Giorgia Butera, Sociologa della Comunicazione, Scrittrice, Advocacy e Presidente di METE (Organizzazione basata in Sicilia, impegnata nella mediazione socio-culturale tra i popoli, nell’affermazione dei principi civili, democratici, liberali ed educativi di ciascun individuo e nella giustizia sociale. Promuove Cultura di Pace), dal 2015 interviene nelle varie Sessioni del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite a Ginevra.
Diverse, anche, le Conferenze alle quali ha partecipato, intervenendo.
Sin da subito ha sviluppato disciplina, competenza e creatività. Per la Butera, il lavoro, è avere l’idea visionaria che apre nuovi scenari. È avere la consapevolezza, che ogni successo sia frutto di disciplina e competenza. Che non esiste una casualità nell’ottenere risultati. È il cogliere stimoli, in ogni parte dell’universo.
Una forte emozione è avvenuta giorno 8 marzo, quando in apertura dei lavori, l’Alto Commissariato ha dichiarato nella Grande Sala, l’importanza della giornata essendo l’International Women’s Day. Ed ha avuto la risposta più naturale del mondo: essere nel posto giusto per l’impegno che quotidianamente mette in atto in difesa delle donne e bambine, in particolare.
Una giornata di richiamo istituzionale molto importante, avendo ricevuto l’invito strettamente personale da parte del Presidente della Repubblica Italiana, in occasione della Celebrazione Giornata Internazionale della Donna, che hanno avuto luogo al Palazzo del Quirinale, ma essendo Delegata Onu, con grande rammarico non ha potuto partecipare.
On March 01, 2013 Professor Francesca Romana Seganti (American University in Rome) delivered two lectures at the Faculty of Journalism, Lomonosov Moscow State University. The lectures were devoted to the theory of Italian researcher Francesco Fattorello.
– What the theory of Francesco Fattorello is about?
– Fattorello’s Social Technique of Information is a communication model written in the ’50s that has always focused on audiences as active participants, as the pivot of the process of communication. Fattorello’s theory has always been in contrast with Anglo-Saxon theories. While these focused on the quality of the media product thinking that what a few considered to be a “good” product could be embraced by a variety of recipients, the Social Technique of Information’s main principle is that each media product has to be constructed by adapting the message to the expectations and the acculturaion of each specific audience.
– Why should it be studied nowadays?
– According to Fattorello, media can only act on people’s opinions but cannot act on the way we behave which is due to our subjectivity. Instead of accepting the idea that the media industry enterprises imposed values, behaviours and patterns that served to maintain domination, Fattorello in the ’50s focused on audiences as active participants. We think that today for those with economic power, it is still convenient to have people believe in the power of publicity, public relation and propaganda. So, people can blame the media and don’t think about their own responsibility in social change. Instead, if journalists, copywriters and politicians who are not yet powerful and don’t belong to the dominant media industry, became aware of the audiences’ active role in the process of communication and used Fattorello’s technique, they can create a shift in power relations. Therefore, we believe that the Social Technique of Information is an appropriate answer to the needs of today’s democratic societies.
– Can the theory somehow be applied to studying the political processes as well, and if yes – can it be used in analyzing the process and results of the Italian elections in 2013?
– Definetly yes. Italian processes can be interpreted in the light of Fattorello’s model. Those who managed to understand and interpret the expectations and acculturation of their audiences have been succesful, while those who based their campaign on their own believes without adapting the message to the audience had worst results. It is not sufficient to do things in a certain way but it is necessary to pay attention to the audiences’ desires and expectations. The Social Technique of Information in an extremly useful model to analyze political communication.
– What are your impressions about Moscow, meeting students, faculty staff?
– Moscow is a very fascinating city and I am “glad” I did not have the chance to see many parts of it because now I have an excuse to go back there! Also, I have been impressed by the great curiosity and the intellectual vivacity of the young aspiring journalists who paid attention to my speech and especially have been open and willing to understand a theory that was new to them. So it really looks like I have to return to Moscow soon!
Testo per la Conferenza ai Difensori Civici della Regione Marche, a cura del prof, Giuseppe Ragnetti
Vorrei parlarvi della informazione e della comunicazione, farò quindi un grande sforzo di sintesi per dire l’essenziale in poche pagine..
Partiamo dalla “rivoluzione chirografica” che data 4000 anni a.C. quando i Sumeri inventano i primi segni, l’alfabeto primordiale, dopo che l’uomo chissà per quanti migliaia di anni era andato avanti con una comunicazione non verbale, la sola e unica forma di comunicazione di cui l’uomo disponesse per millenni.
L’uomo si esprimeva esclusivamente con una comunicazione che potremmo definire inespressa o con dei suoni gutturali che potevano in qualche maniera assomigliare alle nostre parole, l’uomo evidentemente non era ancora in grado di articolare in maniera sufficientemente corretta le sue modalità espressive, e quindi, non poteva che utilizzare quella che oggi viene appunto chiamata comunicazione non verbale. Era assicurato un livello minimo di comprensione e di scambi comunicativi ma, naturalmente di tutto ciò non restava una minima traccia.
La rivoluzione chirografica avviene, abbiamo detto, 4000 anni a. C. e possiamo immaginare che la motivazione primaria fosse la necessità di mettere nero su bianco. Possiamo immaginare che l’uomo di allora abbia detto in qualche ipotetico e fantascientifico convegno sull’argomento:” dobbiamo inventare dei segni, dobbiamo smetterla di affidarci esclusivamente alla memoria, al passa parola, allo stregone che detiene la conoscenza, dobbiamo trovare un sistema che lasci delle tracce e che faciliti i rapporti tra gli esseri umani”.
La sua istanza è stata recepita e si arriva alla grandissima rivoluzione che parte, appunto con la realizzazione del segno, con l’invenzione dell’alfabeto. Dopo di che passano ben 5500 anni per arrivare alla seconda rivoluzione della storia della comunicazione: la rivoluzione guttemberghiana, attorno al 1450 d. C., laddove Guttemberg inventa finalmente la stampa. Questa viene definita come la più grande rivoluzione dell’umanità assieme alla bussola e alla polvere da sparo, ma è la stampa la vera rivoluzione perché evidentemente passiamo da una cultura patrimonio esclusivo di certe istituzioni quali la Chiesa e lo Stato ad una cultura che può diventare accessibile a tutti.
Attraverso la stampa infatti la cultura inizia a circolare, potenzialmente è già patrimonio di tutti, anche se trova un limite enorme soprattutto per i primi 100 – 200 anni nello scarsissimo livello di alfabetizzazione. Si calcola che soltanto il 4-5% delle persone fosse in grado di leggere, è un dato di fatto che l’invenzione della stampa abbia rappresentato la svolta delle svolte, perché ha permesso la circolazione del sapere, ha permesso agli uomini di confrontarsi e, grazie anche alla stampa, siamo arrivati alle meravigliose scoperte del 1800.
In questo secolo l’uomo inventa di tutto e di più, tutte le più grandi scoperte avvengono in questo secolo, per quanto riguarda la comunicazione: dalla macchina fotografica alle apparecchiature per riprodurre i suoni, alla radio, al cinema, al primo embrione televisivo, al telegrafo e al telefono.
