e razionali ed opinioni cristallizzate e valori
● Il contingente può essere processo unilaterale, il non contingente è bilaterale

Esistono dei casi in cui questi due processi che ho appena analizzato si intersecano e sembrano viaggiare di comune accordo pur mantenendo ben nette le loro singole specificità.

Il primo caso riguarda “Quei giorni a Berlino”, libro uscito in Italia nel 1989 e scritto da due giornalisti italiani inviati della Rai, Lilli Gruber e Paolo Borella. Lo scopo fu quello di riportare in un libro (che potrebbe essere considerato strumento dell’informazione non contingente) i contenuti del giornale (informazione contingente) su un fatto di cronaca di straordinaria risonanza a livello mondiale, al fine di contribuire alle ricostruzioni che un giorno gli storici vorranno fare sugli avvenimenti di cui i due giornalisti sono stati tempestivi testimoni.

Il secondo caso riguarda il fatto che informazione contingente e non contingente possono concorrere entrambi alla socializzazione e alla acculturazione dell’individuo. Tuttavia è necessario sottolineare che il giornale certo non educa ma può favorire l’acculturazione: l’informazione contingente può aiutare l’educazione, ma non potrà mai sostituirla.

Alla luce di quanto detto, che è anche quello che sto studiando, mi rendo conto che forse ci avevo capito ben poco del giornalismo, e delle differenze che esistono rispetto ad altre “arti dello scrivere”. E mi rendo conto che tutti i miei piccoli e insignificanti tentativi di
iniziarmi a questa professione si sono basati su linee guida piuttosto confuse e traballanti.

Mi ero sbagliata.

Roberta Restretti

studentessa di Editoria Media e Giornalismo

Università Carlo Bo di Urbino

Francesco Fattorello: studioso dell’informazione che ha fatto scuola

In occasione del ventennale della nascita di “EVENTI” periodico di cultura, storia, politica e attualità che si stampa sempre con ottimi risultati a Pordenone, il prof Ragnetti ha rilasciato un’intervista con l’intento di far conoscere ai cittadini di Pordenone e non solo, la figura e le opere del loro illustre concittadino Francesco Fattorello.

Radiotelevisione pubblica: la badante elettronica

Il servizio radiotelevisivo pubblico quale ausilio socio sanitario al sistema sussidiario

In Europa e più marcatamente in Italia, a causa della bassa natalità che persiste oramai da molti anni, stiamo assistendo ad un progressivo innalzamento dell’età media della cittadinanza, come testimonia Il recente rapporto ISTAT “Natalità e fecondità della popolazione residente”. Il riflesso più problematico consiste nello squilibrio demografico, ovvero nel rapporto tra nuovi nati/ottantenni (rapporto Eurostat 2016) ove l’Italia, insieme a Germania e Grecia, risulta essere fanalino di coda rispetto agli altri paesi europei. Il tema è analizzato in modo puntuale ed esaustivamente in un articolo datato 11 dicembre 2018 su NEODEMUS.INFO a firma dei ricercatori del CNR Corrado Bonifazi e Angela Paparusso. E’ poi di questi giorni il rapporto ISTAT 2018 che parla esplicitamente di “recessione demografica”, che attesta intorno ai 5 milioni gli italiani, in larga parte giovani, che decidono di lasciare il Paese verso lidi che offrono maggiori garanzie di occupazione o imposizioni fiscali più basse.

Preso atto del grave fenomeno, spetta alle forze politiche mettere in campo i necessari strumenti di welfare necessari a sostenere economicamente ed attraverso opportuni servizi da una parte coloro i quali intendono procreare ma sono spaventati da un possibile arretramento della loro qualità di vita e dall’altra la popolazione anziana che, come si è detto, è in costante aumento.

Come noto, la spesa pubblica italiana (circa 830 miliardi di Euro annui) è in larga parte costituita dalle spese necessarie a sostenere il sistema sanitario nazionale, il quale risente evidentemente del progressivo invecchiamento della popolazione che vive, fortunatamente, più a lungo ma è pur sempre bisognosa di cure e di ausili medico-sanitari.

Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, la tecnologia ha fatto passi da gigante e offre farmaci e presidi medici di grande efficacie e funzionalità.

Tuttavia, nonostante l’enorme impegno di risorse economiche pubbliche ed il progredire della ricerca medica, al servizio sanitario nazionale si affianca necessariamente ed inevitabilmente un “sistema sussidiario” tipicamente italiano, consistente in un gravoso impegno a carico delle famiglie, le quali debbono provvedere con vari mezzi ad assistere quotidianamente (direttamente o tramite collaboratori domestici) i familiari anziani nelle loro necessità.

Tra gli strumenti a disposizione delle famiglie per avere un ausilio utile ad ottenere almeno un parziale sollievo al pressante impegno quotidiano che grava sulle famiglie italiane, interviene anche il Servizio Pubblico Radiotelevisivo che, attraverso il primo canale TV nazionale, con le sue trasmissioni mattutine e pomeridiane, intrattiene empaticamente lo spettatore anziano (pensiamo a chi è costretto a letto o comunque affetto da ridotta mobilità) durante tutto l’arco della giornata, tanto che un’eventuale e fortuita interruzione nella fruizione delle trasmissioni televisive viene vissuta (e non solo dallo spettatore anziano ma anche da suoi familiari) come un serio problema.

Il Servizio pubblico radiotelevisivo pertanto, nella sua articolazione e nelle sue varie specificità, non può non tener conto di un suo fondamentale ruolo e cioè quello di costituire per una sempre più vasta platea di spettatori anziani uno strumento indispensabile, che va ben oltre il mero proponimento di intrattenimento ma che si configura come un vero e proprio strumento di ausilio socio-sanitario.

