Quotidianamente assistiamo ad una filiera di contenitori televisivi, e molti di essi con un occhio attento su casi di violenza, in particolare, femminili. Messaggi fuorvianti, che nulla riguardano il contesto narrato. Qualunque spettatore attento ne percepisce, da subito, l’errore.
Chi segue, codifica quanto ricevuto. Capita, invece, di trovarsi dinnanzi a strumentalizzazioni (anche) linguistiche, assistendo a narrazioni televisive distorte dal realismo per puro accento sensazionalistico. La vittima è la vittima. La violenza è la violenza.
La fedeltà narrativa è indispensabile, non bisogna in alcun modo travalicare aspetti oggettivi e soggettivi della storia. Chi la produce potrà vincere al primo atto, subito dopo sarà un boomerang infelice creando una bolla di false verità.
Ed eticamente, non è corretto nei confronti di chi vive una condizione esistente di fragilità.
Un lavoro necessario quello che conduce all’utilizzo esatto della parola. Lei crea, comunica, significa, emoziona, dialoga e si confronta. Noi siamo ciò che diciamo.
In virtù di questo nobile concetto, considerato l’utilizzo dilagante di parole errate e di ossimori ingiustificabili, ho deciso di dedicare un Saggio all’utilizzo delle parole, a quelle che nell’ambito dei Diritti Umani contribuiscono alla percezione negativa “dell’altro”.
La ricerca, pubblicata dal Wall Street Journal in un articolo dal titolo «What words tell us» («Cosa le parole raccontano di noi»), restituisce l’istantanea di una società individualista, competitiva e poco educata.
Parole come famiglia, collettivo, tribù, sono lentamente sfumate: il senso di comunità è stato sostituito da uno spirito competitivo. Tutto questo comporta una non più educazione ai sentimenti del cuore.
La coppia di studiosi americani Pelin e Selin Kesebir hanno scoperto che l’uso di parole come “coraggio” e “forza d’animo” è diminuito del 66 per cento, quello di “gratitudine” e “apprezzamento” del 49 per cento.
Entriamo subito nel merito per far comprendere quanto una definizione, una parola, una frase possano indurre in stereotipi resi normali. Cito il caso dei Verbali ad uso del Ministero dell’Interno, ove, quando si tratta di un caso di trasferimento da una struttura ad altra per un migrante, leggiamo come dicitura in alto: “Verbale di Consegna”.
È drammatico, è pericoloso, è quanto di più offensivo possa esserci. Non si trasferiscono le persone, ma le merci. Se una Istituzione attribuisce valore materiale e non umano alle persone, stiamo servendo tutta quella parte che desidera denigrare il diverso.
Altra definizione è “Carico Residuale”. Le persone sono un carico? Siamo davvero capaci di ritenere le persone un carico?
E per entrare nel merito del nostro impegno riguardante i viaggi esteri con la finalità degli abusi sessuali minorili, volgarmente definito Turismo Sessuale, accolgo l’analisi dell’Avvocato Francesca Ghidini, la quale afferma: “Cambiare le parole può aiutare a cambiare la società e a modificare la percezione della realtà, ingenerando consapevolezza.”
L’uso del termine (improprio) “turismo sessuale” per descrivere un abuso sessuale perpetrato a danno di un minore è inaccettabile poiché accosta due parole avulse dal fenomeno sotteso e dalla connotazione intrinsecamene positiva come il turismo (viaggio, scoperta) e il sesso (inteso come atto consapevole, libero, gioioso).
Peraltro, “turismo sessuale” non ha alcuna valenza giuridica poiché non descrive alcun reato, né si conforma alla definizione Europea della fenomenologia (“sexual exploitation and sexual abuse”, cfr. Lanzarote Convention).
Si tratta (solo) di una parola di comodo, totalmente fuorviante rispetto alla percezione del fenomeno che dovrebbe descrivere, ovvero, gli abusi sessuali sui minori.
“Turismo sessuale” suona meno ripugnante, l’abominio resta in sordina. Il viaggio volto allo sfruttamento sessuale dei minori potrà essere indicato come “viaggio per abuso sessuale di minore” (oppure con altra definizione analoga). È ora di rendere giustizia alle vittime della violenza. Chi parte per abusare sessualmente di un minore non è un “turista”, bensì un pericolosissimo criminale.
La comunicazione è il terreno su cui si gioca ogni opportunità di incontro tra gli uomini e fra i singoli uomini e gli avvenimenti, dunque anche il futuro dell’umanità.
Il giornalista, l’informatore dei fatti del giorno, dei fatti contingenti, per eccellenza, ha come oggetto delle sue attività professionali l’attualità.
Che cosa è l’attualità, che cosa sono i fatti del giorno? Scrive Guy Gauthier in un suo volume dal titolo “L’actualitè, le journal et l’èducation” (Paris; Tema editions 1975) “l’èvenèment est un rècit de presse ». E la definizione può andar bene se si sa che cosa vuol dire “relazione giornalistica”, se si sa quali sono i vincoli dai quali è condizionata la stesura giornalistica.
Questi “rècit de presse” suscitano in noi una certa emozione più o meno immediata. Possono esercitare anche un’emozione collettiva alla quale più o meno possono partecipare i recettori del giornale come un recettore di gruppo.