Tutto avviene in questo secolo perché innanzitutto il sapere, grazie ai libri, è stato in grado di circolare tra i vari paesi e tra i vari studiosi e poi perché un’altra meravigliosa energia che per la prima volta appare sulla faccia della terra, l’elettricità, consente questa esplosione di conoscenze e le relative realizzazioni pratiche.
Questa volta, siamo passati dalla rivoluzione guttemberghiana alla successiva rivoluzione elettrica in meno di 400 anni : da quella elettrica alla rivoluzione elettronica, che è quella in cui siamo tuttora immersi, sono passati neanche 100 anni.
Queste rivoluzioni hanno generato nell’arco dei secoli quattro culture: la cultura orale che per trasmettere la conoscenza e per un minimo scambio relazionale fa uso della parola o, comunque, di tutto ciò che rappresenta la comunicazione non verbale.
Abbiamo poi avuto la cultura chirografica che adopera la tecnica silenziosa della scrittura, del segno: finalmente l’uomo è in grado di tracciare tracce precise. Arriva poi la cultura tipografica che è figlia della rivoluzione guttemberghiana. Abbiamo infine la cultura dei media elettrici prima ed elettronici poi rappresentata dalle informazioni e dalla conoscenza in generale trasmessa attraverso i più comuni mass media.
La conseguenza delle tre rivoluzioni è stata quella di far circolare le informazioni ad una velocità sempre maggiore e a costi sempre più contenuti: l’uomo da sempre si era posto questo obiettivo ed oggi finalmente lo ha raggiunto. Aspetto economico a parte, facilità di far circolare informazioni a parte, l’uomo da sempre coltivava un sogno che poteva apparire impossibile: quello di annullare due limiti che sembravano veramente inattaccabili: tempo e spazio.
Oggi, nella comunicazione il tempo non esiste più: in questo momento con il mio cellulare schiaccio un pulsante e parlo con il mio amico che lavora a Tokio in tempo reale come comunemente si dice. Anche il limite spaziale non esiste più: 10.000-12.000 km mi consentono tranquillamente di dialogare con la persona come se la stessa fosse nel mio condominio.
Potremmo quindi dire che l’uomo in quest’ultimo secolo si è concentrato sulle nuove tecnologie in vista dell’ottenimento di questo risultato incredibile: la comunicazione avviene in tempo reale in tutto il mondo, non solo nel nostro mondo abitato ma, più che mai, oggi siamo proiettati verso gli spazi extraterrestri.
Si parla sempre di comunicazione, ma in realtà che tipo di comunicazione dobbiamo mettere in atto? Tutti ci consigliano di comunicare bene, ci dicono che la comunicazione è importante, che la comunicazione efficace produce benessere, scambi proficui tra gli esseri umani. Ma che cosa è in realtà la comunicazione? Che cosa significa comunicare bene?
E qui s’impone la necessità di demolire un mito tuttora molto presente nelle università italiane: si insegnano ancora oggi impostazioni e metodologie che sono state completamente riviste o addirittura ripudiate da coloro che le avevano elaborate al livello teorico. Questi in buona sostanza ci hanno detto “non avevamo capito nulla, abbiamo sbagliato, scusate avevate ragione voi” e poi vi dirò chi erano i “voi”.
Tutto nasce dalla rappresentazione di un bersaglio colpito da una freccia. Si tratta dell’impostazione teorica anglosassone laddove la freccia rappresenta la comunicazione e il bersaglio dovrebbe rappresentare gli esseri umani a cui la comunicazione è rivolta.
Attorno agli anni ’30, tra le due guerre, negli Stati Uniti è tutto un fiorire, per la prima volta, di studi sulla comunicazione che approdano a questa conclusione: la comunicazione è un potere assoluto e su questa scia una particolare tipologia di comunicazione, quella pubblicitaria diventa addirittura uno strapotere in grado addirittura “di vendere frigoriferi anche agli Eschimesi”, pian piano si accredita l’idea che la comunicazione intesa appunto come strapotere, praticamente permette a certi esseri umani – e io mi chiedo dotati di chissà quali poteri extraterrestri, con un background di chissà quali studi provenienti da chissà quale mondo, e qualche volta scherzando parlo di una casta privilegiata che discende direttamente da Dio – esseri umani comunque in grado di condizionare altri esseri umani e far si che questi si comportino come coloro che promuovono la comunicazione desiderano. E’ questa la grande illusione, un equivoco colossale nel quale siamo quotidianamente immersi.
Pensate alla situazione Berlusconi, pensate alla situazione di altri personaggi in altre parti del mondo: tutto quello che Berlusconi ottiene è dovuto al fatto che ha uno strapotere enorme sulla comunicazione, cioè ha televisioni, giornali e ogni mezzo possibile per raggiungere gli Italiani quando e come vuole.
Questa impostazione è assolutamente fuorviante perché non ci aiuta a comprendere la realtà, non ci fa capire i problemi, è una interpretazione estremamente superficiale che non ha nessuna valutazione né validità scientifica.
Gli autori più accreditati, quello che vengono considerati come un riferimento obbligato per tutto ciò che riguarda la comunicazione, e mi viene in mente in primis Denis Mc Quail che ha scritto un testo classico “Le comunicazioni di massa” che è tuttora una lettura di riferimento in tutte le università italiane, il quale dice esattamente questa frase: “L’intero studio delle comunicazioni di massa si basa sul presupposto dell’esistenza di effetti provocati dai mezzi di comunicazione. (…) E tuttavia sussistono molti dubbi circa il grado, l’incidenza e il tipo di effetti e la nostra conoscenza è insufficiente per fare la benché minima previsione circa il verificarsi di un effetto in un determinato caso.”.
Abbiamo cercato in ogni modo di capire le dinamiche elettorali e abbiamo tentato di analizzare i perché dei comportamenti umani: e tuttora possiamo affermare che la comunicazione rappresenta soltanto uno degli aspetti marginali del perché gli uomini assumono certi comportamenti. Se noi potessimo accettare l’impostazione che la comunicazione è in grado di far fare agli esseri umani quello che altri esseri umani vogliono, dovremmo accettare una umanità divisa tra personaggi dotati di poteri particolari e dall’altra parte una massa enorme di burattini di cui alcuni tirano regolarmente i fili, incapaci di reagire, incapaci di scegliere, incapaci di decidere.
Tutto questo rappresenterebbe il più grave oltraggio alla nostra dignità e soprattutto un oltraggio alla nostra intelligenza. Gli esseri umani, purtroppo hanno talvolta una grande difficoltà ad accettare l’idea di avere un cervello: questo è grave perché rifiutare di riconoscere la parte più importante del nostro essere, la parte dotata di una complessità e di una magnificenza strutturale per la quale dovremmo provare pudore solamente a parlarne e considerarsi invece soggetti -oggetti estremamente fragili, estremamente deboli ed esposti a pesanti condizionamenti, tutto ciò dovrebbe essere inaccettabile da parte di qualsiasi essere umano.
La cultura americana del dopoguerra, produce poi un testo classico, l’ autore è Packard, che si chiama: “I persuasori occulti”: diventa subito un best seller anche se a livello scientifico rappresenta un’ amenità da tenere sul comodino per leggere la sera quando si è un po’ depressi. Packard afferma, in sostanza, che la comunicazione attraverso una psicoanalisi di massa è in grado di scavare le profondità degli esseri umani.
