Un esempio di informazione contingente: le Previsioni del Tempo

Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Università degli Studi “Carlo Bo” Urbino – Tecniche di Relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Un esempio di informazione contingente: le Previsioni del Tempo”

a cura di Cinzia Crinò

LA TECNICA SOCIALE DELL’INFORMAZIONE

Francesco Fattorello ha elaborato la Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione. Questa teoria prevede che un Soggetto Promotore trasmetta una formula di opinione a un Soggetto Recettore, tramite un determinato mezzo di comunicazione.

Il contenuto che viene trasmesso non è mai la realtà oggettiva (che resta fuori dal processo), ma sempre una sua rappresentazione soggettiva. Non ci sarà mai un’identificazione tra realtà del fatto, rappresentazione di esso da parte del Soggetto Promotore e ricezione del Soggetto Recettore. Lo scopo del processo di informazione è quello di ottenere l’adesione del Recettore all’opinione proposta; mentre non si può prevedere l’effetto che susciterà il processo informativo.

Fattorello sostiene che ci sono innumerevoli tipi di rapporti di informazione, ma ne tratta due in particolare, esemplificati dall’opera del giornalista e da quella del maestro. Entrambi danno forma a qualcosa che vogliono portare a conoscenza del recettore, ma tra i due tipi ci sono molte differenze.

Il primo tipo riguarda il processo di informazione contingente. Questo procedimento prevede la tempestività, la pubblicità e la novità del contenuto informativo. Il Soggetto Promotore può non avere una qualificazione specifica (come il giornalista); il Soggetto Recettore è generico, eterogeneo ed è un gruppo di breve durata.

Altre caratteristiche del processo: si serve di opinioni contingenti e di fattori di conformità; il suo scopo è solo quello di ottenere un’adesione immediata. Infine, il rapporto informativo è unilaterale: il recettore può reagire e comunicare con il promotore, ma solo in un secondo momento, quando è terminata la tempestività del fenomeno.

Il secondo tipo riguarda l’informazione non contingente. A differenza del giornalista, il maestro (Soggetto Promotore) è sempre una persona qualificata. La materia riguarda opinioni cristallizzate; non contano la novità né la pubblicità e non ci sono limiti di tempo.

Il Soggetto Recettore è un gruppo di lunga durata e piuttosto omogeneo. Questo tipo di informazione si serve di procedimenti logici e razionali e mira a costruire schemi mentali, valori, attitudini, modi di vedere se stessi e gli altri, che serviranno all’uomo di domani. In questo tipo di rapporto la bilateralità è fondamentale: c’è un rapporto orizzontale tra maestro e allievo.

UN ESEMPIO DI INFORMAZIONE CONTINGENTE: LE PREVISIONI DEL TEMPO

Ho pensato di applicare gli elementi della formula della Tecnica Sociale dell’Informazione a un caso di informazione contingente: le previsioni meteorologiche.

La meteorologia è un tipo di informazione tempestiva, in quanto viene data in un preciso momento, quando può essere meglio recepita, ovvero qualche giorno prima del verificarsi.

Il Soggetto Promotore è il giornalista, ma più spesso il metereologo, un esperto del settore, laureato in fisica o in scienze affini. Il Soggetto Recettore è costituito da un pubblico vasto e molto eterogeneo. Teoricamente è costituito da tutto il pubblico nazionale, ma in realtà ci sono diverse limitazioni; ci sono recettori presunti e recettori effettivi. Innanzitutto il pubblico sarà composto da chi possiede il televisore, la radio, internet o altri mezzi di comunicazione tramite cui avviene la trasmissione dell’informazione.

Questo pubblico poi deve possedere determinate capacità psicofisiche per recepire il messaggio; ad esempio i non udenti non ascoltano la radio e di conseguenza non fanno parte del pubblico radiofonico del meteo. Inoltre il recettore, per essere tale, deve avere vissuto il processo di socializzazione nello stesso ambito culturale del promotore, dovrà parlare la sua stessa lingua, altrimenti non potrà capire il contenuto. Una volta superati questi limiti, avremo recettori aperti e recettori chiusi all’informazione. Il soggetto recettore non si limita ad ascoltare l’informazione, ma la interpreta in base ai propri schemi mentali, aderisce o meno all’opinione che gli viene proposta, e successivamente può diventare promotore a sua volta di quanto appreso.

Nel rapporto di informazione, quello che viene trasmesso non è la materia in sé, la realtà oggettiva del fatto. Non entreranno nella spiegazione gli agenti atmosferici reali. Nella formula elaborata da Fattorello l’oggetto dell’informazione è rappresentato con x) dove la parentesi indica che questo elemento non fa parte del processo di informazione. Ciò che viene trasmesso dal promotore è sempre una sua descrizione soggettiva, una “forma”, indicata con il simbolo “O”. Non si può parlare di obiettività. L’informazione è doppiamente soggettiva: il metereologo esamina i dati al computer, fa dei calcoli, guarda il cielo. Poi dà una forma a ciò di cui è venuto a conoscenza e la trasmette al pubblico recettore.

Quest’ultimo ascolta l’informazione e se la rappresenta soggettivamente tramite la propria cultura. Dopodiché deciderà se aderire o meno. Il fatto che le previsioni meteo siano un’informazione soggettiva si può evincere dal fatto che, nonostante i vari esperti usino gli stessi strumenti di osservazione e vengano a contatto con la stessa materia, espongono l’informazione in modo differente l’uno dall’altro.

Per quanto riguarda i mezzi usati dall’informazione metereologica, questi dipendono dallo strumento in cui avviene l’informazione: televisione, radio, internet, quotidiano. Ad esempio nel caso della televisione i mezzi che verranno usati sono: le cartine geografiche, la bacchetta usata dal metereologo per indicare un punto della mappa, immagini computerizzate, colori, simboli (del vento, della neve, della pioggia ecc), grafici delle temperature, esposizione dell’esperto e così via.

Le previsioni meteo hanno tutte le caratteristiche dell’informazione contingente. Prima di tutte la pubblicità: l’informazione viene resa pubblica tramite mezzi di comunicazione di massa; poi la novità: l’informazione meteorologica è sempre nuova, in quanto il tempo cambia sempre, e quindi il contenuto informativo non è composto da opinioni cristallizzate, ma da opinioni tempestive e temporanee, che valgono al massimo per qualche giorno.

Come in tutti i processi di informazione contingente, anche in questo caso la comunicazione è unilaterale e verticale. Si può interagire con il metereologo tramite lettere, e-mail, telefono, blog e siti internet, ma solo in un secondo momento, quando il processo informativo si è già concluso.

Dato che questo tipo di informazione si rivolge a un pubblico vasto, eterogeneo, con gradi di istruzione diversi tra loro, il linguaggio deve essere il più chiaro e semplice possibile.

A differenza del modello della comunicazione di Lasswell, nella Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione non è menzionato l’effetto che può provocare l’informazione sul recettore. Questo perché il comportamento è un momento successivo al processo informativo e non può essere previsto.

Tramite la tecnica sociale si può solo suscitare o meno l’adesione di opinione. Ma anche chi aderisce all’opinione non è detto che trasformi la sua adesione in un’azione concreta. Per tornare all’esempio del meteo, una persona può essere d’accordo con il fatto che domani pioverà, ma non è detto che esca di casa con l’ombrello. Il comportamento è influenzato da altri, imprevedibili fattori.

Con la maschera si può dire: la vita è una rappresentazione teatrale

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Corso di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Con la maschera si può dire: la vita è una rappresentazione teatrale”

a cura di Marco Luchini

L’idea secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini di una rappresentazione teatrale non è affatto nuova. Già Shakespeare in A piacer vostro aveva fatto dire a uno dei suoi personaggi: “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori.

Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona nella vita rappresenta diverse parti”. Affermazione questa, sicuramente condivisa da Luigi Pirandello, che di maschere se ne intendeva, dato che nella sua poetica l’uomo non ha una personalità, ma molteplici e i suoi personaggi possono essere contemporaneamente Uno, nessuno e centomila.

La “metafora drammaturgica” di Goffman

Chi più di altri è però riuscito a fornire una panoramica esaustiva ed assolutamente originale circa il tema della maschera è sicuramente Erving Goffman, nell’opera del 1956 La vita quotidiana come rappresentazione, dove viene sostenuto il punto di vista della “metafora drammaturgica”.Goffman propone numerosi spunti di riflessione sui parallelismi che legano la vita quotidiana, in particolare le interazioni faccia-a-faccia, all’ambito delle rappresentazioni teatrali.

Partendo dal presupposto di considerare la rappresentazione teatrale come un processo informativo, nel senso di un “dare forma” a qualcosa da parte di qualcuno (attori da palcoscenico) verso qualcun altro (pubblico), si possono fare tutta una serie di considerazioni. Innanzitutto, rispetto all’interazione diretta, il teatro pare essere, paradossalmente, esente da simulazioni volte ad ingannare. Questo perché il teatro gode di un particolare ancoraggio al principio di realtà, che è una differenza a livello di “frame” con le interazioni sociali quotidiane.

Il concetto di “frame” è la nozione cardine su cui poggia la teoria di Goffman. Con il termine l’autore intende designare la “cornice” entro la quale gli individui collocano le situazioni che li vedono protagonisti, di volta in volta affidandosi a schemi interpretativi differenti e collegati al mondo dell’esperienza reale da un margine variabile a seconda dei casi. In poche parole, si tratta del contesto, ossia dello sfondo su cui si collocano le situazioni, che diventa frame nel momento in cui prevale su tutti gli altri.

L’introduzione del “frame” è funzionale per la comprensione del fatto che nel momento in cui il pubblico degli spettatori entra a teatro e prende posto in platea, è comunque in grado di attuare un processo che inscrive tutto quanto quello che sta per accadere sul palcoscenico all’interno di una specifica “cornice” che sarà quella teatrale. Qualsiasi altra cornice verrà perciò esclusa. Saranno gli applausi finali, seguiti dalla chiamata sulla ribalta, a chiarire definitivamente che la rappresentazione teatrale è finita e che tutto ciò che accadrà da quel momento in poi dovrà essere contestualizzato nel frame dell’interazione sociale quotidiana (a sua volta suddividibile in frame secondari).

La differenza maggiore che intercorre fra le cornici interpretative dell’interazione sociale quotidiana e quelle attivate quando si assiste a una rappresentazione teatrale risiede anche nel fatto che quanto avviene a teatro è il risultato di una pianificazione studiata e fissata per iscritto su un copione appositamente creato. Al contrario, nell’ambito delle relazioni umane tipiche della quotidianità difficilmente si ha un tale livello di pianificazione, se non in minima misura.

Volendo riprendere i termini impiegati nell’ambito della teoria fattorelliana, anche nel caso del teatro si potrebbe parlare di manipolazione che ancora una volta, come abbiamo visto, non assume i caratteri della falsificazione, ma piuttosto della “fabbricazione benigna” proprio perché sostenuta volontariamente dal pubblico che vi assiste. Oggetti, scene ed interazioni rappresentate sul palcoscenico sono delle imitazioni di quanto avviene nella vita umana, o se vogliamo, sono la forma data a ciò di cui narra la rappresentazione: il pubblico ne è consapevole, in quanto capace d’inscrivere il tutto nella cornice teatrale.

In nessun momento il pubblico è convinto che quella sul palcoscenico sia la vita vera. In altre parole, assistere a una rappresentazione teatrale significa accettare d’iscrivere il flusso degli eventi in una specifica cornice, il cui punto cardine risiede nel fatto che attori, regista, drammaturgo e addetti ai lavori dispongono del medesimo bagaglio informativo di conoscenze riguardo a ciò che si apprestano a portare in scena. Quanto accadrà sul palcoscenico è predeterminato e conosciuto da tutti coloro che hanno partecipato all’allestimento dello spettacolo stesso. È proprio questo ciò che caratterizza il diverso tipo di ancoraggio alla realtà della rappresentazione teatrale.

Vita e dramma sono comunque legati. Ciò che va rivisto è il loro rapporto. Nel pensiero comune è la vita che precede il dramma. Goffman ritiene invece che è la rappresentazione teatrale ad essere presa a modello nel corso delle interazioni quotidiane.

Quando l’individuo interagisce con altri soggetti, esso si pone nei loro confronti come se fosse un attore su un palcoscenico: racconta ciò che gli è successo per stimolare risposte e coinvolgimento in chi ascolta, interpretando di volta in volta, ruoli differenti. Lo scopo di chi parla è dunque ottenere l’adesione ai fatti che racconta da parte di chi ascolta. In realtà, non è la sola finalità strumentale, ossia il raggiungimento di un determinato fine, a muovere il soggetto verso gli altri, c’è infatti da considerare anche il condizionamento di come si vuole apparire. Quando un individuo è in presenza di altri ha molte ragioni per cercare di controllare le impressioni che essi ricevono dalla situazione.

C’è una differenza fondamentale fra vita e dramma: la conversazione quotidiana (ma, più in generale, la vita nel “mondo reale”) non è finzione, il che implica un diverso grado di coinvolgimento e di attenzione ai rischi e alle incongruenze che di volta in volta presenta, non potendo ricorrere, come invece accade in teatro, a un copione già scritto. La molteplicità del “self” e la varietà dei gruppi sociali possono aiutare l’individuo a superare le piccole difficoltà insite nell’interazione quotidiana.

La molteplicità del “self”

Quando si parla di molteplicità del “self” ci si riferisce alla multivalenza degli individui, ossia alla loro capacità di scindersi in sottoentità distinte, ognuna delle quali dotata di specifici connettivi e apposite convenzioni, che rendano l’individuo stesso capace di muoversi nell’ambito di contesti comunicativi differenti (famiglia, amici, scuola, lavoro e così via).

Il concetto di molteplicità del “self” si pone all’incrocio delle relazioni che intercorrono tra ruoli, persone, competenze comunicative e contesto. Si prenda l’esempio di un incontro di lavoro: se si ragionasse nei soli termini della libertà individuale, ognuno dei partecipanti potrebbe, apparentemente, esprimersi liberamente. Ma dato che, come detto, l’interazione quotidiana segue il teatro, la situazione in questione richiede uno sviluppo parzialmente previsto e prevedibile. Alcuni tratti comunicativi, cosiddetti situazionali, sono richiesti dal contesto, dal motivo di lavoro che obbliga le persone presenti, attraverso leggi sociali che si presume siano, almeno superficialmente, conosciute dai partecipanti, ad attenersi a norme e consuetudini per partecipare alla riunione medesima.

Queste leggi sociali, che vanno dai registri linguistici usati alle buone maniere, dal vestiario alle norme comunicative gestuali, fino alle espressioni del volto da evitare (ad esempio l’occhiolino al direttore generale non sarebbe apprezzato probabilmente neanche tra amici), generano, come restrizioni strutturate all’agire individuale, in un cervello socialmente adulto ed allenato a simili situazioni, uno script, una struttura in cui tutto è libero, ma rigidamente inquadrato all’interno di un processo comunicativo rigoroso, che prevede alternative e non improvvisazioni, parole adatte e non in libertà.

La medesima funzione può essere chiaramente riconosciuta al copione nel caso della rappresentazione teatrale, pur non trattandosi propriamente della stessa cosa.

Ciò dovrebbe far comprendere come le realtà quotidiane degli individui siano create dall’intricato sistema di regole fisiche, biologiche, psicologiche e sociali, e dal modo in cui i soggetti riescono a comunicare contestualmente in modo appropriato, adeguato a come gli altri partecipanti all’interazione si attendono.

Quello che viene messo in pratica è sia un sapere sociale relativo alle regole conosciute, sia un sapere comunicativo che permette di adattare tutto il nostro repertorio, lo script, fatto di gesti, parole, espressioni, movimenti, alla gamma di attese psicosociali oltre che tecniche che il pubblico, cioè gli altri partecipanti all’interazione in quel momento, desidera percepire nella situazione considerata. Cerimoniale, rituale, lavorativa, di svago o casuale che sia.