La missione del Servizio Pubblico Radiotelevisivo in Europa, Educare, Informare, Divertire, tracciata nel 1927 da Sir Reith va dunque contestualizzata e riformulata rispetto alle origini.

Si deve considerare infatti che oggi il sistema della comunicazione mediatica è ricco di piattaforme distributive diversificate, che colgono più e meglio del passato i gusti e le preferenze dei “pubblici”.

Su queste debbono concentrarsi gli sforzi editoriali alla ricerca di nuovi linguaggi e nuove forme comunicative, perché queste piattaforme sono rivolte evidentemente ad una utenza specializzata in grado di apprezzare e di ricercare la qualità di una riproduzione audiovisiva in alta o altissima definizione disponibile sulla rete IP o proveniente dalla diffusione satellitare.

Interattività, realtà aumentata, realtà virtuale, sono aspetti specialistici dell’elaborazione dei contenuti mediatici che debbono essere sviluppati costantemente, così come è necessaria la creazione di contenuti multimediali adeguati a valorizzare queste nuove tecnologie digitali applicate alla comunicazione radiotelevisiva.

Il Servizio Pubblico Radiotelevisivo, se tale deve essere, deve dare però concreta applicazione agli obblighi derivanti dal contratto di servizio tra il Ministero dello Sviluppo Economico e la Rai radiotelevisione italiana SpA, deve porre in essere quanto descritto negli articoli 2-3-4, ove si evince bene, la missione di tutela e sostegno al pubblico anziano attraverso specifica programmazione.

In questa logica, emerge ad avviso di chi scrive, la piena titolarità ad esigere da parte statale un canone annuo di abbonamento al servizio pubblico radiotelevisivo, non fosse altro per l’esercizio del ruolo sopra descritto, quasi fosse una sorta di ticket sociosanitario minimale (0,25 Euro al giorno a famiglia!)

Ovvio che in realtà, come giusto che sia, la RAI con la sua programmazione giornaliera presente sulle varie piattaforme distributive, offre un ventaglio di prodotti editoriali in grado di raggiungere pubblici molteplici. Da questo punto di vista gli obblighi derivanti dal contratto di servizio impegnano la RAI ad uno sforzo produttivo enorme ma necessario ad assicurare puntualmente la sua offerta comunicativa; tuttavia la missione di ausilio sociosanitario a favore del pubblico anziano, se non primaria è certamente una caratteristica che connota autorevolmente il servizio pubblico radiotelevisivo rispetto all’emittenza privata.

Chi sembra aver colto bene le necessità del pubblico anziano e’ il settore della pubblicità; è infatti del tutto evidente il netto incremento di inserzioni pubblicitarie, principalmente televisive, riguardanti prodotti e servizi destinati al pubblico anziano.

Da ciò ne risulta un mercato pubblicitario in via di sviluppo, tale da costituire un capitolo importante della raccolta pubblicitaria della RAI, in relazione allo share medio ottenuto da RAI 1, in un periodo di netta flessione della raccolta pubblicitaria dovuta alla scarsa domanda di prodotti e servizi destinati ad un pubblico più giovane, peraltro con redditi inferiori alla media dei pensionati e che comunque registra la perdita di potere di acquisto a causa di una crisi congiunturale che sembra non attenuarsi.

Se, come si ipotizza da anni, la RAI dovesse attuare un piano industriale che individua una organizzazione centrata sulla produzione di contenuti editoriali suddivisi per genere, sarà essenziale creare, almeno per la prima rete televisiva, una struttura in grado di individuare quei prodotti più adatti al pubblico anziano di riferimento ed anzi stimolarne la produzione di contenuti che dovrà essere rispondente a parametri comunicativi appositamente studiati per la particolare platea di riferimento, tentando nel contempo di attrarre anche il pubblico di mezza età in vista di una progressiva fidelizzazione al canale.

In conclusione, può essere utile riferirci a Niklas Luhman quando afferma che il sistema della comunicazione nel suo complesso costituisce di per sé un sistema sociale auto poietico che evolve e si sviluppa di pari passi con tutti gli altri sistemi sociali per dire che anche la missione del servizio pubblico radiotelevisivo deve essere in sintonia con l’evolversi ed il trasformarsi della società civile.

Per lunghi anni, la programmazione della prima rete TV della RAI prevedeva un ambito di particolare programmazione denominata “ La TV dei ragazzi”.

Oggi, va preso atto che i giovani prediligono una diversa fruizione dei contenuti mediali presenti su piattaforme diverse rispetto alla televisione di flusso tradizionale, realtà questa che come già detto deve essere categoricamente presidiata e sviluppata dall’azienda di Stato sia in termini tecnologici sia in termini comunicativi.

Pertanto, non deve essere interpretato come riduttivo o peggio svilente immaginare una “TV degli anziani” che trova nella prima rete televisiva della RAI la sua naturale e più opportuna allocazione.
Non si comprende quindi la ragione editoriale ed economica che vorrebbe la stessa rete proiettata alla conquista di un pubblico giovane che in ogni caso fa scelte diverse.

Se il timore dei dirigenti della tv pubblica è quello di un possibile calo di audience sulla rete ammiraglia, stante invece il costante ampliarsi della platea “matura” rispetto a quella più giovane, forse risulterebbe più opportuno che si impegnassero sul piano editoriale nel conservare l’attuale fidelizzazione dei soggetti anziani che scelgono aprioristicamente il primo tasto del telecomando, per non indurli a fare scelte diverse qualora il loro canale di riferimento dovesse cambiare pelle alla ricerca di pubblici che difficilmente scelgono la televisione generalista per il loro intrattenimento.

Dott. Marco Cuppoletti
Sociologo