Ebbene, chi conosce l’impostazione psicologica e la serietà ormai incontrovertibile dei processi psicoanalitici, non può neanche lontanamente accettare l’idea di una psicoanalisi di massa. La psicoanalisi è un rapporto a due che è in grado di attivare particolari dinamiche nel chiuso di una relazione che può andare avanti per anni e anni nel tentativo di capire , e non sempre si riesce, qualcosa di una persona. Come potrei condizionare i comportamenti di milioni di esseri umani di cui non conosco neanche il nome?
Facciamo l’esempio di un miliardo di Cinesi: con una compagna comunicativa ben orchestrata, facendo leva su ipotetici bisogni profondi, sulle loro esigenze che affondano nel loro inconscio, io sarei in grado di condizionare un miliardo di Cinesi ed ottenere da loro quello che voglio? E’ chiaro che si tratta di una impostazione al limite dell’ingenuità o della malafede e, comunque, estremamente limitativa.
Tutto nasce da questo equivoco laddove gli esseri umani vengono definiti con un termine ignobile: target. Oramai tutti parlano di target, tutti abbiamo un target di riferimento. Target ha solo un significato: significa bersaglio, quindi l’essere umano bersaglio, e va da sé che se la comunicazione è ben costruita, se la freccia è ben realizzata il target non ha scampo.
Ecco allora l’immenso potere della comunicazione che concentra per circa 50 anni, dal 1930 al 1980 circa, sull’impostazione delle scuole teoriche americane, tutti i suoi sforzi nella costruzione della freccia, nel rafforzamento dell’organizzazione che emette comunicazione (giornali, radio, televisioni) e tutti gli sforzi sono mirati a costruire la freccia la più efficace possibile e se poi sulla punta di quella freccia io riesco a mettere anche un po’ di curaro, il povero target sicuramente non ha scampo. Il target esiste esclusivamente per essere colpito e affondato tipo battaglia navale per intenderci.
Ribadisco quindi che con tale impostazione dei problemi su questa terra ci sarebbero alcuni specialisti molto abili nel costruire frecce avvelenate e dall’altra parte ci sarebbero miliardi di esseri umani che sono lì esclusivamente nel ruolo di bersaglio passivo in grado di essere affondato senza poter reagire.
E’ questa una impostazione che ci rifiutiamo con tutte le nostre forze di accettare e avendo dedicato tanto tempo e tante energie a capire questi fenomeni, siamo stati in grado di dire agli Americani: “non avete capito nulla, vi sfugge un particolare di enorme importanza dimenticate che l’uomo ha un cervello, ma soprattutto, vi sfugge quella struttura meravigliosa che si chiama filtro percettivo: non avete capito che io posso parlare a voi, un’ora, due ore o cinque minuti, posso avere preparato il mio intervento in maniera encomiabile, posso avere usato le migliori tecnologie, le migliori illustrazioni, posso essere un mago della comunicazione ma tutto ciò non serve assolutamente a nulla se voi non mi volete sentire.
Tutti noi abbiamo questa meravigliosa struttura, certamente non anatomica, ma tuttavia altrettanto reale, per cui ognuno di noi sente ciò che vuol sentire. Chi ha dei figli vive alle volte drammaticamente questa situazione.
Quante volte le vostre bambine o i vostri bambini vi hanno fatto capire o, esplicitamente, detto “mamma, papà parlate, parlate tanto da qui mi entra e da qui mi esce” definizione bellissima dell’ impossibilità di superare il filtro percettivo, cioè “non ti faccio entrare nel mio cervello” se io non voglio. Per dieci, venti, trenta anni, i genitori hanno detto ai figli “ non fare così, ti prego”, minacce, promesse, soldi, tutto. I risultati sono stati, talvolta, molto insoddisfacenti, perché? Perché il messaggio non è riuscito a scavalcare questo meccanismo salvifico che si chiama filtro percettivo.
La cultura americana ha, infine, varcato l’oceano e forse, con il capo cosparso di cenere, pragmaticamente ha dovuto accettare la nostra impostazione.
Possiamo tranquillamente affermare che oggi in tutto il mondo la comunicazione segue l’impostazione teorica italiana di cui parlerò più avanti. Impostazione teorica che individua con chiarezza, limiti e potenzialità reali dell’informazione e della comunicazione.
Nella nostra quotidianità, lavoro, famiglia relazioni sociali di ogni tipo, il primo obiettivo deve essere la certezza che le persone ci capiscono, così come noi dobbiamo capire loro. In sintesi capire e farsi capire. Troppo spesso per opera dei cosiddetti intellettuali, dei burocrati, dei politici, dei professionisti si ripete la vecchia storiella del bravo parroco di campagna. I parrocchiani che andavano a messa commentavano “hai sentito quanto parla bene?” “ eh sì, che ha detto?” “veramente non ho capito però parla tanto bene!”
Può sembrare che io stia banalizzando i problemi ma vi assicuro che non è così: ho un’esperienza aziendale, ho un’esperienza universitaria ed ho un’esperienza di formazione alla comunicazione che mi consente di affermare che la stragrande maggioranza dei problemi è rappresentata da problemi di comunicazione: nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti interpersonali per non parlare poi dei rapporti di coppia, non ci si capisce più: tu dici buongiorno e l’altro capisce buonasera e si arrabbia perché sono le 8.00 del mattino.
D’altra parte, quando andiamo a vedere le aziende, le amministrazioni e in generale laddove le cose funzionano, guarda caso puntualmente scopriamo che funziona bene la comunicazione, che i messaggi sono chiari, che tutti li hanno capiti, che tutti sono stati coinvolti nella giusta maniera perché hanno condiviso.
La comunicazione ha obiettivi ben precisi: far capire il problema per ottenere la condivisione delle persone che sono co-interessate a quel problema, e subito dopo, la azione consequenziale, altrimenti si parla tra sordi, tra muti con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
E adesso se avete ancora un po’ di pazienza per continuare a leggere, vorrei illustrarvi in estrema sintesi, l’impostazione teorica italiana.
Noi siamo fortemente convinti che al di là delle istruzioni tecniche, al di là di esposizioni più o meno corrette, più o meno scientifiche, più o meno gradite, dobbiamo avere un metodo, che qualche volta ha la sua valenza proprio perché è un metodo non metodo, è quasi un metodo passe-partout .
Abbiamo parlato di una visione di scuola anglosassone dove tutti gli sforzi erano concentrati sulla costruzione di una freccia avvelenata cioè di una comunicazione irresistibile. In altri termini, la comunicazione fatta bene, magari da super specialisti, otterrebbe comunque i risultati voluti.
L’impostazione teorica italiana, figlia di Francesco Fattorello, il massimo studioso italiano del settore e autore dell’unica teoria concepita nel nostro paese porta il nome di Tecnica socialedell’Informazione. Io voglio parlarvi della tecnica sociale non soltanto perché Francesco Fattorello è stato il mio maestro e mi ha lasciato in eredità la sua Scuola, ma perché è oggi l’impostazione teorica adottata in tutto il mondo. Da parte mia, è doveroso far conoscere un così illustre concittadino alla città di Pordenone che gli ha dato i natali.