Gruppi di “performance” e gruppi di “audience”

È assai improbabile che una rappresentazione teatrale coinvolga solamente due individui (un attore e uno spettatore). Probabilmente, partendo da questo tipo di osservazione, Goffman giunge a pensare la vita sociale in termini di gruppi sociali, distinguendoli in due grandi categorie: i gruppi di “performance” e i gruppi di “audience”. I primi sono assimilabili alla compagnia teatrale, mentre i secondi rappresentano il pubblico.

L’esempio citato da Goffman, quello dei camerieri di un hotel delle isole Shetland (luogo in cui ha svolto la sua ricerca), chiarisce questo aspetto centrale della sua teoria. Il gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico, ossia i clienti del ristorante dell’albergo, inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di “palcoscenico” (sala da pranzo), dove il pubblico è presente. Nello spazio di “retroscena” (cucina), nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso.

La vita sociale si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non “recitano”, e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione. Naturalmente, il comportamento nel retroscena contraddice il comportamento pubblico: una persona insicura, ad esempio, può assumere in pubblico un atteggiamento spavaldo, e mostrarsi invece vulnerabile nel retroscena (ad esempio in famiglia). La vita sociale si fonda dunque sulla demarcazione dei confini tra palcoscenico e retroscena. Questo significa che il gruppo di “audience” non deve e non può avere accesso alle situazioni di retroscena che contraddicono il comportamento pubblico del gruppo di “performance”.

Prima di continuare il discorso sui gruppi è doveroso fare un’osservazione, sollecitata dallo stesso esempio di Goffman, circa la minore aderenza dell’interazione quotidiana al principio di realtà rispetto al teatro. Infatti, mentre nella rappresentazione teatrale l’evidente distinzione tra pubblico e attori (una convenzione rafforzata anche da una serie di segnali fisici, quali la distanza tra platea e palcoscenico, l’apertura e la chiusura del sipario, lo spegnimento delle luci e così via), permette d’incorniciare immediatamente la situazione nel “frame” teatrale, nell’interazione quotidiana, nello specifico quella del ristorante, la mancanza di convenzioni e segnali forti rende più complessa l’operazione di “framing”. Solo attraverso il ricorso alla “metafora drammaturgica” è possibile semplificare parzialmente l’operazione di ancoraggio alla realtà.

Collante interno ai due gruppi individuati da Goffman è la condivisione degli spazi di retroscena, ossia dei luoghi in cui vengono preparate le rappresentazioni pubbliche. Condividere il retroscena, però, significa soprattutto conoscere i “segreti distruttivi” del gruppo, cioè quei segreti che, portati all’esterno, renderebbero la rappresentazione poco credibile. Tornando perciò all’esempio dei camerieri, secondo quanto appena detto, appartengono al gruppo tutti coloro che sanno quello che i camerieri fanno nel retroscena della cucina. Se un cameriere si mettesse a raccontare al pubblico dei clienti i segreti del gruppo – il modo in cui preparano le portate, il modo in cui mangiano o in cui deridono i clienti – questo verrebbe distrutto, perché la sua rappresentazione apparirebbe come una falsificazione poco credibile.

I segreti del gruppo devono quindi rimanere al suo interno e per questo stesso motivo, il gruppo deve comprendere, per definizione, tutte le persone che sono a conoscenza di questi segreti. Per quanto ascrivibili a due sole categorie, il numero dei gruppi a cui un individuo può appartenere è pressoché illimitato (famiglia, gruppo d’amici, categoria professionale, associazione, circolo informale e così via). Ciò significa che l’individuo, a seconda delle situazioni, può appartenere, sia a gruppi di performance che a gruppi d’audience, può essere cioè sia promotore che recettore d’informazione, nel complesso reticolato del tessuto sociale. L’informazione finisce per configurarsi come una risorsa strategica e come criterio di differenziazione.

Oltre il senso del luogo

L’informazione a cui si fa qui riferimento è intesa nei termini di “informazione sociale”, ossia tutto ciò che gli individui sono in grado di conoscere sul comportamento e sulle azioni proprie e degli altri, attraverso l’apprendimento dagli atti comunicativi. È un tipo d’informazione che arriva in molti modi (parole, gesti, abbigliamento, ritmi di lavoro) e che è profondamente legata al comportamento sociale. Perciò anche lo scambio sociale più banale può essere considerato un sistema informativo, dal momento in cui si tratta di un modello di accesso alle informazioni sociali, un modello di accesso al comportamento di altre persone.

Partendo da questo assunto è possibile rintracciare il continuum, piuttosto che la dicotomia, che esiste tra l’interazione faccia-a-faccia e le interazioni mediate. Di conseguenza, saranno molto più numerose le analogie che le non differenze fra il flusso informativo tramite i media ed il flusso informativo negli ambienti fisici. Infatti, diretti o mediati che siano, i modelli di flusso informativo contribuiscono a definire la situazione ed i concetti di stile e di azione appropriati. Automaticamente, questo non significa che l’introduzione e la diffusione di nuovi mezzi di comunicazione non produca nessun tipo di cambiamento, anzi; ogni volta che un nuovo mezzo di comunicazione ha fatto la sua comparsa, è cominciata ad emergere tutta una gamma di nuove situazioni e di nuovi comportamenti sociali.

Di questo avviso è il sociologo americano Joshua Meyrowitz, autore dell’ultima grande teoria mediologica sulla televisione. Partendo dal superamento della teoria di Goffman, Meyrowitz sostiene che la televisione ha completamente rimosso le barriere tra palcoscenico e retroscena, rendendo visibili tutti gli anfratti più nascosti della società.

Oggi, attraverso la televisione (per non parlare della rete), è possibile conoscere il retroscena dei gruppi a cui non si appartiene: ad esempio, non è più necessario essere un medico per conoscere i segreti distruttivi della categoria dei medici, perché questi vengono mostrati a tutti dalla televisione.

Si può concordare o meno con il sociologo americano quando afferma che non esiste più identità tra luogo e informazione, come quando le notizie di retroscena circolavano, appunto, solo nel retroscena, perché la televisione ha illuminato (o eliminato) tutti i retroscena. È chiaro però che, non riconoscendo il carattere di mascheramento delle interazioni, di qualunque natura esse siano, è come se non si riconoscesse il carattere opinante dei soggetti coinvolti negli scambi informativi. Forse sarebbe più giusto ed opportuno riconoscere che la dinamica sociale dipende sempre più dal modo in cui vengono distribuite le risorse strategiche dell’informazione.

Conclusioni

Affrontare le interazioni ordinarie in termini di schemi interpretativi consente agli individui di connotarle come processi di framing, di cui si serviranno per incasellare e comprendere la realtà che li circonda. Le narrazioni di fatti si configurano come modelli di ancoraggio alla realtà che, con il tempo, si cristallizzano, sedimentandosi fra le risorse cognitive e culturali condivise dalle comunità sociali. In particolare, questo è ciò che accade quando oggetto d’interazione sono i fatti d’opinione proposti dai media. La narrazione consente di dare una risposta a due esigenze fondamentali che l’uomo manifesta durante le interazioni: da una parte serve a dare ordine e coerenza con i quali affrontiamo meglio il flusso di eventi che ci circonda; dall’altra, presentarsi come narratore ad altri soggetti, consente all’individuo di essere accettato con credibilità, simpatia, coinvolgimento da chi ascolta. Ancora una volta dunque, si manifesta l’inevitabile sovrapposizione tra vita e teatro, dato che la forma narrativa è quella prediletta anche dalle rappresentazioni teatrali. Configurare l’esistenza alla stregua del dramma teatrale e quindi, di conseguenza, operare un mascheramento delle informazioni sociali, consente di facilitare le procedure di ancoraggio alla realtà di chi ascolta. Questo perché, evidentemente, dato che la realtà non può essere predeterminata, risulta essere troppo complessa da comprendere così com’è. In fondo, è questo ciò che chiediamo quando ci ritroviamo nel ruolo di pubblico, gruppo di “audience”: sia che si tratti di una narrazione ordinaria, sia che si tratti di una narrazione mediata, colui che si fa promotore dell’informazione deve intervenire con una qualche forma di manipolazione.

Hippie, utopia di rivoluzione

Università di Urbino – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Esame di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Hippie, utopia di rivoluzione”

di Claudia Dondi

Stati Uniti d’America: siamo agli inizi degli anni Sessanta, anni dell’ “American Dream”, il sogno americano, anni in cui è vincente lo stereotipo della famiglia felice composta da due giovani, belli e puliti, con due bambini, altrettanto belli e puliti, che vivono in una villetta, con cane, gatto e giardino, televisore (sempre acceso) in salotto e macchinona nel garage. Per loro, ovviamente, un roseo futuro all’orizzonte. A svegliare tutti arriva il Vietnam: gli americani vanno in guerra.
Gli “hippie”, o i “flower children”, colgono l’artificiosità del modello proposto dalla società, si rendono conto che la felicità è contrabbandata e mascherata dal comfort, mettono a fuoco la monotonia del vivere quotidiano e svelano il più radicato tabù della società borghese: il sesso.

Si spogliano, non solo fisicamente, di tutti gli stereotipi e fondono la cultura insieme alla politica, insieme alla musica, insieme all’arte.

La loro filosofia si basa semplicemente sul rifiuto della società capitalistica e del benessere, sulla volontà di costruire un mondo fondato su alti valori, che non hanno nulla a che fare con i dollari e gli status symbol. Il movimento hippie,sorge sulla costa occidentale degli Stati Uniti all’ insegna del pacifismo, delle filosofie orientali e dei grandi raduni musicali.

Il nome di questo movimento deriva da un termine gergale nero, “hip” (o nella forma alternativa “hep”) che, apparso per la prima volta nei primi anni del 20° secolo, significa “consapevolezza dei fatti”, in pratica descrive “uno che la sa lunga”, “che ha mangiato la foglia”, che ha capito o pensa di aver compreso le brutture e le nefandezze della società e cerca ora un modo alternativo per non far più parte di questo meccanismo perverso, evitando di unirsi al coro dei più, considerati corrotti e spregiudicati. Hippie, “figli dei fiori”, il flower power contrapposto al potere delle armi, il rifiuto delle logiche economiche e politiche prevalenti.

Protestano contro la divisione del mondo in due parti,quello capitalista e quello comunista, il consumismo, il conformismo, le discriminazioni razziali, le tendenze imperialistiche della politica statunitense. In antitesi a tutto ciò esaltano il corpo e la libertà sessuale, l’unione con la natura, di cui i fiori diventano il simbolo, la libertà e la pace. Fanno uso sia di droghe leggere come Hashish e Marjuana, sia di allucinogeni come l’Lsd, poiché ritengono che gli effetti prodotti da queste sostanze liberino la psiche.

Sono alla ricerca di una soluzione esistenziale alternativa all’integrazione sociale, sfociata nella formazione di comunità basate sulla non violenza, in rapporto con la natura, l’abbandono al flusso delle cose, in base all’ideale dell’io-tutto preso a prestito dallo Zen. Alla ricerca della felicità terrena, in continuo viaggio, col classico furgoncino Volkswagen o in viaggio con la mente in un mondo virtuale, ma finalmente nuovo e puro, scevro da canoni e costrizioni.

La “rivolta” hippie segnò la storia dei nostri tempi, concorrendo ad una rivoluzione culturale che si affermò e si diffuse ben oltre il contesto territoriale e sociale in cui ebbe origine, modificando idee, ordinamenti sociali, costumi di vita ed influendo anche sugli orientamenti politici internazionali.

L’affermazione degli ideali pacifisti, dei metodi non violenti, dei diritti civili, di una concezione meno formalistica della famiglia, di una maggiore tolleranza nei confronti della diversità e delle scelte sessuali individuali, il contributo di creatività arrecato dagli hippies alle arti rappresentative e performative (teatro, cinema e pittura), alla musica, con la riscoperta della folk music, del blues e del jazz (e, soprattutto, con il grande raduno di Woodstock nel 1969, ancora oggi una pietra miliare nella storia del rock) deve far comprendere che hippie è tanto altro oltre a capelli lunghi e spinello…

Hippie, “figli dei fiori”, il flower power contrapposto al potere delle armi, il rifiuto delle logiche economiche e politiche prevalenti. Si diffonde l’amore, inteso come modo di porsi di fronte alle cose, alle persone, al sesso, alla vita. Raccolgono seguaci in tutto il mondo, milioni di giovani restano affascinati dall’approccio liberatorio verso la vita.

I portavoce sono le rockstar, icone di una musica e uno stile di vita immortale, vite bruciate troppo presto dalla droga e dagli eccessi. Da tutto il mondo, coloro che si sentono partecipi a queste idee, si radunano in modo spontaneo e inarrestabile. Sono musicisti, poeti, scrittori, insegnanti, a cui si uniscono pure nullafacenti, imbroglioni e semplici sognatori. La ‘rivoluzione dell’amore’ dilaga. Su questa onda di entusiasmi si approda senza soluzione di continuità al 1967, i cui primi mesi condussero inesorabilmente alla celebre “Summer of Love”, estate dell’amore.

Il 14 gennaio 1967 l’enorme raduno all’aperto di San Francisco rese popolare la cultura hippy in tutti gli Stati Uniti, richiamando 20.000 persone al Golden Gate Park. Il 26 marzo, Lou Reed, Edie Sedgwick e 10.000 hippie si raccolsero a Manhattan per il “Central Park Be-In on Easter Sunday”(invasione pacifica di Central Park durante il giorno di Pasqua). Il Monterey Pop Festival dal 16 al 18 giugno diffuse la musica rock della controcultura ad un vasto pubblico e segnò l’inizio della “Summer of Love”. La versione di Scott Mackenzie della canzone di John Phillips San Francisco, divenne un enorme successo negli Stati Uniti e in Europa.

3.5, Monterey International Pop Festival
June 16-17-18, 1967

Il testo, If you’re going to San Francisco, be sure to wear some flowers in your hair cioè “Se stai andando a San Francisco, assicurati di indossare dei fiori nei tuoi capelli”, convinse migliaia di giovani di tutto il mondo a recarsi a San Francisco, a volte portando fiori tra i capelli e distribuendoli ai passanti, guadagnandosi il nome di “Flower Children”.

Gruppi come i Grateful Dead, la Big Brother and the Holding Company con Janis Joplin e i Jefferson Airplane continuarono a vivere ad Haight, il quartiere dove si stabilì la maggiorparte dei giovani convenuti all’evento. Per quanto riguarda questo periodo della storia, il 7 luglio 1967 la rivista Time si presentò con una copertina intitolata “Gli Hippy: La filosofia di una subcultura”.

L’articolo descriveva le linee guida del codice hippy: “Fai le tue cose, ovunque devi farle e ogni volta che vuoi. Ritirati. Lascia la società esattamente come l’hai conosciuta. Lascia tutto. Fai sballare qualsiasi persona normale con cui vieni in contatto. Fagli scoprire, se non la droga, almeno la bellezza, l’amore, l’onestà, il divertimento”. Si stima che circa 100.000 persone si siano recate a San Francisco nell’estate del 1967. I mezzi di informazione li seguirono, rivolgendo i riflettori sul distretto di Haight-Ashbury e rendendo popolari i costumi hippie.

Con questa maggiore attenzione, gli hippy trovarono sostegno per i loro ideali di amore e di pace, ma furono anche criticati per le loro lotta contro il lavoro e pro-droga, e per la loro etica permissiva. Timori riguardo alla cultura hippy, in particolare per quanto riguarda l’abuso di droga e l’assenza di moralità, alimentarono le ansie morali della fine del decennio. Si verificò una incessante copertura mediatica che portò i Diggers di san Francisco a dichiarare la “morte” degli hippy con una cerimonia-spettacolo. Il 6 ottobre 1967 tutte le comuni hippie situate nel circondario di San Francisco si radunano in città. Una moltitudine di ragazzi e ragazze vestiti a lutto si avvia in un lungo e silenzioso corteo che percorre le vie principali.

