Non ho sempre saputo cosa fare del mio futuro.
A dieci anni, molto fiera del fatto che le insegnanti amavano la mia esuberanza e la mia loquacità, mi ero convinta di voler diventare un avvocato. Qualche tempo dopo, a dodici anni, mossa dalla mia ingenua passione per il disegno, sarei voluta diventare una stilista.
Finché un giorno, in un tema di terza media, ho scritto che sarei diventata una giornalista.
Questo sogno mi ha accompagnato a lungo. Ho cominciato a credere che la mia naturale dote per la scrittura mi sarebbe bastata, e mi avrebbe portato a realizzarlo.
Negli anni del liceo ho iniziato a scrivere seriamente. Mi ricordo che in uno dei primi temi ebbi il voto più alto della classe: ero molto fiera.
All’insegnante era piaciuto perché ero stata sincera, perché avevo detto la verità: e allora credetti di capire perché avevo scelto quel sogno anziché un altro. Si radicò in me la convinzione che un buon giornalista è capace di dirla la verità.
Dice quello che vede, non calca la mano, non romanza. Un buon giornalista conosce la differenza fra le opinioni e ciò che invece la gente merita di sapere.
Il mio percorso di vita con tutto il bagaglio di esperienze che ne consegue, e i miei studi hanno orientato il mio pensiero verso due nuove direzioni e, siccome credo che solo le persone stupide non cambiano mai idea, ho lasciato che tesi più convincenti demolissero le mie.
Il mio percorso di vita mi ha fatto capire che la verità non esiste, e che se esiste non sarà mai la sola. I miei studi, invece, mi hanno insegnato che la professione che ho scelto per il mio avvenire presenta delle controversie che io nemmeno immaginavo; ho commesso degli errori di valutazione credendo ciò che non è.
A questa conclusione mi ci hanno portato soprattutto gli ultimi studi fatti in materia di informazione e comunicazione, capendo finalmente che le due cose sono differenti, ma differenti davvero.
Questa “strana” tecnica sociale così diversa da tutto quello che mi era stato inculcato con assidui ammaestramenti, che ha sovvertito tutte le mie convinzioni, che mi ha confusa, ma che forse ha portato un po’ di realtà in un universo che è stato a lungo falsato.
Perciò via l’idea che siccome mi piace scrivere e ne sono naturalmente portata, questa sia una valida ragione per voler diventare una giornalista. Via l’idea che il giornalista dice la verità, che è testimone freddo e asettico come l’occhio della telecamera.
Molto spesso la parola “verità” è stata la sorella della parola “obiettività”, tema quest’ultimo assai dibattuto, dal momento che molti ritengono sia la prima regola nella gerarchia della deontologia del giornalista. Addirittura in America la si insegna nelle università: ma è mai possibile insegnare l’obiettività? Esiste l’obiettività? E sopratutto: un giornalista può mai essere obiettivo?
Probabilmente no.
Un fatto indiscusso è che il giornalismo è mediazione tra la fonte e il destinatario di qualsivoglia messaggio: mediatore è appunto il giornalista.
Mediazione significa che ci si mette al servizio di un fatto, che lo si propone al cospetto della personalità, della cultura e della soggettività di colui che lo farà diventare una notizia capace di coinvolgere il cittadino-lettore, soddisfarne gli interessi, i bisogni, le curiosità.
Mediatore, ma anche interprete. Ma l’interpretazione non ha nulla a che vedere con l’obiettività.
Il secondo punto che ho sottoposto ai dubbi degli ultimi tempi e degli ultimi studi riguarda la differenza tra letteratura e giornalismo. Nello scegliere la professione giornalistica come mia futura occupazione forse avrei dovuto tener presente qualcosa di cui purtroppo non ero ancora a conoscenza, almeno non nel dettaglio.
La tecnica sociale di Francesco Fattorello, con la sua schematicità, ha fatto molta chiarezza sull’argomento.
Si parla di due tipi di informazione:
● Contingente: tempestiva, il cui valore si identifica nel momento più utile
● Non contingente: più lenta, non basa il suo successo sul carattere tempestivo
I fenomeni dell’informazione della prima categoria si identificano nell’informazione pubblicistica (tra cui anche il giornalismo), cioè nell’informazione indirizzata a quel particolare gruppo recettore, pur esso tempestivo e contingente, che si crede spesso di poter identificare nel così detto pubblico. I fenomeni di informazione che appartengono alla seconda categoria si concretano per mezzo di un processo che nei suoi termini non è diverso dal precedente ma le sue categorie e modalità appaiono diverse da quelle della prima categoria.