Questa teoria nasce nell’immediato dopoguerra, con una visione avveniristica e all’epoca assolutamente impensabile; non è facile per Fattorello affermare a gran voce la sua Teoria, in quanto il periodo in cui si manifesta la sua visione, è totalmente influenzato dalla impostazione teorica anglosassone che, come detto in precedenza, vede la comunicazione come un processo ineludibile subìto da un ricevente passivo.
Superare l’idea di un recettore come target e come altamente condizionabile, è stata la sfida dei fattorelliani che hanno, di tutta risposta, proposto un soggetto recettore di pari dignità in quanto dotato delle stesse facoltà opinanti del soggetto promotore. Il significato profondo degli studi fattorelliani sta nell’aver rivalutato il ruolo del soggetto recettore rispetto al conclamato strapotere del soggetto promotore.
X)
M
Sp Sr
O
Nella formula ideografica che schematicamente rappresenta il processo, colui che mette in atto il rapporto di comunicazione si chiama soggetto promotore e non più emittente.
Per la prima volta parliamo di un soggetto cioè di un essere umano dotato di facoltà opinanti, di una persona in grado di vedere il mondo dal suo punto di vista e soprattutto in grado di ragionare.
Il problema da comunicare è rappresentato dalla X che può essere qualsiasi cosa: un prodotto, un’idea, un fatto di cronaca, insomma qualcosa oggetto del nostro parlare, del nostro comunicare, in altri termini il motivo per cui si mette in atto un rapporto di informazione/comunicazione.
Questo soggetto promotore avendo ora qualcosa da comunicare, cioè la X, che cosa deve fare? Deve chiedersi immediatamente, dopo aver individuato il problema, quali potranno essere o meglio quali saranno i suoi Sr, cioè i suoi soggetti recettori. Si tratta di una vera rivoluzione culturale: non più target, non più elementi indefiniti, generici emittente-ricevente, ma i due terminali si chiamano entrambi “soggetti”.
Questo significa riconoscere pari dignità a coloro che parlano e a coloro che ascoltano, a coloro che scrivono sul giornale e a coloro che lo leggono, a coloro che producono un film e a coloro che vedono un film, a coloro che fanno il telegiornale e a coloro che lo seguono. Perché pari dignità? Perché essendo comunque esseri umani, sono entrambi dotati delle stesse facoltà opinanti. O no?
Perché il cervello di chi vede il telegiornale dovrebbe essere diverso o dovrebbe avere meno neuroni di chi il telegiornale lo presenta? Questo è un dato di fatto: c’è un uomo che “di mestiere” lavora al telegiornale e dall’altra parte c’è un uomo che “di mestiere” ascolta e vede quello che il primo uomo ha proposto. Assoluta pari dignità tra soggetto promotore e soggetto recettore.
E’ questa una grande rivoluzione culturale che nasce in primis da un’impostazione mentale europea e italiana in particolare che non riesce a considerare gli esseri umani soggetti passivi, semplici target, bersagli inerti che possono essere soltanto colpiti.
Dopo aver individuato chi sarà il mio soggetto recettore, e quindi aver capito che debbo parlare ad un particolare destinatario, si pone il problema di che cosa dire a questo destinatario.
La O della formula ideografica significa appunto il contenuto, ciò che voglio dire. Una volta che ho individuato il motivo per cui debbo parlare ( la X ) una volta che ho capito a chi voglio parlare ( Sr ) il problema sarà che cosa debbo dire ( la O ). In effetti, non posso trasmettere nel mio colloquio, nella mia trasmissione televisiva, nel mio giornale, l’oggetto tal quale, ma posso trasmettere la mia interpretazione di quell’oggetto.
Il cronista che va in guerra non può mettere sul giornale i missili, gli aerei, le bombe, i morti. L’unica cosa che gli è consentito fare e che rientra nelle possibilità umane è quella di riportare la sua narrazione, la sua interpretazione, il modo in cui egli ha visto e vissuto gli avvenimenti di cui parla e quindi il racconto non può non essere figlio della soggettività del giornalista, soggetto promotore.
E allora, la nostra impostazione dà una spallata tremenda alla cultura americana demolendo senza appello il mito dell’obiettività che purtroppo, si insegna ancora in alcune scuole di giornalismo in Italia quando si afferma: “ ricordate che il primo dovere del giornalista è l’obiettività”.
E’ questa una bestemmia che noi non possiamo accettare. Il primo dovere del giornalista è la soggettività, il giornalista deve raccontare quello che lui vede, quello che lui crede di aver visto quando firma la sua corrispondenza; il vero problema non è tanto soggettività o obiettività, il vero problema deontologico è la mistificazione operata da parte di coloro che affermano di essere obiettivi ben sapendo che obiettivi non possono esserlo.
L’obiettività non è tra le possibilità umane perché nessuno di noi può vedere se non con gli occhi della propria soggettività. Quello che per me è bello e desiderabile, per te potrebbe essere brutto e di nessun interesse. Anche la terminologia e le modalità di descrizione dell’episodio, il livello “di temperatura” attribuito non possono che essere figli della mia soggettività e quindi figli della mia acculturazione, espressione dell’animale sociale che è in me quale espressione di tutto il mio vissuto.
Il discorso sulla obiettività non esiste e non deve esistere e sarebbe addirittura la negazione dell’informazione che significa esattamente dare forma, mettere in-forma, il fatto, l’avvenimento, il problema che genera il mio rapporto di informazione e di comunicazione.
I più grandi giornalisti che sono spesso etichettati come obiettivi, in realtà sono il massimo della soggettività e sono riconosciuti, ammirati e cercati proprio perché raccontano le cose come loro le vedono e ciò nonostante vengono definiti obiettivi. In realtà, l’unica obiettività teorica che possa esistere è quella di quando chi fa informazione vede come vorrei vedere io, cioè “quando la vede esattamente come io la penso” e in realtà è soltanto la sua soggettività che coincide con la mia.
Quando abbiamo deciso di che cosa vogliamo parlare, come la vogliamo raccontare, a chi la vogliamo raccontare rimane il problema del mezzo da utilizzare. Non è questa una scelta semplice perché anche il mezzo è in funzione del tipo di recettore a cui voglio parlare; per capirci non possiamo inviare una circolare a persone che non sanno leggere o scrivere.
Purtroppo, la scelta del mezzo è spesso realizzata con grande superficialità e si è arrivati nell’Amministrazione dello Stato al paradosso di usare mezzi assolutamente improponibili per certe tipologie di recettori. Oggi poi, si vorrebbe fare tutto attraverso la televisione ma non è detto che la televisione sia il mezzo ideale per il semplice fatto che entra in tutte le case.
Ad esempio, molto spesso va da sé che la comunicazione è soprattutto interpersonale e diventa prioritaria una forte attenzione agli aspetti della comunicazione non verbale.
Ancora una volta quindi il mezzo in funzione del soggetto recettore. A questo punto il soggetto promotore può affermare “ho ben compreso il problema da comunicare, ho individuato a chi parlare, ho deciso come dirglielo, ho scelto il mezzo più opportuno” e a questo punto il cerchio si chiude. Quella che vi ho illustrato viene definita come formula ideografica fattorelliana che rappresenta graficamente la teoria della tecnica sociale: abbiamo un problema, c’è un soggetto promotore, c’è un soggetto recettore, c’è un mezzo e c’è una “O” che è la mia interpretazione del problema . Per la prima volta noi sappiamo come costruire questa “O”.