Ai bordi delle strade percorse dalla singolare processione altri ragazzi distribuiscono volantini che spiegano ai passanti come tutte le comuni abbiano deciso di celebrare “la morte degli hippie”. Il movimento hippie fa il funerale a se stesso per protestare contro lo sfruttamento commerciale della sua immagine, delle sue idee e della sua stessa esistenza. «Questo mondo non ci piace. Siamo nati per cambiarlo e il consumismo ha scoperto che anche la nostra voglia di cambiamento può diventare merce. Per questo il movimento è morto e oggi lo accompagnamo nel suo ultimo viaggio». Basta guardarsi intorno per capire quali siano i fenomeni cui fanno riferimento i ragazzi delle comuni. Le vetrine di San Francisco, i bar, i ritrovi, tutto è stato colorato da fiori.

La scritta “Peace and love” campeggia su un numero impressionante di oggetti e capi di vestiario in vendita. A partire dall’aprile di quell’anno la Greyhound, la più famosa compagnia statunitense di pullman, ha addirittura inaugurato un singolare giro turistico tra le varie comuni hippie di S. Francisco. «Adesso basta, non si possono vendere le idee». Un movimento culturale ed esistenziale nato dalla ribellione al consumismo sta diventando esso stesso oggetto di consumo. Secondo il poeta epigono Stormi Chambless, l’effige di un hippie venne seppellita nel Golden Gate Park a dimostrazione della fine del suo regno. Al di là del gesto simbolico, il funerale segnerà davvero la fine di una fase nella storia degli hippies. Il Flower Power, come lo definiscono i media, non ce la fa; non conquista il Potere, forse perché non era quello che interessava, non era quello che volevano i “figli dei fiori”.

O, forse, perché parole come Pace e Amore cominciavano ad essere una minaccia per l’America, impegnata nelle guerre contro Vietnam e Cambogia, in rapporti tesi con l’Unione sovietica, con conflitti razziali interni e con presidenti e predicatori assassinati. Il trasgressivo slogan dei Figli dei fiori è stato: Fate l’amore, non fate la guerra. Ma la storia e gli eventi lo capovolsero in Non fate l’amore, fate la guerra. Purtroppo, così fu. Il movimento si spezzerà in due tronconi. Uno, sull’onda del “flower power”, finirà per rifugiarsi sempre più in una sorta di individualismo di massa finalizzato alla felicità interiore e lontano dalle questioni sociali.

L’altra scoprirà la politica e affiancherà l’impegno alle esperienze di vita comunitaria finendo poi per confluire nelle grandi battaglie pacifiste e per i diritti civili che di lì a poco infiammeranno gli States.

Conclusioni

Per dirla con il Professor Fattorello, voglia perdonare il tono confidenziale che uso in quanto condivido appieno la Sua teoria, il movimento hippie si disgrega, anzi, decide spontaneamente di autodisgregarsi, a seguito di un attacco strenuo e feroce da parte dei media.

I soggetti promotori dell’informazione si discostano eccessivamente da quel che costituisce “il punto x)” del processo di informazione. E’ risaputo ovviamente che “il fatto, l’ideologia o il personaggio di cui si parla resta fuori dal processo” ma in questo caso, è mia opinione pensare che la “O” di questo particolare processo informativo si sia scorporata completamente dalla x) portando ad un travisamento della stessa. La “O”, che non è altro che la rappresentazione che il soggetto promotore dell’informazione propone al soggetto recettore della stessa, è stata snaturata delle sue parti essenziali.

Probabilmente a causa dell’opinione pubblica dell’epoca – la quale tendeva a non “guardare di buon occhio” le idee e le innovazioni di una subcultura come quella hippie – i testi e le immagini che sono parse più opportune agli informatori dell’epoca sono state proprio quelle che più contrastavano una delicata filosofia come quella hippie. Delicata in quanto, ponendosi come a – politica, non si basava, rispetto all’opinione comune di quegli anni, su fondamenta logiche e storiche abbastanza solide, in anni in cui qualunque minimo e timido tentativo di emergere dalle idee di massa veniva immediatamente sottoposto a tentativi di classificazione in categorie pre – esistenti.

La cultura hippie dopo essere stata fraintesa è stata travisata al fine di poter essere strumentalizzata in una scontata macchina per fare soldi a causa probabilmente della necessità di catalogare quello che invece non vuole e non può essere catalogato ed opinato, qualcosa che si poneva come rottura dei canoni e delle categorie, qualcosa che rappresentava tutto e il contrario di tutto e che ovviamente ci poneva di fronte alla nostra innata paura dell’ignoto.

Il RadioGiornale analizzato con la formula di Fattorello

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea Specialistica in Editoria Media Giornalismo – TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il RadioGiornale analizzato con la formula di Fattorello”

a cura di Chiara Vannoni

STORIA DELLA RADIO IN ITALIA

La storia del giornalismo radiofonico nel nostro Paese ha dovuto far fronte, ai suoi esordi, alla concorrenza con il consolidato giornalismo della carta stampata, per poi dover combattere con quello televisivo a partire dagli anni Cinquanta. Inoltre, per alcuni decenni, il giornalismo radiofonico in Italia coincide con il “giornalismo di Stato”. Nei suoi primi anni di vita la radio diventa uno strumento fondamentale per la diffusione delle cronache di guerra. In particolare, con l’impresa bellica in Etiopia, nel 1935, le cronache di regime sono una delle realizzazioni più efficaci dell’informazione radiofonica di questo periodo.

A ciò si affiancano altre rubriche, come la cronaca sportiva e la radiocronaca. Il 10 febbraio 1935 si inaugura il servizio radiofonico in collegamento con l’Estremo Oriente. Dopo l’entrata in guerra, il 10 giugno 1940 tutta la programmazione radiofonica viene utilizzata per far passare le parole d’ordine del regime.

All’inizio del ’43, in seguito alla divisione del Paese in due parti, accanto alle strutture radiofoniche che seguono il regime al Nord, nasce il servizio radiofonico dell’Italia liberata: Radio Bari, Radio Napoli, Radio Roma e la RAI, nata dopo la liberazione di Roma. La radio, quindi, diventa il campo di battaglia di due voci dissonanti: una che persevera nella propaganda fascista, l’altra che contribuisce alla caduta del regime. L’ascolto clandestino di massa delle emittenti alleate e nemiche fu una delle cause più evidenti della caduta dello spirito pubblico in Italia nei mesi che precedono la caduta del fascismo.

Dalla fine della guerra all’avvento della TV, la radiofonia in Italia subisce un’enorme trasformazione. Nei primi anni ’70 la radio sembra attraversare un periodo di stasi. La riforma della RAI nel 1975, che sancisce il pluralismo dell’emittenza radio-televisiva, mette fine per la prima volta al tradizionale centralismo dell’azienda e apre la strada al rinnovamento. Ma un nuovo ostacolo sembra frapporsi sulla sua strada. Con l’ondata della libertà d’antenna, emergono in pochi anni centinaia di stazioni e il modo di ascoltare e fare radio ancora una volta si modifica.

Sempre maggiore importanza assume la determinazione dei palinsesti per la riqualificazione e la conquista del pubblico. Nascono le tre reti e le tre testate radiofoniche: Radiouno, Radiodue, Radiotre con i rispettivi GR1, GR2, GR3.

Negli anni ottanta, in una situazione normativa tutt’altro che semplice e definita, con il diffondersi delle radio private l’ascolto della RAI nel suo insieme conosce un effettivo declino. I network privati crescono sorprendentemente e affinano sempre più le proprie capacità tecniche.

La radio degli anni ’90 ha scritto un nuovo capitolo della sua storia, mostrandosi più che mai adatta al connubio con la crescente rete Internet. Il Giornale Radio RAI è su Internet dal 19 febbraio 1996, prima testata giornalistica RAI in rete. Obiettivo primario è fornire un prodotto giornalistico nuovo, utilizzando Internet come fonte di informazione e come strumento di ricerca e di approfondimento delle notizie trasmesse attraverso la radio.

LA FORMULA FATTORELLIANA

Analizzerò la formulazione di un notiziario Radio secondo la Tecnica Sociale Fattorelliana, la quale spiega con una semplice e altrettanto esaustiva formula quali siano le correlazioni tra i vari fattori che operano in ogni processo di informazione.

Esiste un Soggetto Promotore, il quale interpreta secondo la propria visione soggettiva un fatto, un’informazione, che chiameremo “X”. Questa X nel nostro caso è il notiziario, un ‘pacchetto’ contenente notizie, interviste, approfondimenti e servizi. Infatti seppure la costruzione del GR segua uno schema logico, l’ordine delle notizie e la scrittura sono estremamente soggette a chi le compie, secondo appunto la visione soggettiva del giornalista.

Il Soggetto Promotore trasmette l’informazione usando un mezzo che nel nostro caso è il canale delle onde radio, per comunicare questo messaggio ad un Soggetto Recettore, ovvero chi è in ascolto. Inoltre il Soggetto Promotore elabora l’informazione usando un modo di raccontare l’accaduto, che può essere dato sia da una forma di scrittura che da una particolare intonazione che da più o meno senso alle parole che si stanno leggendo. Questo elemento si chiama “Formula d’Opinione” e varia a seconda del destinatario al quale va il messaggio. Infatti il Soggetto Promotore non può avere la presunzione di scrivere come se stesse stilando un diario personale, o leggere senza particolare intonazione e che un pubblico indistinto debba riuscire a capire ciò che scrive.

A seconda del Soggetto Recettore la Formula d’Opinione e il Mezzo varieranno.

In questo modo le due parti coinvolte nel processo di informazione assumono una pari dignità. Il Soggetto Promotore racconta, il Soggetto Recettore riceve il rapporto d’informazione nei modi e con i mezzi che a questo si adattano maggiormente. Come detto in precedenza, molto importante è l’uso di termini appropriati ma al tempo stesso facilmente conoscibili da un vasto numero di persone. Perchè non bisogna dimenticare che la radio arriva ad ogni genere di personalità senza distinzione di classe sociale e sopratutto cultura.

Per comprendere correttamente i contenuti il Soggetto Recettore rielabora a sua volta l’informazione ricevuta appunto secondo la sua percezione della realtà. Questo diviene così Soggetto Promotore instaurando un nuovo rapporto d’informazione verso altri Soggetti Recettori con Mezzi e modalità (M ed O) consoni a questi ultimi, e così via. In questo modo si costruisce la rete dell’informazione rispetto a un determinato fatto e per un determinato gruppo di persone tra loro legati da rapporti d’informazione.

Da ciò deriva il nome di Tecnica Sociale dell’Informazione.

Teatro e Vita – da semplici spettatori a soggetti di uno spettacolo

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Esame di TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Teatro e Vita – da semplici spettatori a soggetti di uno spettacolo”

a cura di Cora Spalvieri

“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! e come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci, non ci intendiamo mai!” (Pirandello L., Sei personaggi in cerca di autore)

Vita nel teatro. Persone che con le loro capacità ci affascinano recitando una parte. Ci mostrano una realtà che sappiamo non essere realtà, ma pura finzione. Una rappresentazione su un palcoscenico fatta da attori con in mano un copione. Battute imparate a memoria, recitate più o meno bene dinanzi a noi,  gente che spesso per loro non ha nemmeno un volto né identità. Ma deve essere per forza così? 

Teatro nella vita. Noi uomini che ogni giorno indossiamo una maschera e recitiamo una parte diversa per gli altri, il nostro pubblico, che a sua volta recita una parte diversa per noi, il loro pubblico. Stabiliamo relazioni sulla base di queste finzioni e inganniamo il nostro pubblico mostrando una realtà che è pura falsità. 

IL PUBBLICO PARTECIPANTE

Teatro e vita,  palcoscenico e platea, attori e pubblico. Binomi indissolubili all’interno di questo mondo che è la finzione teatrale. Da una parte protagonisti che lanciano dei messaggi, dall’altra uomini che ascoltano delle storie. Tra queste due entità la quarta parete.

La quarta parete fa parte della sospensione del dubbio, cioè nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un’opera di fantasia. È quella parete immaginaria, inventata dal teatro naturalista, che separa gli attori dal pubblico, costretto quasi a “spiare” quanto avviene in scena. Il pubblico, in questa ottica, accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali. Insomma questa parete, anche se immaginaria, separa attori e uditori, lo spettacolo dagli spettatori.

Ma nessuno dovrebbe essere marchiato del ruolo di protagonista attivo, e nessun altro di quello di recettore passivo. I ruoli si scambiano, si interagisce. Solo così si stimola il proprio pubblico ad ascoltare. 

Pirandello parla pertanto di infrangere la quarta parete, abbandonare la convenzione di separatezza  per il coinvolgimento fisico o emozionale del pubblico. Se tutto il mondo infatti è un enorme teatro non ha senso isolare il palcoscenico dal resto del teatro e della platea. Quest’ultima non deve essere più passiva,  poiché rispecchia la propria vita in quella rappresentata dagli attori sulla scena. Il pubblico viene così coinvolto non solo emotivamente, ma viene sollecitato anche a fornire risposte utili a completare o integrare il dramma. Ciascuno spettatore viene invitato a risolvere da solo i problemi lasciati insoluti dall’autore e dalla rappresentazione che di fatto diventa mille, diecimila, centomila quanti sono i fruitori.

Accade quindi che il palcoscenico pirandelliano diventi arena di scontro fra diverse realtà, tutte fortemente fondate e credibili. Il personaggio di Pirandello, diversamente da quello tradizionale che chiede allo spettatore unicamente di identificarsi in lui, apre un continuo e  incessante dibattito con il pubblico, stimolandolo ad una riflessione critica, ad un consenso e a volte dissenso sulle tesi che si dibattono attraverso l’azione scenica.

Lo spettatore è chiamato a “partecipare” in modo nuovo, a “entrare in scena” anche lui.

Esempio tipico è “Ciascuno a suo modo”, opera dello stesso Pirandello, dove si incastrano tre diversi piani prospettici: quello della vita reale, quello della rappresentazione scenica, e quello degli spettatori. 

Questa scelta di Pirandello significa intenzione di abolire la separazione tra arte (teatro) e vita (pubblico) e di mescolarle continuamente.

È vero che l’immaginaria linea di separazione tra attore e spettatore permette al pubblico di inserire ciò che vede nella cornice interpretativa della finzione, ossia della narrazione di eventi immaginari, ma è pur vero che l’attore non ha a che fare con un pubblico immobile e senza pensieri, lì seduto a recepire ogni messaggio già modellato e preparato ad hoc per lui, ma ha dinanzi un pubblico con un’anima e con una visione del mondo, un pubblico capace di interpretare la realtà secondo una sua propria visione.

Ecco allora un teatro che accoglie un continuo dibattito di idee, che abolisce il confine tra scena e platea, un teatro in cui lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda.

È questo un teatro dove viene esorcizzata la passività del pubblico, cosicché lo spettatore, non più chiamato a ricevere un messaggio preconfezionato, diventi soggetto attivo inserito in un processo di creazione collettivo. 

Teatro dunque visto come evento e non come riproduzione di eventi; un avvenimento vissuto realmente da una collettività, attraverso una partecipazione tanto profonda all’evento teatrale da divenire vera e propria esperienza reale, quasi “una rappresentazione che si nega come rappresentazione, un teatro dove tutti sono attori”.

Partendo da queste considerazioni il teatro non può continuare ad essere visto come un mero contenitore culturale, il teatro è vita, è pubblico. Attore e spettatore devono essere legati da una particolare relazione, simultanea e diretta. Senza pubblico non c’è teatro.

Per troppo tempo il pubblico è stato ignorato, e ancora oggi spesso è considerato come uno spettatore passivo, senza pensieri e capace solo di assistere ad uno spettacolo. Non siamo ancora fuori dal “teatro della quarta parete”, ma bisogna cercare di sfondare questo muro. Perché seduti in platea ci sono pensieri, idee e opinioni, soggetti recettori di messaggi che vogliono potersi esprimere. 

LA VITA E’ UNA CONTINUA RECITA

L’idea secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini di una rappresentazione teatrale non è affatto nuova. Erving Goffman, nell’opera del 1956 “La vita quotidiana come rappresentazione”, sostiene il punto di vista della “metafora drammaturgica” proponendo numerosi spunti di riflessione sui parallelismi che legano la vita quotidiana, in particolare le interazioni faccia-a-faccia, all’ambito delle rappresentazioni teatrali.