Del giornalismo c’è una bella definizione di Umberto Eco: “una storiografia dell’istante”.
Storiografia, dunque, non letteratura.
Il legame tra giornalismo e letteratura, l’opinione, anzi, che il giornalismo sia addirittura un genere letterario, nasce da una secolare tradizione, così radicata nel comune giudizio da trasformare in uno dei miti della professione quello che è invece un pesante impedimento a un modo moderno di fare informazione.
Ieri viveva la passione per il pezzo ben scritto, per la prosa elegante, per un linguaggio che però finiva col divenire troppo lontano dalla lingua parlata, e spesso poco comprensibile; oggi vive la convinzione che solo un stile scarno, asciutto, rapido ed essenziale, e alla portata di tutti può rispondere alla quella funzione fondamentale che è la mediazione di cui parlavo prima. Ecco perché qualcuno azzardò un concetto che inizialmente mi sembrò impossibile e assurdo ma che, con la dovuta attenzione, riuscì a comprendere fino in fondo:
“Indro Montanelli è stato il peggiore giornalista della storia italiana, Emilio Fede ne è il migliore”.
Come dicevo prima, i processi di informazione contingente e non contingente hanno gli stessi termini ma diverse modalità di comportamento.
Entrambi hanno come elementi:
● SP: un soggetto promotore che trasmette (e se è bravo comunica anche) non il fatto ma la forma che egli ha dato al fatto, ovvero l’opinione
● SR: un soggetto recettore che non si limita a ricevere ma interpreta a sua volta, ovvero aderisce o meno all’opinione
● M: un mezzo attraverso il quale trasmettere
● O: l’oggetto, il contenuto cui dar forma
● X): elemento che sta al di fuori del processo, il motivo per cui si mette in atto il processo d’informazione
Sono le modalità di comportamento a cambiare:
● la materia oggetto del primo processo attiene sempre a ciò che è attuale e contingente; nel secondo caso il processo attiene a opinioni cristallizzate
● La tempestività è una caratteristica fondamentale del primo processo ma del secondo, in cui non ci sono limiti di tempo.
● La pubblicità del processo contingente è caratteristica fondamentale, nell’informazione non contingente la pubblicità non conta
● Il processo contingente trae effetto dal fattore della “novità”, nel secondo caso la novità non ha effetto.
● Nel processo contingente il promotore può non avere una qualificazione specifica,
nel non contingente il soggetto è qualificato
● Nel processo contingente il recettore è generico, di breve durata ed eterogeneo; nel secondo caso è di norma qualificato, di lunga durata e omogeneo
● Nel processo contingente il contenuto è generico, nell’altro il contenuto è specifico
● Il processo contingente si basa su opinioni contingenti e fattori di conformità; il secondo si articola tramite procedimenti logici e razionali ed opinioni cristallizzate e valori
● Il contingente può essere processo unilaterale, il non contingente è bilaterale
Esistono dei casi in cui questi due processi che ho appena analizzato si intersecano e sembrano viaggiare di comune accordo pur mantenendo ben nette le loro singole specificità.
Il primo caso riguarda “Quei giorni a Berlino”, libro uscito in Italia nel 1989 e scritto da due giornalisti italiani inviati della Rai, Lilli Gruber e Paolo Borella. Lo scopo fu quello di riportare in un libro (che potrebbe essere considerato strumento dell’informazione non contingente) i contenuti del giornale (informazione contingente) su un fatto di cronaca di straordinaria risonanza a livello mondiale, al fine di contribuire alle ricostruzioni che un giorno gli storici vorranno fare sugli avvenimenti di cui i due giornalisti sono stati tempestivi testimoni.
Il secondo caso riguarda il fatto che informazione contingente e non contingente possono concorrere entrambi alla socializzazione e alla acculturazione dell’individuo. Tuttavia è necessario sottolineare che il giornale certo non educa ma può favorire l’acculturazione: l’informazione contingente può aiutare l’educazione, ma non potrà mai sostituirla.
Alla luce di quanto detto, che è anche quello che sto studiando, mi rendo conto che forse ci avevo capito ben poco del giornalismo, e delle differenze che esistono rispetto ad altre “arti dello scrivere”. E mi rendo conto che tutti i miei piccoli e insignificanti tentativi di
iniziarmi a questa professione si sono basati su linee guida piuttosto confuse e traballanti.
Mi ero sbagliata.
Roberta Restretti
studentessa di Editoria Media e Giornalismo
Università Carlo Bo di Urbino