Questo aspetto della teoria normalmente richiede un anno di didattica ma io cercherò di illustrarvela in poche righe (avevo promesso estrema sintesi!)
Insomma come gliela debbo raccontare alla persona che mi sta davanti, al mio pubblico a cui voglio parlare, questa cosa affinché il pubblico sia d’accordo con me, e mi dia la sua adesione d’opinione, affinché in altri termini, ci sia una convergenza di interpretazione tra come io l’ho vista e come il pubblico la avrebbe vista?
A questo punto la tecnica sociale afferma che questa convergenza di interpretazione – “sono d’accordo con quello che tu mi dici, anche per me è così” – avviene se noi abbiamo studiato attentamente il nostro soggetto recettore, soprattutto dal punto di vista della sua acculturazione, intendendo per acculturazione tutto quello che ha socializzato quell’essere umano che ci sta di fronte.
Capite allora che il problema è completamente ribaltato: altro che la freccia da costruire per colpire; si rende invece indispensabile lo studio del soggetto recettore per costruire la nostra “ O “ in funzione della sua acculturazione, delle sue aspettative, dei suoi desideri, della sua capacità di capire anche il lessico da noi adottato.
A volte dobbiamo essere banalissimi nel nostro linguaggio, dobbiamo usare esempi, metafore. Ad esempio e’ bellissimo ascoltare certi interventi in tribunale quando l’uomo di legge, pur potendo giocare tutto sotto gli aspetti del diritto o comunque sotto aspetti tecnici, si lascia invece andare a ,metafore che hanno un grande impatto comunicativo.
Altra cosa che mi sento di raccomandarvi: non abbiate mai timore di esser troppo chiari. Io ho elaborato una teoria a cui ho dedicato anni e anni della mia vita: “ la teoria della nonna”: quando vi accingete a fare un discorso di qualunque tipo, prima di presentarlo fatelo ascoltare alla nonna. “Senti nonna, io domani voglio dire questa cosa” se nonna capisce andate avanti se nonna non capisce stracciatelo e ricominciate da capo.
Debbo dire che ho un precedente illustre, grande commediografo francese, un certo Molière che andava dalla sua cuoca in cucina e le diceva “senti , si capisce? Ti piace?” Se la cuoca diceva sì, andava avanti, se diceva no, buttava via tutto. I maligni pensano che questa fosse una gran bella cuoca e che Molière fosse uno sporcaccione e la consultazione fosse soltanto un pretesto, comunque la storia è storia e non sta a noi giudicare.
Un’ultima cosa mi preme sottolineare e la ritengo imprescindibile. Se è vero come è vero, che noi dobbiamo conoscere il nostro soggetto recettore per costruire il discorso attorno ai contenuti esattamente come lui vorrebbe che noi dicessimo, e cioè vedere la realtà con gli occhi di chi ci sta di fronte, non possiamo tuttavia pensare che la nostra visione, per quanto corretta, giusta ben realizzata, possa essere condivisa da chi ci ascolta: aspettarsi questo, è un atto di presunzione infinita che dà alla mia percezione del mondo il valore di essere nel giusto e toglie alla percezione dell’altro altrettanta dignità. Siamo sempre soggetti opinanti, di pari dignità, a prescindere dalla cultura, dai libri letti, da diverse impostazioni ideologiche. Sono due cervelli che si mettono in relazione.
Provate a convincere un vecchio contadino a fare qualcosa: per due ore di seguito vi dirà “sì, sì, sì “, poi quando tu pensi di averlo convinto e gli chiedi “allora sei d’accordo?” La risposta sarà “no, io faccio di testa mia” dopo due ore di “sì, sì, sì!” E allora capite che per avere l’adesione di opinione non basta il potere di una cultura superiore o un ruolo sociale elevato: tutti voi avete esperienza di persone che si relazionano con voi e dicono “sì, sì però…”
Pari dignità, grande rispetto, non sottovalutiamo nessuno e non sopravvalutiamo nessuno si tratta pur sempre di due cervelli dove spesso l’unica differenza è un banalissimo – lo chiamo così io – titolo di studio, qualche libro in più o qualche libro in meno, ma non è una differenza sostanziale anche perché i libri che ho letto io sono a disposizione di chiunque altro li voglia leggere, e quindi si impone la necessità di conoscere e capire al meglio per poter parlare secondo le aspettative e comunque in sintonia con i miei soggetti recettori.
E allora vi propongo il mio personale, imprescindibile assioma della comunicazione.
Al primo punto troviamo “ascoltare per conoscere” ; subito dopo “conoscere per capire” poi ”capire per comunicare” e, infine, “comunicare per agire” Se saltiamo anche soltanto uno di questi passaggi, la relazione non funziona e il rapporto diventa inutile e privo di significato. Ho dunque bisogno di ascoltare per conoscere ed ho bisogno di conoscere per comunicare, perché se non conosco non entrerò mai in sintonia e non capirò mai le aspettative del mio interlocutore.
Naturalmente tutti noi dobbiamo anche comunicare per l’agire quotidiano, per le esigenze pratiche di tutti i giorni e allora ascoltare e possibilmente sentire, diventa un mezzo importante per accrescere le nostre informazioni, l’intuizione e la comprensione necessaria a gestire con successo e soddisfazione il rapporto interpersonale.
Spero di avervi trasmesso il mio entusiasmo per l’ordine di studi sulla comunicazione. Ho la fortuna di avere giorno per giorno risultati eccellenti, basati esclusivamente sulla forza dell’ascolto e delle parole.
E allora è con grande entusiasmo che porto a voi la mia esperienza di vita e la mia esperienza professionale per incitarvi, al di là dei problemi concreti, a prestare una grane attenzione al miglioramento della vostra comunicazione. E per comunicare non intendo soltanto parlare, intendo innanzi tutto ascoltare.
Il primo atto della comunicazione è ascoltare e non sempre è facile, però se vogliamo dare un senso anche al nostro lavoro oltre che alla nostra vita, credo che la strada non possa essere che questa.
In occasione del ventennale della nascita di “EVENTI” periodico di cultura, storia, politica e attualità che si stampa sempre con ottimi risultati a Pordenone, il prof Ragnetti ha rilasciato un’intervista con l’intento di far conoscere ai cittadini di Pordenone e non solo, la figura e le opere del loro illustre concittadino Francesco Fattorello.
Conferenza di apertura al Corso di formazione “Le basi e le tecniche della comunicazione umana” tenuto a Catania dal prof. Ragnetti per Operatori sociali delle amministrazioni pubbliche e del privato noprofit
Ogni individuo è al centro di una quantità di rapporti (genitore/figlio, marito/moglie, pubblica amministrazione/cittadino, dipendente/manager…ecc); non sempre, però è consapevole del contesto e delle dinamiche comunicative della situazione in atto.
La mancanza di questa consapevolezza rende poco efficaci ed efficienti sia le capacità relazionali, sia quelle comunicative. Questa consapevolezza è legata ad una capacità di osservare/ascoltare che è generalmente poco sviluppata. La maggior parte degli equivoci in cui l’individuo s’imbatte nella comunicazione interpersonale deriva dall’abitudine prevalente, come comunicatori, di non porsi nella posizione di ascoltatori e di non saper immaginare se gli altri riusciranno o meno a comprendere cosa stiamo per dire.