Partendo dal presupposto di considerare la rappresentazione teatrale come un processo informativo, nel senso di un “dare forma” a qualcosa da parte di qualcuno (attori da palcoscenico) verso qualcun altro (pubblico), si possono fare tutta una serie di considerazioni.

Innanzitutto, rispetto all’interazione diretta, il teatro pare essere, paradossalmente, esente da simulazioni volte ad ingannare. Questo perché il teatro gode di un particolare ancoraggio al principio di realtà, che è una differenza a livello di “frame” con le interazioni sociali quotidiane. L’introduzione del “frame” è funzionale per la comprensione del fatto che nel momento in cui il pubblico degli spettatori entra a teatro e prende posto in platea, è comunque in grado di attuare un processo che inscrive tutto quanto quello che sta per accadere sul palcoscenico all’interno di una specifica “cornice” che sarà quella teatrale. Qualsiasi altra cornice verrà perciò esclusa. Saranno gli applausi finali, seguiti dalla chiamata sulla ribalta, a chiarire definitivamente che la rappresentazione teatrale è finita e che tutto ciò che accadrà da quel momento in poi dovrà essere contestualizzato nel frame dell’interazione sociale quotidiana.

Nell’impianto teorico di Goffman riguardo la vita comune, veniamo a trovare attori, palcoscenici, pubblico, quel che manca è un copione fisso. L’idea di Goffman  è che i gruppi sociali si dividano in due categorie: i gruppi di “performance” e i gruppi di “audience”. Infatti è  improbabile che una rappresentazione teatrale coinvolga solamente due individui (un attore e uno spettatore), pertanto, partendo da questo tipo di osservazione, Goffman giunge a pensare la vita in termini di gruppi sociali, distinguendoli appunto nelle categorie già citate: gruppi di “performance” e gruppi di “audience”. I primi sono assimilabili alla compagnia teatrale, mentre i secondi rappresentano il pubblico. La vita per Goffman è quindi una rappresentazione che i gruppi sociali mettono in scena di fronte ad altri gruppi. Per chiarire meglio il concetto Goffman cita l’esempio dei camerieri in un hotel delle isole Shetland (dove aveva svolto la sua ricerca).  Il  gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico, i clienti del ristorante, inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di palcoscenico, la sala da pranzo, dove il pubblico è presente. Nello spazio di retroscena invece, nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso. La vita sociale, quindi, si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non “recitano”, e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione.

Prima di continuare il discorso sui gruppi è doveroso fare un’osservazione, sollecitata dallo stesso esempio di Goffman, circa la minore aderenza dell’interazione quotidiana al principio di realtà rispetto al teatro. Infatti, mentre nella rappresentazione teatrale l’evidente distinzione tra pubblico e attori, permette d’incorniciare immediatamente la situazione nel “frame” teatrale, nell’interazione quotidiana, nello specifico quella del ristorante, la mancanza di convenzioni e segnali forti rende più complessa l’operazione di “framing”.

Torniamo ai gruppi. Il loro collante interno è la condivisione degli spazi di retroscena, ossia dei luoghi in cui vengono preparate le rappresentazioni pubbliche. Condividere il retroscena, però, significa soprattutto conoscere i “segreti distruttivi” del gruppo, cioè quei segreti che, portati all’esterno, renderebbero la rappresentazione poco credibile. Tornando perciò all’esempio dei camerieri, secondo quanto appena detto, appartengono al gruppo tutti coloro che sanno quello che i camerieri fanno nel retroscena della cucina. Se un cameriere si mettesse a raccontare al pubblico dei clienti i segreti del gruppo, quest’ultimo verrebbe distrutto, perché la sua rappresentazione apparirebbe come una falsificazione poco credibile.I segreti del gruppo devono quindi rimanere al suo interno e per questo stesso motivo, il gruppo deve comprendere, per definizione, tutte le persone che sono a conoscenza di questi segreti. 

Per quanto ascrivibili a due sole categorie, il numero dei gruppi a cui un individuo può appartenere è pressoché illimitato (famiglia, gruppo d’amici, categoria professionale, associazione, circolo informale e così via). Ciò significa che l’individuo, a seconda delle situazioni, può appartenere, sia a gruppi di performance che a gruppi d’audience, può essere cioè sia promotore che recettore d’informazione, nel complesso reticolato del tessuto sociale. L’informazione finisce per configurarsi come una risorsa strategica e come criterio di differenziazione. 

Da quanto visto Goffman sembra prendere in considerazione tutti gli elementi della recita: un attore (un uomo comune) svolge la sua parte in un’ambientazione teatrale (qualsiasi luogo nel quale ha bisogno di inscenare una nuova realtà, o identità) che si compone di un palcoscenico e di un retroscena. In questa interazione i vari elementi del gioco s’influenzano e sostengono reciprocamente, infatti l’attore è osservato da un pubblico, ma al contempo egli è un pubblico per la “parte recitata” dai suoi stessi spettatori. Sì, perché nelle interazioni, o rappresentazioni che dir si voglia, i partecipanti possono essere simultaneamente attori e pubblico. Gli attori di solito tentano di far prevalere quelle immagini di loro stessi che li pongono favorevolmente in luce, ed incoraggiano gli altri soggetti, in vario modo, ad accettare la loro definizione della situazione inscenata.

CONCLUSIONI

Dal teatro alle interazioni sociali, dal palcoscenico agli uomini, comunicare è mettere in relazione. 

E mettere in relazione vuol dire che vi sono due o più soggetti che tra di loro scambiano parole, idee, significati.

Come già visto la differenza maggiore che intercorre fra le cornici interpretative dell’interazione sociale quotidiana e quelle attivate quando si assiste a una rappresentazione teatrale risiede nel fatto che quanto avviene a teatro è il risultato di una pianificazione studiata e fissata per iscritto su un copione appositamente creato, è una falsificazione benigna della realtà, o meglio si parla di finzione. Al contrario, nell’ambito delle relazioni umane tipiche della quotidianità difficilmente si ha un tale livello di pianificazione, se non in minima misura, e non sempre siamo in grado di capire in quale frame interpretativo dobbiamo inserire ciò che viviamo, vediamo o ascoltiamo. 

Ma comunicare è essere attivi in questo processo di scambio continuo che è la vita, sia quella della finzione teatrale che quella nella vita reale. 

Gli interlocutori di una comunicazione hanno pari dignità.

È quello che Fattorello ci dice con la sua Teoria della tecnica sociale dell’informazione: il soggetto recettore del messaggio non deve più essere considerato mero soggetto passivo nei fenomeni  dell’informazione, ma soggetto che interagisce con tutti gli elementi del rapporto, al fine di migliorare sempre più le possibilità di dialogo tra promotore e recettore. 

Soggetto promotore e soggetto recettore sono quindi entrambi soggetti opinanti, soggetti che percepiscono il mondo in mille modi differenti  ed espongono agli altri la propria percezione e così: la percezione alimenta l’esperienza, l’esperienza condiziona la percezione.

Soggetto promotore e soggetto recettore nell’informazione contingente: un rapporto in evoluzione

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” – URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Tecniche di Relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Soggetto promotore e soggetto recettore nell’informazione contingente: un rapporto in evoluzione”

a cura di Claudia Pasulo

Se oggi studiando la teoria di Francesco Fattorello riconosciamo la portata rivoluzionaria delle sue idee, è perché quando esse cominciarono a circolare, ovvero dal 1947 in poi, ancora prevalevano una serie di pregiudizi secondo i quali i mezzi di informazione potevano subdolamente manipolare le coscienze degli individui.

Quando Fattorello elaborava la sua teoria infatti, alcuni dei concetti che oggi abbiamo accettato, come quello di comunicazione negoziata, o di interpretazione, o di decodifica aberrante, non erano ancora stati formulati dagli studiosi di comunicazione. Motivo per cui il valore innovativo della Tecnica Sociale dell’Informazione, può essere adeguatamente colto soltanto se contestualizzato all’interno di una cornice culturale e sociologica che all’epoca era ancora molto lontana dal cogliere le dinamiche comunicative nella loro complessità, e in cui di fatto il destinatario era concepito come terminale passivo, indifeso e acritico del processo informativo. Da più parti si propendeva per un’idea di comunicazione a senso unico (dai mezzi di comunicazione ai destinatari), in cui il pubblico era considerato vittima di un apparato mediatico onnipotente.

Gli studi enunciazionali, la semiologia, i cultural studies, che pure avrebbero contribuito a rivalutare il ruolo del destinatario restituendogli finalmente un minimo di dignità e spessore intellettuale e a riconoscere altresì l’importanza cruciale del contesto sociale, erano ancora di là da venire quando Fattorello parlava ai suoi studenti di soggetto promotore e soggetto recettore come termini di un rapporto informativo simmetrico, in cui il soggetto recettore era in grado di aderire o rifiutare quanto proposto dal soggetto promotore. Questa assunzione, che forse oggi può apparire scontata, era impensabile in un periodo in cui gli studiosi erano intenti a scagliare anatemi disperati contro un sistema mediale pericolosissimo e malvagio che minacciava la massa sprovveduta con i suoi poteri di persuasione occulti.

La relazione tra soggetto promotore e soggetto recettore costituisce a mio parere l’aspetto più interessante della teoria, soprattutto perché gli attuali mezzi di comunicazione consentono molto più dei tradizionali mass media di massimizzare il loro rapporto, esplicitando compiutamente il ruolo del recettore quale soggetto interpretante e in un secondo momento promotore dell’informazione stessa. Mi spiego meglio: il processo previsto dalla teoria di Fattorello, nonostante si applichi a qualunque processo informativo, trova in pratiche comunicative quali i forum e i social network, nelle realtà web 2.0, nelle edizioni online dei tradizionali quotidiani e, per farla breve, in tutte quelle forme di comunicazione in cui assistiamo alla continua produzione di contenuti da parte degli utenti-recettori, una visibile rappresentazione.

L’obiettivo di questa tesina sarà pertanto quello di illustrare la teoria di Fattorello nei suoi aspetti fondamentali, concentrandoci in particolare sul carattere bilaterale e continuo del processo informativo, utilizzando a titolo esemplificativo proprio le nuove pratiche di socialità interattive che si sviluppano su internet.

La tecnica sociale dell’informazione: uno sguardo d’insieme

Secondo Fattorello tutte le volte che parliamo, raccontiamo, esponiamo un pensiero, quello che in realtà stiamo facendo è cercare di accreditare la nostra opinione, con l’intenzione, che ne siamo consapevoli o meno, di convincere il nostro interlocutore della sua giustezza. Tuttavia l’opinione, a differenza della credenza, non può essere considerata assolutamente giusta, poiché il suo oggetto è sempre qualcosa di oscuro e inafferrabile, qualcosa di inconoscibile o non ancora conosciuto (il futuro ad esempio), o ancora qualcosa che si presta a diverse valutazioni a seconda dei punti di vista, motivo per cui le opinioni su un medesimo argomento sono sempre diverse e contraddittorie. Se l’opinione potesse essere verificata allora diventerebbe conoscenza e quindi patrimonio della cultura condivisa. Al contrario l’opinione è un qualcosa di estremamente provvisorio e mutevole, poiché non poggia su un sapere consolidato e verificabile, ma è piuttosto un nostro modo di osservare un dato problema, in un dato momento, da un determinato (e dunque limitato) punto di vista. Da questa premessa deriva il carattere effimero e soggettivo di qualunque opinione, nonché la sua impossibilità di essere durevole nel tempo. Come spiega Lippman inoltre, la realtà è estremamente complessa perché gli uomini possano averne una conoscenza esaustiva e profonda; piuttosto, essi colgono della realtà solo alcuni frammenti, frammenti con i quali vanno a costruire le proprie rappresentazioni stereotipate e soggettive del mondo che li circonda. Da qui derivano le innumerevoli interpretazioni (opinioni) che possono essere date circa un medesimo oggetto.

La Tecnica Sociale fattorelliana è tecnica dell’ informazione e non della comunicazione proprio perché parte da questi presupposti. Il termine informazione infatti, sottende un processo preliminare di messa in forma della realtà, la quale una volta in-formata viene trasmessa al soggetto recettore. In altri termini, qualunque sia l’oggetto di discussione, non è l’oggetto in quanto tale che viene inserito nel processo informativo ma solo una sua particolare forma o interpretazione, quale è stata data dal soggetto promotore. Il soggetto promotore filtra infatti la realtà attraverso quelli che sono i suoi interessi, i suoi valori e soprattutto le attitudini che sono il risultato della sua acculturazione. Qui occorre fare alcune precisazioni. Soggetto promotore e soggetto recettore sono soggetti sociali nella misura in cui sono il risultato non soltanto dell’educazione che hanno ricevuto, o degli strumenti culturali di cui dispongono, ma anche di tutte le varie esperienze che li hanno formati, dei valori a cui sono stati socializzati dai gruppi di riferimento (famiglia, amici), delle idee e delle credenze che hanno interiorizzato e che, come spiega Stoetzel, «si frappongono come un prisma tra l’individuo e la sua visione delle cose». Le attitudini si vengono formando gradualmente sotto l’impulso di tutti questi stimoli squisitamente sociali, ai quali gli individui sono sottoposti sin dall’infanzia e dai quali ereditano le proprie visioni del mondo. Ecco perché la tecnica dell’informazione è tecnica sociale, perché ciò che erroneamente crediamo essere un nostro personalissimo modo di pensare, è in realtà un prodotto differito di tutti le pressioni ambientali a cui siamo stati sottoposti lungo l’arco di una vita. L’attitudine è un po’ la sintesi di tutto quello che abbiamo assimilato. E l’attitudine è ciò da cui derivano, anche se non in maniera deterministica, tutte le nostre opinioni.

Il processo informativo è dunque un processo complesso, che vede protagonisti due soggetti in ugual misura opinanti: l’uno, il soggetto promotore, che innesca il processo trasmettendo la sua opinione su ciò che è oggetto d’informazione, l’altro, il soggetto recettore, destinatario dell’opinione, che a sua volta la interpreta filtrandola attraverso valori e attitudini che gli sono propri. Da questo punto di vista diciamo che il rapporto tra i due termini del processo è paritario. Perché il soggetto recettore può rifiutare l’opinione proposta dal promotore, oppure può aderirvi se conforme alle sue attitudini e allora ci sarà comunicazione. Il recettore potrà in un secondo momento esprimere la propria opinione e diventare così promotore presso altri recettori, i quali diverranno poi promotori, e così via. Di conseguenza il recettore non è mai un bersaglio passivo, ma decide se concedere la propria adesione o meno attraverso una serie di passaggi preliminari. La primissima fase è quella del contatto che si realizza attraverso un determinato mezzo. La seconda è quella dell’interesse, che è già una fase discriminante perché il recettore potrebbe considerare irrilevante, sulla base dei suoi interessi e delle sue attitudini, l’argomento di cui si parla, nel qual caso il processo verrebbe interrotto. La fase successiva è quella dell’attenzione, cui segue la valutazione. La valutazione è una fase cruciale perché è quella in cui il recettore stabilisce l’effettiva coerenza tra l’opinione propostagli e il sistema di credenze e valori al quale fa riferimento, ed è a partire da questa valutazione che egli deciderà se concedere la propria adesione d’opinione o meno.

Bisogna tuttavia considerare che quando si opina su qualcosa vengono chiamati in causa anche quelli che vengono definiti fattori di conformità. I fattori di conformità agiscono nel senso di rendere per l’appunto conformi le opinioni. Essi hanno una carica sociale tale da risultare in qualche modo coercitivi, limitando di conseguenza la libertà del soggetto di dissociarsi da una data opinione. Fattori di conformità sono la ragione, i valori condivisi, l’opinione della maggioranza (conformismo sociale) e infine gli stereotipi. Sebbene dunque le opinioni siano soggettive (e non private) i fattori di conformità possono in qualche modo alterare l’autenticità di un opinione.