Naturalmente il “rècit de presse” non è una narrazione storica. La storia ha per oggetto i fatti trascorsi di cui conosciamo il principio, lo svolgimento e la fine. Qui ci troviamo, invece, nel bel mezzo dei fatti, ci troviamo nel mezzo degli avvenimenti ancora in via di svolgimento o appresso ai fatti di cui riteniamo di conoscere un certo svolgimento contingente.
E il rendiconto giornalistico dell’avvenimento, proprio per il suo rapporto ancor immediato col fatto, ha qualche cosa di vivo, come ha scritto Pierre Nora, qualcosa che, inserito nel contesto del giornale e per il rapporto diretto “ancora caldo” con l’avvenimento, suscita qualche effetto, emana delle “onde” che sono la sua forza sociale, quasi gli impulsi di qualche cosa ancora animata.
Ora, mentre la storia non può incominciare se non dopo che quelle “onde” hanno cessato di farsi sentire, il giornalista proprio quelle “onde” deve percepire: in esse il senso dell’attualità.
Si aggiunga ancora che, mentre nella tradizione del giornalismo occidentale l’attualità è la realtà sociale immediata, ancora palpitante, realtà sociale contingente, non attinente a ciò che fu ma a ciò di cui l’informatore è testimone o partecipe e di cui riferisce, come altri ha detto, “al ritmo del presente”; nella tradizione del giornalismo a marxista-leninista l’attualità attiene non soltanto alla realtà sociale contingente, ma è soprattutto una valutazione di essa dal punto di vista politico e ideologico dell’editore, del giornalista e del lettore.
Non si tratta di una realtà astratta, rilevata secondo una teoria obiettivistica: perché se tale fosse non sarebbe più una realtà giornalistica.
Secondo Vladimir Hudec (di cui è apparso un saggio in “Journaliste dèmocratique”, n.2 del 1975) non si tratta di una realtà astratta. E’ il contenuto sociale con i suoi tratti politico-ideologici, il suo valore differenziato secondo interessi di classe e di partito che fa di una attualità una attualità giornalistica . L’attualità (sono sempre concetti di Hudec) non esiste da sola. Non si tratta di una presa di conoscenza, ma di una valutazione di quella attualità utilizzata nella lotta di classe per imporre le tendenze ritenute più giuste per lo sviluppo sociale.
Questa è la concezione dell’attualità in funzione giornalistica che discende dalla interpretazione politica del giornalismo marxista-leninista.
Dice ancora Hudec che, nel mondo occidentale, giornale, cinema, radio e televisione ritengono di avere come fine quello di fornire delle informazioni obiettive. Ma poiché non si possono presentare tutte le informazioni, esse sono presentate sempre secondo una scelta delle più interessanti o delle più importanti , e questa scelta è già una valutazione secondo determinati interessi e determinate ideologie.
Lo aveva già affermato uno dei maggiori maestri della propaganda politica: Lenin, quando diceva che un giornale deve avere un orientamento permanente. Un giornale senza orientamenti è una cosa assurda.
Così scriveva Francesco Fattorello nell’Aprile del 1975
“E’ un invito nel ritenere la rete uno strumento di formidabile connessione con il mondo. Noi siamo presenti in un preciso luogo ed un previso spazio, ma questo non impedisce il dialogo e l’azione con l’Universo, basta avere una connessione Wi-Fi ed ino Smartphone. Da decenni porto avanti la metodologia online, restando fedele alla Teoria della “Tecnica Sociale” di Francesco Fattorello. La rete è uno strumento potente, la regola è saperne fare buon uso.”
Giorgia Butera, Sociologa della Comunicazione, Scrittrice, Advocacy
La comunicazione efficace è di massima importanza al fine di ottenere consensi dai nostri colleghi, collaboratori e cittadini/utenti. Sapersi esprimere al meglio, in modo comprensibile e corretto, garantisce la massima chiarezza nel rapporto interpersonale. Saper comunicare in maniera corretta significa farsi comprendere, mettere il nostro interlocutore in grado di percepire ciò che vogliamo comunicargli e, inoltre, ci dà la sicurezza fondamentale per rafforzare la fiducia nelle proprie qualità.
I libri che da tanto tempo hai in programma di leggere,
i libri che da anni cercavi senza trovarli,
i libri che riguardano qualcosa di cui ti occupi in questo momemto,
i libri che vuoi avere per tenerli a portata di mano in ogni evenienza,
i libri che potresti mettere da parte per leggerli magari quest’estate,
i libri che ti mancano per affiancarli ad altri libri nel tuo scaffale,
i libri che ti ispirano una curiosità improvvisa, frenetica e non chiaramente giustificabile.
Citazione di Italo Calvino ripresa dal libro “Se una notte d’inverno un viaggiatore”, riprodotta sugli shoppers della libreria La Goliardica di Urbino per gentile concessione dell’Editore Einaudi.
L’episodio del giovane luogotenente che, sul campo di battaglia, fa scudo del suo corpo e salva la vita dell’Imperatore Francesco Giuseppe, è tratto dal libro di Joseph Roth “La marcia di Radetzky”.