Molte forme di disagio esistenziale e di difficoltà in ambito familiare e professionale sono, anche, l’effetto di una comunicazione problematica, ambigua e contraddittoria. Da tale presupposto s’impone la necessità di individuare percorsi che consentano di apprendere i molteplici segreti della comunicazione interpersonale. Imparare a comunicare, però, non solo attraverso l’apprendimento di tecniche e strategie, ma soprattutto mediante un’attenta riflessione sul proprio modo di esserci e relazionarsi.
Ma che cosa è questa “comunicazione”?
La comunicazione non è ciò che vogliamo dire, ciò che noi pensiamo di dire, ciò che riteniamo di dover dire, ciò che abbiamo letto sui libri, ciò che abbiamo appreso, ecc. la comunicazione non è tutto questo. La comunicazione non avviene in partenza, avviene all’arrivo, cioè in colui che ascolta, nella sua testa. Bisogna sgomberare il campo da falsi preconcetti e da false credenze.
Ad esempio, molte volte sentiamo dire “Non esistono i valori”, “Non ci sono più i valori di una volta”, ecc. A voi che lavorate nel sociale molte volte vi “cadono le braccia” perchè i giovani non credono più a nulla e vi lamentate che c’è il vuoto. In realtà, si continuano a non capire le dinamiche, i meccanismi della comunicazione quando si fanno questi discorsi, perché questi giovani non è vero che non hanno più valori. Ma chi decide che cosa è un valore? La nostra cultura, i nostri genitori, il nostro sociale? Ci hanno detto che il valore è” questo e questo” e tutto ciò che non lo è, sarà soltanto un dis valore, quindi una seconda categoria, per cui i nostri ragazzi saranno, al massimo, portatori di dis-valori. E’ lì il contrasto, è lì, il parlarsi tra due unità che non hanno nessuna possibilità di capirsi. E allora?
Imposizione, repressione, autorità, che sono, ancora, la negazione all’ennesima potenza di una possibilità di relazionarsi. Allora dobbiamo subito, come partenza choc, metterci in testa che tutto ciò che fa di noi gli uomini che siamo,ha ben poco a che vedere con l’universo delle altre persone con cui interagiamo.
Tutto il nostro sforzo,quindi, di trasferire necessariamente, di imporre ai nostri figli le cose in cui crediamo non è corretto, perché dobbiamo comprendere che abbiamo a che fare con un altro essere umano, diverso da noi e che la società in cui noi siamo cresciuti è diversa da quella in cui loro stanno crescendo.
Voi che operate in situazioni problematiche dovete avere soprattutto una funzione di comprensione, di intervento, possibilmente con finalità terapeutiche, che vuol dire instaurare un dialogo per capire, per poter poi comunicare nella maniera più giusta ciò che “ scienza e coscienza” ritengono essere il comportamento ideale per quel tipo di problema, di patologia, di necessità sociale, ecc. Per gli operatori sociali, per chi si occupa di disagio, in particolare per chi lavora ed è a stretto contatto con i minori, è obbligatorio uscire fuori dai luoghi comuni, dai discorsi di salotto, dai “così fan tutti”: tutti voi dovete essere diversi, non potete essere come l’uomo della strada…
Dovete diventare innanzi tutto sociologi nel vostro lavoro, nel senso che dovete imparare a capire la società in quel momento, i cambiamenti, l’orientamento; quali sono le cose che interessano alle persone inserite in un determinato contesto, ai giovani in particolare.
Non è vero che i giovani non credono più a nulla; per esempio, credono al nulla, vi pare poco? Questi ragazzi hanno bisogno di qualcosa, ma questo può essere capito attraverso loro stessi.
Sono stato invitato a parlarvi di comunicazione e in particolare di come comunicare con i minori e a questo proposito vorrei dire che la comunicazione è una delle scienze più difficili anche se molto penalizzata. Tutti ne parlano, giornali, radio, televisione e adesso i cosidetti social, e ciò che impressiona è la pretesa di dare giudizi su una disciplina complessa, che si occupa dei rapporti tra gli esseri umani. Non esistono formule magiche nè regole fisse, perché non esistono esseri umani fissi, ragazzi uguali, programmati univocamente su cui possiamo fare ipotesi previsionali di comportamento, di reazioni costanti a determinati stimoli. Come si può pensare di circoscrivere un ragazzo in un modello! Se non sei così, se non ti comporti in un certo modo, c’è qualcosa che non va o, addirittura, “l’è tutto da rifare!”! E’ questo uno degli errori più gravi che commettono genitori ed educatori , insieme al fatto di non ascoltare più i ragazzi. A questo proposito è fondamentale sottolineare ed enfatizzare l’arte dell’ascolto, che avremo modo di approfondire come una delle premesse – base del processo comunicativo.
Ascoltare per conoscere, conoscere per capire, capire per comunicare, comunicare per agire.
Chi opera nel sociale come voi ha una grande responsabilità: capire anche la comunicazione inespressa, sentire ed ascoltare anche quello che non viene detto. Come capire se non mettendo le persone in condizione di parlare senza il terrore del giudizio? Il meccanismo di base è lavorare sull’uomo, fare assumere consapevolezza al singolo della propria personalità ,della sua miracolosa unicità, del suo essere interiore, quindi delle sue potenzialità e capacità; cioè dobbiamo restituire ai ragazzi la fiducia nei propri mezzi, dobbiamo far capire loro che possono farcela da soli, senza “aiuti” esterni (pensiamo all’uso di droghe, fumo, alcool ecc). Dovremmo capire che non solo i “bravi” sono bravi, e solo i “buoni” sono buoni: tutti noi siamo stati testimoni che non sempre i ragazzi “migliori” sono stati anche i migliori nella vita! Talvolta situazioni difficili, quasi insostenibili per un ragazzo, hanno fornito stimoli reattivi di tale forza positiva e creativa da trasformare uno sconfitto certo , un quasi emarginato messo all’angolo, in un adulto vittorioso e con tutti gli attributi a posto!
Il primo obiettivo, allora, è far assumere consapevolezza al ragazzo, ascoltare, condividere empaticamente, entrare dentro i problemi. Quando il ragazzo, la persona che ha problemi, assume consapevolezza, capisce che anche con le sue gambe può continuare a camminare. Siamo noi che dobbiamo incoraggiarli e dare forti motivazioni affinché ognuno di loro creda in se stesso, in un età che è fisiologicamente problematica e dove coesistono due spinte opposte: la voglia di diventare autonomi, staccarsi dai genitori e dal periodo della fanciullezza e rimanere, nel contempo, legati alla famiglia cercando in essa protezione, ascolto ed incoraggiamento.
Nel 1957, ero presidente dell’Unione dei giornalisti a Istanbul e redattore capo del quotidiano turco, Aksam. La Commissione nazionale turca per l’UNESCO mi ha chiesto di prendere parte al primo corso del Centro internazionale per l’istruzione superiore in giornalismo che era appena stato creato a Strasburgo.