Riassumendo, la formula del processo informativo viene così schematizzata da Fattorello:

x)

                                 M

Sp                                                             Sr

                                 O

dove x è ciò di cui si parla, l’argomento oggetto di opinione, che come abbiamo detto rimane fuori dal rapporto d’informazione ma ne è il presupposto; Sp ed Sr sono rispettivamente il promotore e il recettore; O è la forma che Sp ha dato ad x, ovvero la sua interpretazione, l’opinione; e infine M è il mezzo attraverso cui si stabilisce il rapporto d’informazione.

Ora, vorrei soffermarmi proprio sul mezzo. Abbiamo detto che il rapporto che lega i due termini è bilaterale, dal momento che il recettore ha piena facoltà di interagire con il promotore discutendo l’opinione e rivestendo in un secondo momento egli stesso il ruolo di promotore. Tuttavia, lo strumento attraverso cui avviene il contatto tra Sp ed Sr può in qualche misura limitare la reciprocità tra i due termini, rendendo in tal modo il rapporto sbilanciato a favore del promotore. Questo è quello che avviene con i mezzi di comunicazione di massa. Infatti come sappiamo, i contenuti di tv, radio e giornali vengono confezionati da un ristretto gruppo di persone e rivolti a un vasto pubblico di recettori, il pubblico di massa. Non vi è interazione e non vi è feedback. I recettori possono naturalmente rifiutare di aderire alle opinioni proposte, tuttavia non possono obiettare o confutare quanto viene loro detto, almeno non immediatamente. Questo limite è proprio dell’informazione contingente, informazione tempestiva il cui oggetto è l’attualità e in cui il rapporto tra Sp ed Sr è di breve durata. Ragion per cui l’adesione, quando vi sia, è immediata e superficiale. La brevità del rapporto di informazione contingente, nonché le peculiarità del mezzo (tv, radio, stampa), riducono la bilateralità entro il limite di tempo in cui il rapporto si attua. Vale a dire che il recettore potrà sempre pubblicare una rettifica sul giornale, ad esempio, ma la sua opinione verrà comunque pubblicata il giorno seguente, cosicché la sua informazione rintraccerà un pubblico di recettori ben diverso da quello del giorno prima. Tuttavia, se è vero che il rapporto informativo contingente realizzato attraverso i tradizionali mezzi dell’informazione pubblicistica privilegia il ruolo del promotore a scapito del recettore, la rivoluzione operata nell’attuale panorama mediale dai cosiddetti new media sembra poter superare alcuni limiti intrinseci dei media di vecchia generazione, arricchendo lo scambio informativo e valorizzando proprio l’opinione del recettore. Vediamo come.

Potere al recettore digitale

Quando parliamo di web 2.0 ci riferiamo a tutte quelle pratiche comunicative che si sono sviluppate con il passaggio da un web di prima generazione (non a caso detto 1.0), a una nuova filosofia di concepire la rete e il rapporto tra produttori di contenuti e consumatori. La filosofia del web 2.0 infatti, che si è sviluppata in maniera progressiva e graduale, parte da un presupposto molto semplice: gli utenti sono in grado di aggiungere valore con la propria partecipazione. Se un tempo la rete offriva una relazione tra promotori e recettori a senso unico, non dissimile quindi da quella dei media di massa, il nuovo approccio alla rete segna il passaggio ad un’epoca in cui gli utenti di internet diventano sempre di più protagonisti del processo informativo. Gli utenti fruiscono dei contenuti, rispondono con altri contenuti, scambiano opinioni, caricano video, canzoni, leggono i commenti, discutono, in altre parole arricchiscono lo scambio informativo creando un’agorà in cui ogni utente, con le proprie opinioni e i propri interessi, ha facoltà di esprimersi tempestivamente e in tempo reale. L’esempio più significativo in questo senso è senza dubbio costituito dai social network. Tuttavia i siti che offrono questa possibilità sono ormai innumerevoli.

Antesignano della pratica dell’authoring, intesa come possibilità di creare e immettere contenuti, è stato Wikipedia nel 2001. Wikipedia è un’enciclopedia online pubblicata in 266 lingue i cui contenuti vengono sviluppati in collaborazione dagli utenti. I wiki infatti sono siti o pagine web che possono essere modificati direttamente dai propri utilizzatori.

Anche i blog consentono un elevato grado di partecipazione ed uno scambio informativo simmetrico. La pratica del web blogging risale ufficialmente al 1997, anche se la proliferazione dei blog più svariati in rete è un fenomeno più recente. Un blog è una sorta di diario digitale. L’utente (promotore) che pubblica un blog lo aggiorna continuamente, producendo nuovi contenuti, condividendo con quanti si trovino a passare dalla sua pagina i propri pensieri, la musica e i video preferiti e in definitiva, qualunque cosa gli passi per la testa. Fin qui niente di strano. Ciò che però differenzia sostanzialmente il blog dai tradizionali siti personali, è che laddove questi avevano una struttura chiusa e non consentivano quindi ai visitatori-recettori alcun tipo di interazione, i blog configurano un rapporto del tutto inedito con il pubblico che assume un ruolo fondamentale: può commentare i post esprimendo le proprie opinioni e quindi dar vita a un dialogo che genera ovviamente valore aggiunto. I post vengono commentati, i commenti generano altri commenti e così via. L’essenza del web blogging è tutta nello scambio, di idee, di opinioni. Tant’è che le potenzialità di questo nuova pratica non sono sfuggite all’attenzione dei quotidiani online. All’epoca del web 1.0, per le versioni digitali delle testate online, interattività significava soprattutto scambio di idee attraverso posta elettronica e forum. Il forum consentiva ai lettori di un quotidiano di scambiare le proprie opinioni in un’area a loro riservata, di conseguenza l’intrusione dei lettori nel prodotto giornalistico era tutto sommato limitata. L’avvento della filosofia 2.0 ha aperto la strada a nuove forme partecipative che alcuni dei quotidiani più avveduti hanno immediatamente saputo sfruttare. La prima di queste è stata per l’appunto il blog. Repubblica.it è stata fra le prime testate a trasformare in blog le rubriche presenti sul proprio sito, consentendo ai lettori di commentare i post pubblicati. Altre testate si sono spinte oltre: Gazzetta.it ha dato vita a Gazzettaspace, un social network sportivo che consente ai lettori di aprire una propria pagina personale, all’interno della quale pubblicare le proprie opinioni, commentare gli articoli dei redattori e caricare ogni tipo di contenuto multimediale.

Ma il Corrieredellasera.it è stato ancora più temerario. Forte della consapevolezza ormai acquisita che l’apporto dei lettori, se opportunamente valorizzato, può costituire davvero una risorsa garantendo contenuti aggiuntivi, Corrieredellasera.it ha consentito ai lettori, a differenza di Repubblica.it, di commentare direttamente gli articoli. In altre parole basta effettuare la registrazione, cliccare su una qualsiasi delle notizie presenti in copertina (home page), leggere l’articolo per intero e pubblicare il proprio commento subito sotto il testo, nello spazio Commentalanotizia – condividi le tue opinioni su Corriere.it. In tal modo il prodotto editoriale si apre al confronto con i lettori, che non sono più relegati ad esprimersi in via del tutto eccezionale negli spazi a loro dedicati come blog e rubriche. Il recettore dell’informazione contingente, tradizionalmente sacrificato a non poter direttamente confutare, smentire, dissentire pubblicamente da quanto letto, oggi, grazie alle potenzialità spiegate dalla rete, può a tutti gli effetti essere un soggetto dell’informazione al pari del soggetto promotore: può pubblicare la propria opinione, ma soprattutto, può farlo in maniera tempestiva, come vogliono le regole dell’informazione contingente.

Questa rapida panoramica dimostra come l’uso di uno strumento come internet, possa, se correttamente utilizzato, attenuare o addirittura abbattere molti dei limiti propri dell’informazione pubblicistica, limiti che di fatto vincolano soprattutto il soggetto recettore. Gli esempi forniti dalle testate online testimoniano non soltanto che, qualora ve ne fosse ancora il dubbio, i recettori sono tutt’altro che soggetti passivi, ma anche che l’informazione contingente può, attraverso le nuove tecnologie, facilitare uno scambio informativo più equilibrato, costruttivo ma soprattutto democratico.

Terza pagina dei Giornali: Cultura impossibile ?

Laurea specialistica Editoria Media Giornalismo – UNIVERSITA’ DI URBINO – Professor Giuseppe Ragnetti – Materia d’insegnamento: Tecniche relazionali e comunicative

“Terza pagina dei Giornali: Cultura impossibile ?”

Elaborato di Tommaso Bertelli

In questo breve elaborato cercherò di rispondere alla domanda del titolo, se sia quindi possibile trovare cultura tra le pagine dei giornali; quotidiani, settimanali o mensili fa poca differenza.

Dopo una breve storia della terza pagina, affronterò l’analisi dei concetti di informazione contingente e informazione non contingente alla luce della Teoria della tecnica sociale dell’informazione di Francesco Fattorello , traendo poi alcune considerazioni finali

1. Breve storia della “terza pagina”.

Fin dalla metà dell’Ottocento e dalla nascita dei quotidiani nazionali il panorama giornalistico italiano si è contraddistinto per una netta distinzione tra giornali (fogli politico-informativi) e gazzette (di taglio più letterario o scientifico). Con la nascita della terza pagina questa marcata differenza viene ad assottigliarsi, fino a scomparire quasi con il passare degli anni. Questa particolare sezione trova la sua ragion d’essere in relazione ad un approccio molto superficiale e limitato del pubblico italiano alla lettura di libri, rispetto alla consuetudine più diffusa di accostarsi al quotidiano; essa deve pertanto integrare e sopperire a un vuoto culturale e letterario.

La terza pagina, chiamata così perché posta dopo le prime due, dedicate alle notizie di politica e cronaca, compare per la prima volta il 10 gennaio 1901 su Il Giornale d’Italia, storico quotidiano nazionale, diretto da Alberto Bergamini. Questi raccolse in un unico spazio i quattro articoli di cronaca e di critica sulla prima assoluta della Francesca da Rimini, di Gabriele D’Annunzio interpretata da Eleonora Duse. L’intuizione e lo scopo di Bergamini è, quindi, quello di aver dato vita ad una pagina che fondesse l’aspetto tecnico-giornalistico con quello artistico-letterario, cercando di dare in questo modo risalto alle mille sfaccettature della vita culturale e sociale del nostro paese. Questo spiega la varietà e la ricchezza della pagina che contiene recensioni teatrali e letterarie, articoli scientifici, interviste, pubblicazioni di stralci di nuovi romanzi inediti, cronaca sportiva, il tutto alleggerito da articoli di varietà e di mondanità.

Nonostante una prima fredda accoglienza da parte del pubblico dei lettori italiani, la notorietà non tardò ad arrivare per la nuova “creatura” di Bergamini, che venne poco a poco copiata ed introdotta negli altri grandi quotidiani nazionali. Fu la terza pagina del Corriere della Sera a diventare, in poco tempo, la più famosa e ambita: il direttore Luigi Albertini impose l’esclusiva di firma ai suoi collaboratori, tra i quali spiccano i nomi di Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello e Grazia Deledda.

Per molti storici del giornalismo è il 21 aprile 1956 la data della morte della Terza: quel giorno, infatti, compare nelle edicole Il Giorno, quotidiano milanese di Enrico Mattei e diretto da Gaetano Baldacci. È il primo giornale nazionale a non avere la terza pagina, scelta adottata anche da la Repubblica vent’anni dopo, che la sostituirà con una sezione culturale di due pagine al centro del giornale.

La Stampa la abolirà nel 1989, mentre sarà Paolo Mieli nel 1992 a farla scomparire dalle pagine del Corriere della Sera.

Al giorno d’oggi la terza pagina propriamente detta non esiste più, mentre proliferano sui maggiori quotidiani nazionali sezioni culturali più o meno ampie, anche a cadenza settimanale come la Domenica di Repubblica o il domenicale de Il sole 24 ore.

2. Ci può essere una cultura contingente ? Risponde Francesco Fattorello

Il quotidiano è, per antonomasia, il luogo deputato all’informazione contingente, dato il suo carattere di immediatezza, tempestività e attualità, che, quindi, esclude dalla sua trattazione ciò che era presente prima e quello che sarà presente dopo. È invece solo l’informazione non contingente che può, con i suoi tempi e metodi più lenti, con la sua base di razionalità e adesione non emotiva, dare spazio alla cultura, se con questo termine “intendiamo un insieme di ingredienti in grado di mutare i nostri schemi mentali ed aprirci alla complessità e immensità del “fuori’” .

Alla luce di quanto detto, la cultura è il risultato di un lungo processo di sedimentazione d’opinioni e convinzioni che un individuo ha appreso ed interiorizzato attraverso tempi dilatati e via via cristallizzatesi. Non è quindi possibile che questo percorso possa attuarsi con un mezzo di diffusione delle informazioni che oggi apporta elementi di novità pronti ad integrare o, addirittura, smentire quelli di ieri.

L’informazione contingente dà sì la possibilità all’individuo di sensibilizzarsi sui temi d’attualità sociale, sul mondo che lo circonda, ma sarà poi solo con il tempo, attraverso media diversi dal quotidiano o dai periodici di breve durata, che svilupperà quel senso di “analisi” che lo porterà ad avere una cultura.

Secondo Francesco Fattorello la differenza tra le due categorie di informazione è data, oltre che dal tipo di materia trattata, anche dai soggetti: il promotore e il recettore. Nel primo caso, quello della contingenza, il promotore può non avere una qualificazione specifica e il recettore è generico; nel secondo caso, quello della non contingenza invece, il promotore è un soggetto qualificato così come lo è, di norma, anche il recettore . Ne deriva, quindi, la possibilità da parte del recettore nel processo non contingente di affermare tutta la propria reazione di opinione, instaurando così un rapporto bilaterale con il soggetto promotore, cosa che invece non si verifica nel caso dell’informazione contingente, dove il rapporto, nonostante sia tra due soggetti opinanti posti sullo stesso livello, è inevitabilmente a senso unico.

3. Sintesi e considerazioni finali.

Enrico Faqui loda il significato “sociale” della terza pagina affermando che favorì “non solamente la diffusione generale della cultura, ma operò in modo benefico sulla stessa arte dello scrivere liberandola da un’eccessiva fedeltà alle norme tradizionali e classiche” , mentre, ritornando al concetto di tempestività, è stato lo stesso Benedetto Croce a dire come le opere periodiche non debbano essere incluse nella storia delle opere letterarie, adducendo come principale motivazione proprio la tempestività, “il fatto che si trovino ad apparire in motivi pratici, non per servire l’arte e la bellezza” . Questa considerazione, per quanto fondata e autorevole, non è da me pienamente condivisibile per quanto riguarda l’oggetto di analisi di questo elaborato: la terza pagina.

Al tempo presente, infatti, le terze pagine e, in linea generale, le rubriche culturali dei periodici non hanno più le stesse caratteristiche delle loro antesignane dell’inizio del Novecento. Sulle pagine di oggi non si trovano, come succedeva allora, articoli di grandi firme, scrittori o filosofi, o romanzi a puntate, non hanno quindi quella pretesa alta di letteratura che Croce contestava. Oggi le sezioni “cultura” del Corriere della Sera o la Repubblica, L’Espresso o Panorama, riportano eventi culturali, mostre, spettacoli teatrali e non si spingono più in là di una recensione sull’ultimo film uscito nei cinema o sul best-seller appena pubblicato. Non hanno nessuna pretesa di fare cultura, ma vogliono solo rendere presente al lettore che una cultura c’è (forse).


  1. F.Fattorello, Teoria della tecnica sociale dell’informazione, a cura di Giuseppe Ragnetti. QuattoVenti, Urbino 2005.
  2. F.Fattorello, op. cit., pag. 149
  3. F.Fattorello, op. cit., pag. 130
  4. E.Faqui, Giornalismo e letteratura, Mursia, Milano 1969, pag. 16
  5. F.Fattorello, op. cit., pag. 112-113

Il Potere effimero della Pubblicità

Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Insegnamento di TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il Potere effimero della Pubblicità”

a cura di Alessio Santarelli

Jacques Séguéla: “la pubblicità non sceglie per nessuno, permette solo di scegliere meglio”

Una delle maggiori preoccupazioni delle aziende che fanno ricorso alla pubblicità per reclamizzare i propri prodotti o servizi, è verificare se questa funzioni o meno. In poche parole una pubblicità per essere definita efficace deve far aumentare il numero di vendita del prodotto o servizio di cui si occupa, quindi deve persuadere il proprio pubblico, spingendolo all’acquisto.