Questo corso, durato due mesi, mi ha dato l’opportunità di conoscere il direttore del centro, il professor Jacques Léauté, il direttore dell’Istituto francese di stampa, Fernand Terrou e il vice direttore dell’Istituto, Jacques Kayser, molti ricercatori nel campo delle comunicazioni e illustri giornalisti come Henri Cassirer, Roger Clausse, Pierre Denoyer, Robert Desmond, Francesco Fattorello, Jacques Godecho, Robert Hennart, Emil Dovifat, Vladimir Klimes, Ralph Nafziger, Martin Rooij, Robert Salmon, Raymond Manevy, Rolf Meyer, Pierre Schaeffer, Bernard Voyenne e molti altri …
In seguito a questo incontro, sono stato invitato dal Direttore generale aggiunto dell’UNESCO a partecipare alla conferenza costitutiva dell’Associazione internazionale per la ricerca sulle comunicazioni di massa del 18 e 19 dicembre 1957, che si è svolta nella Segreteria dell’UNESCO, in avenue Kléber, in Parigi.
Quattro dei membri fondatori della IAMCR si sono riuniti a Strasburgo per la prima sessione del Centro internazionale per l’istruzione superiore in giornalismo nell’ottobre del 1957, alla vigilia della Conferenza Costituente IAMCR a Parigi. Da sinistra a destra: Francesco Fattorello, Fernand Terrou, Khoudiakoff, che non hanno partecipato all’incontro di Parigi, Jacques Léauté e Mieczyslaw Kafel. È interessante notare che i partecipanti a questa prima sessione del Centro di Strasburgo hanno partecipato in gran numero alla Conferenza costituente.
C’erano 14 paesi, rappresentati da 57 partecipanti e 5 organizzazioni internazionali. La conferenza è stata aperta da un discorso tenuto da Tor Gjesdal, direttore del Dipartimento di informazione dell’UNESCO. Dopo aver sottolineato il ruolo della comunicazione nel mondo moderno, ha continuato concentrandosi sull’importanza del coordinamento della ricerca nel campo delle comunicazioni e ha concluso il suo intervento con le seguenti parole: “All’UNESCO, siamo d’accordo con gli organizzatori di questo incontro nell’affermare è giunto il momento di cercare di stabilire legami più stretti e una maggiore cooperazione tra gli istituti di ricerca e i singoli ricercatori di tutto il mondo su argomenti relativi ai mezzi di comunicazione.
Fernand Terrou ha sottolineato nel suo discorso l’importanza dell’indipendenza richiesta dall’Associazione, sottolineando i seguenti punti: “Ecco, credo, un esempio particolarmente caratteristico della vera missione dell’UNESCO: promuovere gli sforzi per la cooperazione internazionale in campo intellettuale, facilitare la loro espansione, mostrare chiaramente i loro benefici, e poi fare un passo indietro per ricominciare altrove “.
L’ordine del giorno della conferenza includeva lo sviluppo degli statuti dell’Associazione. Numerosi partecipanti come Terrou, Kayser, Bellanger, Kafel, Fattorello, Blin, Denoyer, Stijns e Clausse hanno espresso le loro opinioni sul piano preparato dal comitato interinale. Dopo le discussioni, gli statuti dell’Associazione sono stati approvati all’unanimità. Il consiglio e il comitato esecutivo erano formati come segue:
Presidente: Fernand Terrou
Vicepresidente: Jacques Kayser
Vicepresidenti:
– Jacques Bourquin
– Raymond Nixon
– Mieczyslaw Kafel
– Membri del Consiglio:
– Claude Bellanger
– Marcel Stijns
Membri del comitato esecutivo:
– Roger Clausse
– Francesco Fattorello
– Domenico de Gregorio
– Danton Jobim
– COME. Khurshid
– Vladimir Klimes
– Nell Morrisson
– Oscar W. Riegel
– R.J.E. Silvey
– E.B. Simpson
– Jean Tardie
Jacques Kayser, ricercatore, eminente giornalista e vice direttore dell’Institut Français de Presse, ha affrontato la conferenza con questioni molto concrete. Sottolineò che prima di tutto doveva essere compilato un elenco di istituti di ricerca internazionali nel campo dell’informazione, seguito dallo sviluppo di una bibliografia di soggetti nel campo della comunicazione e infine da indicare chiaramente e definire metodi e una terminologia da utilizzare . In conclusione, ha proposto due argomenti principali per la ricerca: l’influenza dei media sui bambini e la riservatezza professionale dei giornalisti.
Da allora questi argomenti sono diventati oggetto di ricerca nei programmi dell’UNESCO e per molti anni hanno fornito sostegno, che è stato finanziariamente modesto ma moralmente significativo, nello sviluppo di attività nello IAMCR. L’UNESCO ha quindi potuto beneficiare dei contributi dei membri dello IAMCR nello sviluppo e nella realizzazione dei programmi di ricerca dell’UNESCO nel campo della comunicazione.
Avendo trascorso 25 anni come responsabile del progetto IAMCR all’UNESCO, sono onorato di essere coinvolto nel suo 50° anniversario come uno dei membri fondatori. Poiché oggi sono uno dei rari sopravvissuti della conferenza costitutiva, vorrei richiamare alla mente tutti quei colleghi che hanno partecipato alla creazione dello IAMCR e che da allora sono morti. Persone come Tor Gjesdal, Fernand Terrou, Jacques Kayser, Jacques Bourquin, Raymond Nixon, Claude Bellanger, Raymond Manevy, Mieczyslaw Kafel, Vladimir Klimes, Francesco Fattorello, Pierre Navaux, Jacques Godechot, Martin Loeffler, Jean-Louis Hebarre, Giuliano Gaeta hanno sostenuto fermamente il IAMCR e contribuito al suo successo.
Hifzi Topuz Presidente dell’Associazione turca per la ricerca sulla comunicazione Ex direttore della sezione Flusso libero di informazione e comunicazione nell’UNESCO
Il tema “ le nuove tendenze della comunicazione” può indurre a pensare in modo sostanzialmente univoco alla rivoluzione introdotta dalla rete e dai nuovi mezzi di comunicazione.
E’ necessario però definire prioritariamente cosa si intende per “comunicazione” e cosa invece per “mezzo di comunicazione”.
Certamente le Telecomunicazioni di nuova generazione con gli SMS, Watsapp, Wiber e Skipe, oppure i social media come Twitter o Facebook costituiscono grandi novità rispetto ai tradizionali supporti alla comunicazione, ai consueti mezzi ma non è detto che il dato tecnico abbia avviato fondamentali trasformazioni dei contenuti comunicativi.
Su questo punto vorrei citare Bill Gates, fondatore ed ex presidente di Microsoft quando afferma” Il computer più nuovo al mondo non può che peggiorare, grazie alla sua velocità il più annoso problema delle relazioni tra esseri umani: quello della comunicazione. Chi deve comunicare, alla fine, si troverà sempre a confrontarsi con il solito problema: cosa dire e come dirlo”.
Nel contempo è necessario anche considerare che il sistema della comunicazione, al pari di altri sistemi sociali, non è certo estraneo ai processi di innovazione culturale e sociale, anzi, ne è quasi sempre il detonatore.
Del resto Niklas Luhmann ci ricorda che “i sistemi sociali esistono e si sviluppano soltanto attraverso la continua comunicazione”. Ne consegue che non esiste sistema sociale senza comunicazione.