I fautori della teoria forte della pubblicità sono convinti della sua grande potenza persuasiva.

Secondo questi la pubblicità infatti:

  • influisce in modo incisivo sugli atteggiamenti e sui comportamenti dei consumatori 
  • riesce a manipolare, senza che il consumatore ne sia consapevole, la sua volontà 
  • considera il consumatore passivo e sostanzialmente stupido 
  • è in grado di incidere sia sulle vendite di singole marche sia sulla vendita di interi settori merceologici 
  • si ispira ad una strategia d’attacco per essere più efficace 

Insomma, questa teoria si ricollegherebbe a quelle sulla comunicazione che tra gli anni ’50 e ’70 sostenevano lo strapotere dei media (effetti potenti, lineari e forti) e di conseguenza un pubblico senza scampo, privo di qualsiasi mezzo di difesa.

Questa tesi è però ormai insostenibile. La teoria sostenuta dal Professor Fattorello, ha da tempo smentito gran parte dei presupposti su cui si basavano le cosiddette teorie dei poteri forti. La seguente formula idiografica ci aiuterà a capire meglio di cosa stiamo parlando:

x)

                              M

Sp                                                     Sr

                              O

Sp è il soggetto promotore dell’informazione, Sr il soggetto recettore, M il mezzo o strumento tramite il quale Sp trasmette O a Sr e O è l’interpretazione che Sp ha dato della realtà, cioè la forma data all’oggetto dell’informazione. La x sta ad indicare invece l’oggetto dell’informazione, ciò di cui si parla e quindi il motivo per cui si mette in atto il rapporto di informazione. Come si può notare questo resta fuori dal rapporto stesso. 

Una delle principali innovazioni apportate dalla teoria fattorelliana è quella di aver “restituito” pari dignità al soggetto recettore con il soggetto promotore. In poche parole Sr, che nel caso della pubblicità è rappresentato dal pubblico al quale la reclame è indirizzata, è comunque dotato delle stesse facoltà opinanti di cui dispone Sp, e quindi si tratta di un soggetto tutt’altro che  totalmente condizionabile e succube del messaggio promozionale.

E’ anche per questo che la misurazione dell’effetto che consegue dall’applicazione dei processi d’informazione contingente, quale è la pubblicità, risulta essere se non del tutto impossibile, quanto meno assai difficile. Non si può prescindere dal dato di fatto che esistono innumerevoli variabili non calcolabili che intervengono tra il momento di messa in circolazione della rèclame e il momento in cui il consumatore acquista finalmente il prodotto pubblicizzato: tra queste, come abbiamo detto, c’è la soggettività di ogni singolo individuo che lo porta ad avere diverse e autonome facoltà opinanti.

Quindi anche quando Sr è rappresentato da un gruppo, o meglio ancora da una vera e propria massa, sarebbe del tutto sbagliato pensare ad un annullamento della personalità umana, nonché alla rinuncia ad ogni facoltà opinante che comporterebbe un conformismo totale.  

Oltre ad avere le stesse facoltà opinanti del promotore, il soggetto recettore deve essere socializzato allo stesso ambito culturale di Sp.

Questa corrispondenza culturale è necessaria e indispensabile affinché il rapporto di informazione abbia l’effetto voluto, cioè che il contenuto venga ricevuto e capito senza difficoltà o distorsioni. Perché questo accada, Sp deve conoscere i fattori di acculturazione del recettore, in modo tale da potersi adeguare a lui sempre mantenendo come scopo quello di ottenere una conforme adesione di opinione.

Proprio per questo, le aziende che investono nei vari messaggi pubblicitari, fanno un largo uso di ogni tipo di ricerca di mercato prima durante e dopo la realizzazione di  una rèclame, nel tentativo di conoscere il proprio soggetto recettore, e in seguito di verificare se l’effetto ottenuto è conforme a quello che si desiderava.

Le aziende ormai adottano questa strategia per fare identificare i consumatori con l’immagine che esse diffondono di se stesse.

L’idea di adattare di volta in volta in volta l’immagine delle proprie campagne al destinatario del messaggio ha come scopo quello di influenzare maggiormente il consumatore attraverso un linguaggio più consono ai suoi schemi di pensiero, di ottenere un maggiore consenso da parte sua e, di conseguenza, un maggiore successo di vendita di prodotti.

Adottare un linguaggio vicino, simile a quello utilizzato all’interno del pubblico di riferimento cerca di ridurre l’atteggiamento difensivo nei confronti del messaggio pubblicitario tenuto dal consumatore contemporaneo, in contrasto con la sensazione di venire bersagliato a tutti i livelli che ormai lo attanaglia.

Un caso esemplare è quello di Apple, nota azienda produttrice di sistemi e supporti informatici, che da anni ormai si propone come marca giovanile, creativa e libera. I prodotti Apple propongono una nuova idea di un informatica e computing snella e semplice all’uso, sia sul versante tecnico e tecnologico, che su quello visivo e di design che consta di linee snelle, essenziali e colori neutri e rassicuranti.

L’obiettivo è quello di adeguarsi alla porzione di audience rappresentata dai giovani che hanno nuova e più moderna visione dell’informatica, come mezzo per esprimersi liberamente e creativamente.

Le aziende che adottano questo sistema fondano la loro strategia anche su una profonda e radicale differenziazione dalle marche concorrenti, meccanismo che innesca un forte sentimento di appartenenza e coesione tra coloro che ne utilizzano i prodotti.

Questo comporta un cambiamento nella natura del soggetto – oggetto della pubblicità che da recettore si fa promotore dei valori della marca nei confronti di nuovi soggetti recettori, innescando una catena di processi di informazione che può svilupparsi in maniera orizzontale e lineare oppure che può espandersi a raggiera.

           M                       M                       M

Sp                Sr – Sp              Sr-Sp                Sr

           O                         O                       O

L’effetto sugli individui può essere infatti condizionato proprio dal sentimento di appartenenza al medesimo gruppo. Chi ascolta un discorso pubblico dà non solo la propria adesione di opinione favorevole i meno a quanto ascolta o utilizza ma, sia pure inconsapevolmente, è influenzato anche dai soggetti con cui interagisce o con cui viene a contatto.

Su questi presupposti si fondano ad esempio le nuove strategie di marketing che le aziende utilizzano sempre più frequentemente: guerrilla marketing, viral marketing, e buzz marketing sono alcuni degli esempi di pubblicità che si basa sul passaparola tra un soggetto e l’altro. 

Nonostante ciò, bisogna necessariamente attuare una distinzione tra l’adesione di opinione del recettore (unico possibile effetto realizzabile dalla azione pubblicitaria), dall’atto di acquisto vero e proprio. In effetti, quest’ultimo è da considerarsi un momento del tutto diverso e distinto dall’adesione all’opinione.

Non è raro imbattersi in un soggetto recettore che si limiti soltanto alla prima fase (adesione all’opinione del promotore) senza poi passare all’acquisto.

In altri termini il professor Francesco Fattorello sostiene che in gran parte gli sforzi pubblicitari delle aziende si possono rivelare completamente inutili al fine di condizionare il consumatore dal momento che lo slogan utilizzato dai pubblicitari “la pubblicità fa vendere” dovrebbe essere sostituito da altra più appropriata affermazione: “la pubblicità accredita un’opinione favorevole al prodotto o servizio per il quale è stata messa in atto”

“La Voce” di Montanelli: l’insuccesso della stampa ideologica

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO

Facoltà di SOCIOLOGIA – Corso di Laurea: Editoria Media Giornalismo

Esame di Tecniche di relazione

Prof. Giuseppe RAGNETTI

TEORIA DELLA TECNICA SOCIALE DELL’INFORMAZIONE

Luca Valente – Matricola 219901

Anno Accademico 2006/2007

“LA VOCE” DI MONTANELLI: L’INSUCCESSO DELLA STAMPA IDEOLOGICA

Noi volevamo fare, da uomini di destra, il quotidiano di una destra veramente liberale che si sente oltraggiata dall’abuso che ne fanno gli attuali contraffattori”: era l’aprile del 1995 e così scriveva Indro Montanelli nell’ultimo editoriale del quotidiano “La Voce”.

In queste poche righe emergono tutte le contraddizioni di uno dei fallimenti editoriali più eclatanti del secondo dopoguerra. L’insuccesso de La Voce, la creatura che Montanelli aveva così ardentemente desiderato, incorpora tutti gli elementi di quella che si è soliti chiamare “stampa ideologica”, ne racchiude in se la portata limitata, il carattere autoreferenziale e l’inevitabile caduta. Sulla base di queste prerogative ci si potrebbe spingere, in maniera forse un po’ troppo presuntuosa a rivalutare la figura di colui che è stato considerato il più grande giornalista del secondo dopoguerra.

Ovviamente appare inverosimile adeguarsi a tale considerazione. Se, come sembrerebbe, il giornalista mira ad ottenere una adesione d’opinione tempestiva e contingente da parte del suo lettore a quanto egli riferisce, affidandosi a “opinioni stereotipate” appare sorprendente come Montanelli non sia stato in grado di conservare una creazione del tutto personale e già prima di veder la luce brillava del prestigio dello “stregone”.

Indro Montanelli parla de La Voce già nel suo ultimo fondo scritto per il Giornale della famiglia Berlusconi, intitolato “Vent’anni dopo” ed apparso il 12 gennaio 1994. Lasciando il quotidiano da lui fondato non dice addio ai suoi lettori, il suo è un arrivederci a quanti vorranno seguirlo nella sua nuova avventura: : “A presto, cari lettori. Anche a costo di ridurlo per i primi numeri a poche pagine, riavrete il nostro e vostro giornale. Si chiamerà La Voce…”, in omaggio al  maestro Prezzolini, e la sua caratteristica principale sarà “…un assetto azionario che ne garantisca l’assoluta indipendenza”.

Già in queste poche parole si evince la spregiudicatezza e il coraggio che caratterizzeranno il suo giornale. Tenendo fede alla sua innata libertà fonda una public company nell’idea che un giornale non potrà essere veramente libero se legato più o meno direttamente ad un padrone.

Gli slogan che caratterizzeranno la promozione del quotidiano ruoteranno attorno al tema “La Voce: unico padrone il lettore”. Ma proprio tale professione di fede sarà una delle cause della fine del giornale. La libertà di stampa e la necessità di creare nell’editoria italiana una vera public company lontana da condizionamenti esterni non garantisce un netto posizionamento politico nel quadro generale dell’editoria italiana né per gli investitori né per i lettori. In questa situazione ovviamente risulta difficile ottenere la fiducia necessaria per nuovi finanziamenti. L’incapacità del quotidiano di trovare una propria posizione politica, l’”opposizione organica” al limite della fronda è una delle cause principali del suo fallimento.

Dopo una prima settimana di vendite record il nuovo quotidiano uscito il 22 marzo 1994 inizierà un fase discendente fino alla chiusura il 12 aprile dell’anno dopo. L’incapacità maggiore è stata dunque la presunzione di rivolgersi ad un pubblico non delineato. “La Voce” appare un organo d’informazione svincolato da qualsiasi interpretazione, una sorta d’ibrido incapace di rivolgersi a destra o a sinistra. La destra ideale alla quale Indro aspira è una destra che in realtà non esiste. Nel processo d’informazione che intende creare non esiste soggetto recettore.

Il suo limite è tutto qui. Il quotidiano nonostante ogni sorta d’astrazione è un prodotto editoriale, e in quanto tale ha bisogno di un pubblico assiduo e fedele che lo acquisti. La convergenza delle interpretazioni, quella tra soggetto promotore e forma dell’oggetto e quella tra recettore e  forma trasmessa attraverso il giornale, non si realizza perché il quotidiano montanelliano appare slegato dalla quotidianità, completamente autoreferenziale. E’ questa gestione poco accorta, la difficoltà o forse la non volontà, di scavarsi una nicchia di lettori in un mercato sempre più competitivo che ne determineranno l’insuccesso.

Ripercorriamo le tappe fondamentali della vita del giornale.  La Voce esce nelle edicole il 22 marzo del 1994. E’ un giornale innovativo, alternativo. Attraverso una grafica accattivante vengono trattate poche notizie importanti da approfondire intensamente lasciando a quelle meno importanti uno spazio ridotto.

Forse proprio la caratteristica principale del giornale sta nel suo modo di trasmettere la notizia, che sfruttando le capacità comunicative della grafica non ha nulla da invidiare alla televisione. Si distingueva per le poche pagine pressoché prive di pubblicità, numerose rubriche, molti articoli d’opinione e dei fotomontaggi pubblicati in prima pagina.  Il 29 marzo “La Voce” vende ancora 331.892 copie: da questo momento in poi comincia però l’emorragia mai arrestata. Nonostante i primi tre mesi positivi si assiste nell’arco dell’anno ad un calo inarrestabile delle vendite che arrivano ad un minimo di 50mila copie. Forse non ci si aspettava un Montanelli così moderno.

Stranamente il giornalista italiano che più di tutti ha semplificato il suo linguaggio per rendere agevole la comunicazione con i lettori, suoi interlocutori privilegiati, ha ora complicato al massimo la sua posizione, alternativamente scagliando fulmini contro la destra e richiamando brani delle sue battaglie contro la sinistra. Continua a provare, ma non riesce a spiegare perché, pur continuando a definirsi uomo di destra, vota a sinistra anziché scendere in campo per cambiare dall’interno questa destra che non gli piace. Anche per questo a fine maggio “La Voce” ha già perso moltissimi lettori; la tiratura è ormai stata dimezzata: nonostante il trasferimento in via Dante dei più prestigiosi collaboratori de Il Giornale, molti affezionati montanelliani sono ritornati al quotidiano di Feltri.

La redazione conta ormai nelle sue fila firme di tutto rispetto e di gran nome in ogni campo: da Enzo Bearzot, mentore dell’Italia ai Mondiali dell’Ottantadue, a Leopoldo Elia, ex presidente della Corte Costituzionale; da Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio, all’economista Mario Baldassarri. E questi sono soltanto i nuovi acquisti.

La squadra nasce già ricca, con l’arrivo da Il Giornale di Ricossa, Pampaloni, Marongiu, Gina Lagorio e Armaroli, per citarne alcuni. Niente di tutto questo si rivela utile per bloccare l’emorragia di copie vendute dopo la vittoria di Forza Italia alle elezioni, e seppure i redattori e gli amministratori, sulle ali dell’entusiasmo, non diano troppo peso a questi primi campanelli d’allarme, la situazione si fa problematica.

A dimostrazione di quanto la forza del quotidiano montanelliano derivi dal suo direttore, accade un fatto che rappresenterà una ferita insanabile. Montanelli partecipa il 13 settembre ad un dibattito sull’informazione organizzato a Modena alla Festa de l’Unità, e per lui è un trionfo: una moltitudine di simpatizzanti del Pds lo applaude entusiasta.

Le Reti Fininvest e Il Giornale non perdono l’occasione di attaccare Montanelli, novello comunista, e La Voce; ma il peggio è che i lettori sembrano credere alle accuse, e nel giro di pochi giorni quasi in diecimila abbandonano il quotidiano. Montanelli, a suo dire, è stato vittima della sua ingenuità: invitato a partecipare ad un dibattito con Walter Veltroni, Paolo Mieli, direttore del Corriere, e Ezio Mauro, direttore della Stampa, si trova invece di fronte Massimo D’Alema e una folla di uomini di sinistra che lo acclama come se fosse uno dei loro. Il direttore nega, polemizza, attacca la sinistra italiana, esprime le idee di sempre insieme con le recenti critiche alla destra al potere nella quale non si riconosce, ma i suoi commenti restano inascoltati, sommersi dagli applausi e dall’entusiasmo.

L’opinione pubblica italiana vede la superficie, gli applausi, le acclamazioni: non si preoccupa di quello che Indro Montanelli ha dichiarato, lo crede ormai schierato con la sinistra. Ed è così che viene avvalorato l’equivoco che l’accompagnerà fino alla fine, grazie soprattutto alle strumentalizzazioni che di questo episodio sono state fatte. Montanelli ribadisce più volte di essere un uomo di destra che non si riconosce nella destra al potere, ma ragionando a suo modo finisce per sconcertare i suoi lettori, che lo trovano contraddittorio.

Montanelli racconta che “La Voce” si è spenta per diversi e innumerevoli errori la cui responsabilità è distribuita fra molti; ma non si sottrae alle sue.

Sostiene che l’errore più importante sia stato di fare un passo troppo lungo rispetto alle possibilità che la Piemmei, la casa editrice del quotidiano, offriva, sottolineando anche, però, che i sostenitori della stessa hanno mantenuto ben poche delle promesse sbandierate alla vigilia.

Il 12 aprile 1995 esce l’ultimo numero de La Voce, un numero ricco e speciale oltre ogni aspettativa: in prima pagina spicca il fondo del direttore dall’esplicativo titolo “Uno straniero in Italia”, affiancato da un fotomontaggio nel quale egli appare imbavagliato in un deserto popolato di avvoltoi e sciacalli e sottotitolato appunto “Il giorno degli sciacalli”.

Nell’editoriale Montanelli racconta di cause “congiunturali” per la chiusura de La Voce, come l’aumento del prezzo della carta, il calo della pubblicità per la concorrenza della televisione, la corsa ai gadget e supplementi dei quotidiani nazionali forti. “Ma tutto secondario rispetto al difetto d’origine. Noi volevamo fare, da uomini di destra, il quotidiano di una destra veramente liberale, ancorata ai suoi storici valori: lo spirito di servizio (quello vero, taciuto e praticato), il senso dello Stato, il rigoroso codice di comportamento che furono appannaggio dei suoi rari campioni da Giolitti a Einaudi a De Gasperi…Questa destra fedele a se stessa in Italia c’è. Ma è un’élite troppo esigua per nutrire un quotidiano”.

Volendo la nostra analisi potrebbe terminare qui. Nelle parole dello stesso Montanelli appare evidente la sua ingenuità, forse dettata dall’ideologia, forse dalla volontà di cambiare gli italiani, forse dalla volontà di fare informazione non contingente. In interviste successive alla Stampa e al Corriere egli sfoga la sua tristezza nei confronti di una borghesia italiana che ha aiutato anziché contrastarla la fine di un quotidiano che ne sarebbe dovuto esser il miglior rappresentante.

La parte di questa borghesia non indirizzata sulla strada indicata dal padrone è a suo parere troppo esigua per la sopravvivenza di un quotidiano realmente indipendente. Ovviamente l’intento non è quello di sminuire la figura di uno degli uomini più importanti della cultura italiana, ma dimostrare come proprio uno dei giornalisti più affermati in Italia non abbia saputo tener presente alcune regole fondamentali dell’informazione.

E’ la sua cecità a destar sorpresa, una cecità non certo dettata dall’incapacità quanto dall’abbacinamento dell’ideologia, dell’intento educatore. Un giornale d’informazione che deve essere aperto ad un recettore generico non tratterà argomenti troppo speciali, né userà una terminologia troppo convenzionale. Le forme atte all’informazione pubblicistica devono essere fattori di conformità per tutti i componenti del gruppo cui si rivolgono.

Nello stabilire l’ampiezza delle notizie afferenti alla vita nazionale o internazionale il giudizio che ha il giornalista non discende dai valori universali ma da quelli pubblicistici che cioè egli ritiene più rispondenti ad una scala di valori dell’effetto. Sulla base di ciò volendo esemplificare la nostra analisi potremmo affermare che nell’ottica del quotidiano montanelliano emergono due errori fondamentali: la mancanza di un pubblico determinato al quale rivolgersi, la presunzione di poter educare facendo riaffiorare una destra ideale, ponendo le basi su valori fondamentali del liberalismo,”…lo spirito di servizio,il senso dello Stato,il rigoroso codice di comportamento…”.

In questo seconda finalità emerge il perché di un insuccesso che mai si sarebbe potuto prevedere. La missione educatrice, come la volontà di risvegliare valori fondamentali, non può essere della stampa la cui funzione precipua è quella dell’informazione contingente. La “funzione educatrice” è propria di un processo d’informazione non contingente così come “il cerchio di fatti transitori e di polemiche” è proprio della funzione giornalistica. E’ difficile associare l’uno con l’altro quanto più impensabile è affidare al secondo il compito del primo. La presunzione forse ingenua e accorata de La Voce è tutta qui, nella volontà di affidare al giornale, all’informazione pubblicistica una prerogativa che è tipica del libro o del maestro, confondere esigenze di tempestività ed opportunità contingente con un fenomeno basato sul processo razionale della logica.

Mentre l’informazione del contingente è fine a se stessa, mira alla formazione d’opinioni stereotipate in relazioni ad interessi contingenti, l’informazione non contingente costituisce la dinamica del processo di integrazione sociale,mira alla adozione di valori che sono in onore del gruppo sociale ed universalmente accettati.

Inoltre non bastando tali inadempienze d’ordine pratico, s’aggiunse la discrepanza tra obiettivi dichiarati, creare cioè una sorta di tribuna alla quale fossero ammesse tutte le opinioni sottoposte al controllo del lettore, e il marcato antiberlusconismo effettivo del quotidiano. Ovviamente il quotidiano nasce dal traumatico allontanamento di Montanelli da “il Giornale”, in seguito all’entrata in politica dell’editore Berlusconi.

Lo strappo che si viene a creare dunque non poteva non ripresentarsi nella struttura e nella posizione politica del nuovo giornale di Montanelli. La struttura organizzativa infatti puntava su un azionariato pubblico in grado di garantire al quotidiano una totale libertà. La public company, sebbene fosse un terreno inesplorato, era comunque un’idea attraente in quanto all’interno di un contesto dominato da editori “impuri” era l’unica possibilità per realizzare libera informazione, un’informazione senza bavaglio.

Nella nuova redazione Montanelli si sentirà libero, sia da condizionamenti esterni che da quelli interni. Questa innata indipendenza, supportata da una libertà tecnica lo porterà ad attaccare o elogiare alternativamente chiunque senza alcuna distinzione. Inutile negare che il suo bersaglio preferito resterà il suo ex-editore. L’astio nei confronti di Berlusconi si trasferì nel suo nuovo quotidiano, al punto che i suoi attacchi miravano a demolire l’intero schieramento di centro-destra finendo per allontanare dalla Voce tutti i lettori più tradizionalisti e reazionari.

Nonostante il direttore continuasse a prendere le distanze dalla nuova destra e a dichiarare l’impossibilità di una sua svolta a sinistra molti ormai lo consideravano un sostenitore di Occhetto. Secondo Marcello Staglieno, nel libro “Montanelli: 90 anni controcorrente” due sono i motivi del fallimento: il primo è l’assoluta mancanza di mezzi; quando Montanelli fondò Il Giornale, nel 1974, alle spalle aveva un colossale sponsor quale la Montedison di Eugenio Cefis. All’atto della fondazione de La Voce non ha alle spalle finanziatori dello stesso peso specifico.

Il secondo è scrivere da “oppositore organico” (ovvero senza appoggiare nessuno per partito preso, facendo la così detta “fronda”), ma guidare un giornale da opposizione frontale, totalmente antiberlusconiano; richiamandosi, peraltro, ad una destra ideale per sparare contro una destra reale e deludendo sia i vecchi lettori (“frondisti” incalliti) sia i nuovi (oppositori veri). Della stessa idea sono anche Mario Cervi, Gianni Locatelli, e Davide Blei.

L’antiberlusconismo acido e scontroso che ha dal principio caratterizzato La Voce è per loro a tratti anche comprensibile, data la fine travagliata del rapporto che legava il Cavaliere e il direttore, ma del tutto negativo in un’ottica di mercato. In questa ottica il giornale che nei fatti viene scritto per un pubblico che lo apprezzi,per esser venduto a sufficienza per coprire i costi non aveva un pubblico da soddisfare.

Per la sua impostazione, per l’aggressività congenita che lo caratterizzava si poneva in concorrenza con quotidiani di opposizione come la Repubblica mentre allo stesso tempo perdeva inevitabilmente i lettori più tradizionalisti e affezionati. Al tempo della Voce Montanelli non appariva più quello de il Giornale, in grado di incarnare i valori liberali.

Il conservatorismo illuminato che mai riconobbe nella nuova destra si leggeva nelle pagine de La Voce,un quotidiano che nella sua visione si rivolgeva proprio a quella borghesia che non ha mai amato,ben conscio che in Italia,salvo sporadici casi,non esiste borghesia,ma solo classe media, spesso mediocre.

Ora per quanto concerne la teoria della tecnica sociale appare evidente come nel corso della trattazione siano stati toccati, purtroppo in negativo, alcuni elementi peculiari della teoria di Francesco Fatterello.

La curiosità sta nel fatto che le mancanze di Montanelli ricadano su alcuni dei punti peculiari della teoria della tecnica sociale: l’impossibilità di confondere l’informazione contingente con quella non contingente, ed in particolar modo basare la prima su uno dei presupposti della seconda: i “valori condivisi” e non le “opinioni stereotipate”, la presunzione montanelliana di intendere il giornale come elemento d’educazione alla stregua de “Il popolo d’Italia” mazziniano.

Ciò che sorprende maggiormente è però la mancanza di sensibilità, come ho già detto, nel capire che il quotidiano è pur sempre un prodotto editoriale che ha bisogno di un pubblico al quale rivolgersi. Pavoneggiando magari la capacità di realizzare un giornale “aristocratico”, che ostentasse doti estetiche ed etiche alla stregua de Il Borghese di Longanesi, o le rivendicazioni culturali de “Il Mondo” di Pannunzio La Voce sembra evitare, addirittura bistrattare nel suo atteggiamento autoreferenziale, la figura del soggetto recettore della teoria fattorelliana.

Quel soggetto sociale che ha le stesse facoltà opinanti del giornalista-promotore, e che dovrebbe in questo avere lo stesso grado di socializzazione del secondo. Nello screditare tale mancata corrispondenza culturale (“volevamo fare il quotidiano di una destra veramente liberale”)  il rapporto d’informazione non avrebbe l’effetto voluto: il contenuto non potrebbe essere ricevuto o capito, oppure sarebbe capito male, con difficoltà e distonie rilevanti.

E’ quindi norma fondamentale per mettere in atto, con qualche risultato, un rapporto d’informazione, quella di essere edotti dei fattori di acculturazione del recettore. Solo  così il soggetto promotore potrà adeguarsi a lui. Adeguarsi, ma non rinunciare al suo scopo e a quella iniziativa sulla quale si era proposto di ottenere una conforme adesione di opinione.

Per Montanelli non sarà così. Appare sorprendente ma è la storia. «La Voce» chiude il 12 aprile 1995. Dopo i clamori dei primi mesi termina in sordina portando con se le amarezze del suo direttore.

S’intitola “Uno straniero in patria” l’ultimo editoriale del direttore.  Il titolone della prima pagina, quella dell’addio, suona così: “Il giorno degli sciacalli”. «Il mio viaggio finisce qui» dirà ai suoi redattori. Sempre controcorrente e fedele alle proprie convinzioni, fedele all’insegnamento per cui l’idea di uno vale più delle convinzioni della massa.

Di queste due esperienze, “Il Giornale” e “La Voce” dirà: «Sono state due battaglie e due sconfitte di cui vado fiero, ma che mi hanno lasciato addosso anche nel morale e nel fisico, troppe cicatrici».

Possiamo dire che, nell’annunciata sconfitta de “La Voce”, come uomo ebbe la sua vittoria, non come giornalista.

 

 

Il Bullismo: di chi è la colpa?

Tecniche di Relazione

Prof. Giuseppe Ragnetti

di Giulia Pasini – Matricola 231485

 

IL BULLISMO: DI CHI E’ LA COLPA?

OPINIONI A CONFRONTO

LA TECNICA DELLA TEORIA SOCIALE DELL’INFORMAZIONE DI FATTORELLO COME METODO DI INTERAZIONE CON I RAGAZZI

 

  Introduzione

 

Il bullismo è un malessere sociale fortemente diffuso, sinonimo di un disagio relazionale che si manifesta soprattutto tra adolescenti e giovani, ma sicuramente non circoscritto a nessuna categoria, né sociale, né anagrafica.

Questo fenomeno si evolve con gli anni, cambia forma, ed in età adulta lo ritroveremo in tante prevaricazioni sociali, lavorative e famigliari.

Provando a dare una sintetica definizione, in genere uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni[1].

Una recente indagine in Italia sul bullismo nelle scuole superiori ha evidenziato che un ragazzo su due subisce episodi di violenza verbale, psicologica e fisica ed il 33% è una vittima ricorrente di abusi.

Quindi il bullismo è una piaga sociale in continuo aumento. I media ci offrono spesso descrizioni di episodi di violenza tra ragazzi. Ma di chi è la colpa? Genitori, insegnanti, psicologi hanno diverse opinioni: c’è chi incolpa la scuola, chi la famiglia, chi i ragazzi stessi, accusati di non avere più valori.

Attraverso questa ricerca ho tentato di raggruppare le opinioni degli adulti e dei ragazzi in merito a questo tema. Per la psicologia i ragazzi che opprimono e quelli che subiscono sono il frutto di tutto una società che tollera la sopraffazione, in parte per cecità, in parte per tornaconto personale. Ignoranza ed indifferenza aggravano la situazione, oltre al tipo di educazione ricevuta in famiglia.

Secondo i giovani, per risolvere questo disagio, bisognerebbe creare un miglior rapporto tra studente ed insegnante, in modo che la quotidianità sia seguita e supportata sempre.

Gli insegnanti, la maggior parte con molti anni di esperienza professionale, rispondono che il bullismo è un fenomeno che si verifica in ragazzi soli interiormente, che hanno il desiderio di farsi notare dagli amici, per cercare l’approvazione che a livello scolastico e familiare non hanno. Per risolvere il problema la maggior parte dei docenti pensa che si debba riflettere con i ragazzi, attraverso il dialogo, mantenendo però la fermezza. Solo una piccola parte di loro suggerisce non il confronto, ma metodi più severi.

I genitori invece, spesso indicati come unici colpevoli, si difendono e chiedono il loro coinvolgimento nelle attività scolastiche e adeguati corsi per educare alla genitorialità.

Se analizziamo il problema a fondo vediamo che non esistono colpe specifiche, ma si potrebbe dire che è colpa della vita. Gli adulti tendono ad incolpare i ragazzi, accusandoli di non identificarsi con alcun valore. Ma ciò rappresenta un’analisi molto superficiale del problema. Non è vero che i giovani non hanno valori, ma hanno valori altri che gli adulti non riescono a cogliere. Bisogna cercare di capire i valori dei giovani per far si che le formule di opinione di genitori, insegnanti e psicologi riescano a trovare accoglimento nei ragazzi.

Bisogna conoscere i valori delle persone con cui interagiamo. Solo così riusciremo ad ottenere la loro adesione e a far capire la piaga sociale che il bullismo comporta.

Questi assunti sono alla base della Teoria della Tecnica Sociale dell’informazione di Francesco Fattorello, l’unica teoria italiana sull’informazione e sulla comunicazione formulata su rigorose basi scientifiche. Questa teoria si basa sul presupposto che non esiste una impostazione teorica sulla comunicazione sempre valida ed applicabile a qualunque recettore, ma una metodologia che si occupi di processi di relazione comunicativa deve essere necessariamente modellata sul recettore. Il recettore, non più soggetto passivo, diventa a sua volta un soggetto opinante di pari dignità che interagisce con il promotore, all’interno di una complessa dinamica sociale.

Vedremo che i recettori-ragazzi hanno un proprio sistema di valori che non coincide con quello degli adulti. Per poter veramente comunicare con loro occorre prima di tutto conoscerli, capirli. Solo in questo modo gli adulti potranno formulare le più adatte formule di opinione per averne l’adesione.