L’annullamento dello spazio ed il superamento degli “steccati”, ottenuto grazie alle nuove tecnologie di collegamento, hanno ampiamente modificato quei diaframmi sociali e culturali che persistevano prima del loro avvento generando profondissime ripercussioni sociologiche ancora tutte da decodificare.
Oggi basta digitare un numero di telefono per raggiungere un utente, anche mobile, nella quasi totalità del globo terrestre, una cosa impensabile fino a pochi anni fa.
La rivoluzione nel trasporto del testo scritto poi non è certo da meno. Con le E-mail possiamo inviare testi, lettere di lavoro, lettere amicali e familiari in tempo reale senza dover attendere settimane o mesi per avere riscontro.
Tuttavia, al telefono o nelle e-mail permane la centralità del messaggio, l’oggetto della comunicazione e la necessaria attenzione nel considerare il nostro interlocutore, se vogliamo che ci sia veramente scambio comunicativo.
Voglio rimarcare ancora il concetto di contenuto della comunicazione e della sua distinzione rispetto alla tecnologia.
E’ ormai noto che avvio delle trasmissioni televisive diffuse via satellite, hanno reso noto ad intere popolazioni di indigenti, relegate fino a quel punto al pressoché totale isolamento informativo della realtà sociale e del tenore di vita del cosiddetto occidente industrializzato, contribuendo probabilmente ad avviare una tendenza, mai registrata prima, alla migrazione di massa.
In questo esempio la tecnologia ha consentito di illuminare territori prima inesplorati dai media occidentali ma certamente sono stati i contenuti mediali a creare il fenomeno.
Il “cosa dire” rimane quindi basilare, come ovvio del resto, nei processi della comunicazione, mentre è indubbio è che il “come dirlo” è un processo che risente profondamente delle nuove tecnologie e su questo credo che debba essere concentrata la riflessione sulle nuove tendenze della comunicazione.
Strumenti come gli sms o come Twitter con i suoi 140 caratteri, hanno imposto necessariamente una trasformazione della semantica lessicale e frasale rispetto alla precedente tradizione linguistica, da qui lo sviluppo di nuove tendenze comunicative.
Le abbreviazioni in uso negli sms (classico il riferimento all’ormai famoso TVB ovvero l’abbreviazione di “ti voglio bene”) i neologismi di twitter entrati nell’uso comune del nostro linguaggio come gli hashtag (#sapevatelo,) fino ad arrivare ad elementi grafici a sostegno del testo, come le iconcine e gli smails, compongono decisamente un quadro di progressivo adattamento dei contenuti della comunicazione al tipo di mezzo prescelto.
Con ciò, a differenza del passato e considerando la galassia di nuovi mezzi di comunicazione oggi disponibile, si potrebbe finalmente convenire sulla validità della famosa affermazione di Marshall McLuhan “ Il mezzo è il messaggio” inteso come opportuna “messa in forma” dell’oggetto della comunicazione attraverso un opportuno adattamento, necessario ad essere correttamente veicolato sul mezzo prescelto.
Il processo di adattamento dell’oggetto della comunicazione rispetto al mezzo prescelto per veicolare il messaggio, non è nuovo ed è ampiamente contemplato nella “Tecnica sociale dell’informazione” la sola ed unica teoria italiana sulla comunicazione, formulata dal Professor Francesco Fattorello, fondatore, nel 1947, dell’Istituto Italiano di Pubblicismo e oggi applicata in tutto il mondo.
Le nuove tendenze della comunicazione si basano su tre parametri irrinunciabili: la velocità, l’autodeterminazione del palinsesto, l’interattività, l’autoeditorialità. Le ricerche condotte da enti di ricerca sociale e da varie università nazionali ed estere (terzo rapporto CENSIS sulla comunicazione in Italia, Università cattolica del Sacro Cuore di Milano, Mario Morcellini in “capire il legame Giovani e media”-atti del Convegno Internazionale Infanzia e Società Roma novembre 2005), indicano con chiarezza che i giovani in particolare hanno oggi un approccio assai diverso dal passato rispetto ai media tradizionali quali la radio, la televisione, la stampa quotidiana, media che stanno progressivamente abbandonando a favore del personal computer e degli Smart phone.
Con i social media, primo tra tutti Facebook, tutti si propongono come editori di loro stessi e tutti sperano nel più ampio consenso verso i propri contenuti di profilo e di diario.
E’ come se gli utenti di questo strumento comunicativo, oramai scalati i gradini più bassi della piramide di Maslow, possano finalmente ricercare ed ottenere la soddisfazione dei bisogni di stima e autorealizzazione tanto difficile da raggiungersi in precedenza.
Per raggiungere questa soddisfazione si è disponibili ad accettare anche rischi e pericolosi compromessi.
“Cosa stai pensando?” propone Facebook ed allora senza troppe remore, concetti come la tutela della Privacy personale e della discrezione vengono spazzati via pur di poter essere “pubblici” e di proporre il nostro stile di vita, i nostri gusti, le nostre preferenze e le nostre opinioni, sperando che, attraverso la ricerca di fattori di conformità tra altri utenti, ci sia il sostegno gratificante del “mi piace” o ancor meglio una adesione di opinione ancor più marcata attraverso il “condividi”.
Purtroppo, nonostante gli ammirevoli sforzi ideativi di molti, ottenere una ampia adesione di opinione è cosa assai difficile, lo testimonia l’esistenza in rete di miliardi di bogs personali cosiddetti a “zero comments”.
Eppure, assecondando una moda intellettuale maggioritaria e vagamente radical chic, per ottenere il consenso basterebbe seguire pedissequamente il decalogo proposto dal sempre troppo osannato Noam Chomsky, il quale sa bene, a sua detta, come manipolare il consenso perché per lui l’opinione pubblica è una merce, la nostra opinione è una merce, noi siamo una merce nel mercato del consenso.
In verità bisogna ricordare che alcuni movimenti politici che recentemente hanno ospitato Chomsky nei loro congressi e lo hanno elevato a loro ideologo nelle strategie comunicative, hanno riportato risultati elettorali disastrosi non riuscendo nemmeno a raggiungere la soglia minima di voti necessaria per entrare in parlamento.
Le nuove tendenze comunicative affondano oggi nella piena interattività, oggi possibile grazie alle nuove tecnologie in dotazione ai nuovi mezzi comunicativi, una interattività peraltro già desiderata e ipotizzata negli anni ‘20 dal commediografo Bertolt Brecht nel suo famoso discorso sulla funzione della radio.
Assistiamo quindi ad un sistema sociale della comunicazione in continuo divenire e davvero corrispondente a quel processo di sviluppo autopoietico così ben illustrato dallo studio sui sistemi sociali di Luhmann che lo ha mutuato dalla ricerca del biologo e filosofo Humberto Maturana.
Non ci resta che rimanere attenti alle trasformazioni, “Stay tuned!” oggi si usa dire, consapevoli che le nuove tendenze della comunicazione genereranno a loro volta altre nuove tendenze ma senza mai prescindere dal fatto che a concludere con esito positivo un processo comunicativo saranno pur sempre gli esseri umani sempre meno disponibili ad abbattere le proprie certezze o, meglio, l’artificio delle loro convinzioni personali.
Convegno nazionale ANS Intervento del Dott. Marco Cuppoletti Ordinario dell’Istituto di Comunicazione Francesco Fattorello