 

Capitolo 1

Il bullismo

 

Il bullismo è un concetto ancora privo di una sua puntuale definizione tecnica, sia giuridica che sociologica, ma è usato pressoché unanimemente per indicare tutta quella serie di comportamenti tenuti da soggetti giovani (bambini, adolescenti) nei confronti di loro coetanei, ma non solo, caratterizzati da intenti violenti, vessatori, e persecutori. Il fenomeno ha anche legami con la criminalità giovanile, il teppismo ed il vandalismo. Il bullismo per essere definito tale deve presentare tre caratteristiche precise:

  1. intenzionalità;
  2. persistenza nel tempo;
  3. asimmetria nella relazione.

Deve essere un’azione fatta intenzionalmente per provocare un danno alla vittima; ripetuta nei confronti di un particolare compagno; caratterizzata da uno squilibrio di potere tra chi compie l’azione e chi la subisce. Il bullismo, quindi, presuppone la condivisione del medesimo contesto.

Esistono due tipi di bullismo: diretto ed indiretto.

  • Il bullismo diretto è caratterizzato da una relazione diretta tra vittima e bullo e a sua volta può essere catalogato come:
  • bullismo fisico: il bullo colpisce la vittima con colpi, calci o spintoni, o la molesta sessualmente;
  • bullismo verbale: il bullo prende in giro la vittima, dicendole frequentemente cose cattive e spiacevoli o chiamandola con nomi offensivi o minacciandola;
  • bullismo psicologico: il bullo ignora o esclude la vittima completamente dal suo gruppo o mette in giro false voci sul suo conto;
  • cyberbullying o bullismo elettronico: il bullo invia messaggi molesti alla vittima tramite sms e chat, la fotografa e la filma in momenti in cui non desidera essere ripresa e poi invia le sue immagini ad altri per diffamarla.
  • Il bullismo indiretto è meno visibile, ma non meno pericoloso, e tende a danneggiare la vittima nelle sue relazioni con altre persone, escludendola ed isolandola per mezzo di violenze verbali.

Le cause primarie di questo fenomeno sono da ricercarsi, secondo gli esperti,  non solo nella personalità del giovane bullo, ma anche nei modelli familiari sottostanti, negli stereotipi imposti dai media, nella società di oggi a volte disattenta alle relazioni sociali. L’enorme eco che gli episodi di bullismo hanno ottenuto in quest’ultimo anno sui media segnala la diffusione di una crescente consapevolezza del problema. È di fondamentale importanza, infatti, che tutti riconoscano la gravità degli atti di bullismo e delle loro conseguenze per la crescita sia delle piccole vittime, che nutrono una profonda sofferenza, sia dei piccoli prevaricatori, che corrono il rischio di intraprendere percorsi caratterizzati da devianza e delinquenza. Da non sottovalutare la causa più importante: una libera scelta incondizionata e consapevole da parte del prevaricatore di danneggiare il compagno.

 

  1. 1 Alcuni dati

 

L’attenzione che i media hanno riservato nel corso dell’ultimo anno ad alcuni episodi particolarmente gravi di bullismo verificatosi all’interno delle scuole del nostro paese, e l’emergere del fenomeno del cyberbullismo, ovvero di atti di bullismo e di molestia effettuati o diffusi tramite mezzi elettronici, hanno contribuito a porre sotto i riflettori dell’opinione pubblica un tema non certo inedito, ma oggi particolarmente sentito.

Il Ministero della Pubblica Istruzione ha deciso di operare per comprendere meglio la dimensione e le caratteristiche del problema, costituendo un’apposita Commissione Legalità ed emanando, il 5 febbraio 2008, la Direttiva “ Linee di indirizzo generali ed azioni a livello nazionale per la prevenzione e la lotta al bullismo”. Con la Direttiva, oltre a dare conto di quanto stava accadendo all’interno delle scuole e ad invitare i singoli istituti ad intervenire inserendo adeguati strumenti sanzionatori all’interno  dei propri regolamenti interni, si è dato il via ad alcune iniziative quali gli Osservatori regionali sul bullismo presso gli Uffici Scolastici regionali, un numero verde di ascolto, consulenza, prevenzione ed un sito web[2].

Negli ultimi anni, infatti, il bullismo è stato oggetto di diverse ricerche che si sono occupate prevalentemente della sua dimensione qualitativa e psicologica, o comunque, della diffusione in porzioni ristrette di territorio.

Per colmare questa lacuna, l’ex Ministro della Pubblica Istruzione, Giusepppe Fioroni, ha deciso di realizzare la prima indagine nazionale sul bullismo che ha l’obbiettivo di ricostruire caratteristiche  ed entità del fenomeno a partire dalle opinioni dei diretti protagonisti.

Il Censis ha realizzato un’indagine significativa presentata a Roma nell’aprile 2008 dal titolo “Prima Indagine Nazionale sul Bullismo. Il Bullismo visto dai genitori”[3]: il primo dato che emerge riguarda   la massiccia consistenza e diffusione del fenomeno.

Altissima, pari al 49,9% del totale, risulta la quota di famiglie che segnala il verificarsi di prepotenze di diverso tipo (verbale, fisico, psicologico) all’interno delle classi frequentate dai propri figli, con una diffusione che risulta elevata in tutti gli ordini di scuola, e particolarmente nella scuola secondaria inferiore dove raggiunge il 59% delle classi.

Un altro elemento che emerge dall’indagine è quello per cui, spesso, in uno stesso gruppo di classe, i bulli tendono a combinare prepotenze di diverso tipo: entrando nello specifico delle singole azioni, i genitori nel 28,7% dei casi registrano offese ripetute ai danni di uno stesso alunno, nel 25,9% segnalano alunni che subiscono scherzi pesanti e umiliazioni, nel 24,6% riferiscono casi di isolamento, nel 21,7% di botte, calci e pugni. I furti di oggetti personali si verificano nel 21,4% delle classi. Meno diffuse, ma comunque presenti, le nuove forme di bullismo note come il nome di cyberbullismo, che presuppongono l’utilizzo della rete web e delle nuove tecnologie informatiche per far conoscere ad una platea quanto più vasta possibile l’accaduto. Il 5,8% degli intervistati dichiara che nella classe del figlio vengono fatte riprese e sono diffuse umiliazioni tramite cellulare; il 5,2% sa di insulti inviati attraverso sms o via e-mail.

Il bullismo è un fenomeno di gruppo in cui, oltre al bullo e alla vittima, è necessario che siano presenti altri componenti, ciascuno con il proprio ruolo.

 

1.2  Di chi è la colpa? Opinioni a confronto

 

Vediamo ora alcune opinioni degli specialisti e dei protagonisti del fenomeno, cioè gli adulti più vicini ai ragazzi: psicologi, genitori, professori.

 

1.2.1 La psicologia

 

In psicologia[4] il bullismo è considerato una categoria del comportamento aggressivo, con alcune caratteristiche distintive:

  • intenzionalità: il comportamento in oggetto è volto a creare un danno alla vittima;
  • le diverse forme in cui si manifesta: si può avere prepotenza fisica, verbale, indiretta;
  • sistematicità: il fenomeno ha caratteristiche di ripetitività e perseveranza nel tempo;
  • asimmetria di potere: nella relazione il bullo è più forte e la vittima più debole e spesso incapace di difendersi[5].

Il bullismo ha una modalità proattiva, ossia, è messo in atto senza provocazione da parte della vittima ed è agito al fine di giungere allo scopo dell’aggressore. Il bullismo trova la sua motivazione nell’affermazione di dominanza interpersonale, anche se in alcune forme può essere strumentale, ossia finalizzato al possesso di un oggetto o di uno spazio. Sono stati identificati i ruoli principali che i soggetti possono ricoprire in un contesto di prepotenza:

 

  1. IL BULLO: secondo Olweus[6] è caratterizzato da un comportamento aggressivo verso i coetanei e verso gli adulti, mostra scarsa empatia per la vittima e spesso è connotato da un forte bisogno di dominare gli altri. Molte ricerche indicano che i maschi hanno più probabilità delle femmine di essere coinvolti (Olwes, 1993; Whitney e Smith, 1993; Genta, 1996)[7].
  2. LA VITTIMA: Solitamente è più ansiosa ed insicura degli altri studenti, se attaccata reagisce piangendo e chiudendosi in se stessa. Soffre spesso di scarsa autostima e ha un’opinione negativa di sé e delle proprie competenze; vive in condizione di isolamento ed esclusione nella classe.
  3. IL BULLO-VITTIMA PROVOCATRICE: è caratterizzato da una combinazione di due modelli reattivi, quello ansioso proprio della vittima passiva, e quello aggressivo proprio del bullo. Ha comportamenti iper-reattivi, presenta difficoltà di regolazione a livello emotivo a differenza dei bulli non vittimizzati che mostrano invece un comportamento aggressivo più organizzato ed orientato verso uno scopo (Sutton, Smith e Swettenham, 1999[8]).
  4. SOGGETTI DI CONTROLLO o ESTERNI: si tratta di coloro che a nessun titolo sono coinvolti nel fenomeno. Per la rilevazione dei ruoli entro il gruppo si possono usare strumenti di autovalutazione, come il questionario anonimo sulle prepotenze di Olweus[9], dove si trovano domande a risposta multipla che chiedono ai soggetti di riferire circa prepotenze subite o agite in rapporto ad un arco di tempo definito, o la nomina dei pari che prevede la presentazione della definizione di prepotenza, e la successiva nomina dei compagni che spesso fanno prepotenze e di coloro che più spesso le subiscono.

Nella letteratura socio-psicologica i ruoli sono definiti come modelli di comportamento attesi da parte dei membri del gruppo. I ruoli perciò sorgono sempre nell’interazione sociale e sono determinati sia dalle caratteristiche individuali sia dalle aspettative degli altri. Parlare di bullo entro una classe non significa solo che quel soggetto compie certi comportamenti, ma che egli è percepito come tale dalla maggior parte dei membri del gruppo. E’ infatti da notare un’altra caratteristica distintiva del fenomeno bullismo, ossia che esso ha luogo in contesti di gruppi; si verifica a scuola, nei luoghi di lavoro o in altri gruppi sociali. Il potere del bullo risulta rafforzato dal supporto degli aiutanti, dall’allineamento dei sostenitori e dall’indifferenza di coloro che si tengono  fuori dal problema.

Con il termine bullismo la psicologia si riferisce perciò ad un processo dinamico in cui persecutori e vittime sono coinvolti in egual misura. Esistono due forme di bullismo:

  1. Diretto: si articola in prepotenze fisiche e verbali, parte dal prevaricatore e si rivolge direttamente alla vittima, che subisce attacchi fisici e verbali
  2. Indiretto: ha una vittima intrappolata in una serie di dicerie sul suo conto e in atteggiamenti di esclusione nei suoi confronti che la condannano all’isolamento.

 

Quanto all’atteggiamento delle figure di riferimento, i dati delle ricerche sono sconfortanti; secondo quanto riferito da Olweus[10], gli insegnanti non sembrano mettere in atto interventi diretti per contrastare il fenomeno e i genitori non sembrano esserne a conoscenza.

Rispetto alla stabilità nel tempo dei comportamenti rilevati, sembra che una volta che persecutori e vittime si sono insediati nel loro ruolo, non riescano più ad uscirne e continuino a recitare la stessa parte, pena la perdita della propria identità.

Circa le cause del bullismo, gli studi fino ad oggi condotti rimandano a una visione pessimistica della società nel suo complesso. Come afferma Olweus, i ragazzi che opprimono e quelli che subiscono sono il frutto di tutto una società che tollera la sopraffazione, in parte per cecità, in parte per tornaconto personale. Ignoranza ed indifferenza aggravano la situazione. Ciò che sembra correlarsi stabilmente con il manifestarsi di comportamenti prepotenti, sono il clima familiare ed in particolare gli stili educativi messi in atto dai genitori. Bambini che vivono in famiglie in cui regnano violenza e sopraffazione hanno maggiori probabilità di interiorizzare schemi di comportamento disadattivi; una madre con scarso coinvolgimento emotivo, uno stile di educazione improntato al permissivismo, sono altri fattori che predispongono ad un rapporto alterato con il mondo esterno.

Rispetto alle caratteristiche personologiche dei protagonisti dell’evento, Olweus dice che i bulli sono caratterizzati da aggressività generalizzata sia verso gli adulti sia verso i coetanei, da impulsività e scarsa empatia verso gli altri, hanno una buona opinione di sé e un atteggiamento positivo verso la violenza. Le vittime sono caratterizzate invece da atteggiamenti ansiosi e insicuri e da scarsa autostima.

Si è constatato che la condizione sia di vittima che di bullo appare legata a difficoltà nel riconoscimento delle emozioni.

Il bullo non agisce da solo, alcuni compagni infatti, svolgono un ruolo di rinforzo, altri formano un pubblico che incita e sostiene l’attività del persecutore, altri ancora si disinteressano; non manca poi chi tenta di opporsi fattivamente alle prepotenze per proteggere la vittima. In questo ruolo di difesa si trovano essenzialmente le femmine.

Godere del favore dei compagni significa disporre di preziose opportunità sociali, il rifiuto al contrario, porta l’ostilità dei compagni che si traduce, di solito, nell’esclusione dalle attività collettive.

Alcuni autori hanno sottolineato la funzione protettiva della relazione amicale: i soggetti con caratteristiche a rischio di vittimizzazione, nella misura in cui hanno amici, sono in grado di reagire e difendersi. Recentemente però l’ipotesi della funzione protettiva si è ridimensionata perchè l’amicizia tra soggetti antisociali può costituire un contesto in cui si pratica la coercizione. I ragazzi che hanno amici aggressivi possono essere spinti ad agire con prepotenza verso i coetanei.

Una ricerca apparsa sulla rivista Journal of Child Psychology and Psychiatry, svolta da Peter Fonagy dell’University College di Londra[11], ha dimostrato che il miglior modo per combattere il bullismo nelle scuole non sia quello di soffermarsi su coloro che compiono atti di violenza, ne sugli studenti che ne sono vittima, ma piuttosto su coloro che stanno ad osservare, cioè professori, genitori e studenti. Il team di Fonagy ha sottoposto 4000 studenti delle scuole elementari ad un programma della durata di tre anni in cui si invitano gli stessi ragazzi a prendere consapevolezza del proprio ruolo nei confronti degli episodi di violenza, descrivendo le proprie paure e il grado di empatia nei confronti degli studenti molestati. Nessuna punizione veniva inflitta a coloro che compivano atti di bullismo, e nessun tipo di supporto veniva offerto a coloro che subivano angherie. A tre anni dell’inizio del programma, i risultati hanno mostrato una significativa diminuzione degli episodi di violenza nelle scuole che avevano adottato questo programma rispetto alle scuole che avevano messo in atto un programma di controllo, in cui gli studenti vittime ricevevano un supporto psicologico continuo.

Secondo Fonagy la ricerca dimostra che la migliore arma contro il bullismo sia rappresentata dalla consapevolezza del proprio ruolo e di quello degli altri nei confronti degli atti di violenza. Nessun bisogno di intervenire come paladini della giustizia in aiuto dei compagni molestati, ma solo cercare di non chiudere i propri occhi facendo finta di niente. La causa quindi sarebbe dell’indifferenza secondo questo team di psicologi.

 

 1.2.2 I genitori

 

L’Associazione Italiana Genitori A. Ge. negli ultimi tempi si è opposta alla strumentalizzazione mediatica che mette la famiglia sul banco degli accusati a proposito dei problemi connessi al bullismo.

La sera del 13 marzo 2007 si è tenuto un processo mediatico in alcune trasmissioni televisive (Rai 1 e La 7) nei confronti dei genitori che, essendosi avvalsi della facoltà di non rispondere, in quanto assenti, si sono ritrovati pressoché gli unici e colpevoli responsabili delle inefficienze del sistema educativo nazionale e delle politiche scolastiche[12].

Secondo l’Associazione Italiana Genitori molto spesso nascono campagne, anche sulla carta stampata, volte a dimostrare, senza possibilità di replica, che i genitori sono colpevoli del bullismo e del degrado dell’istituzione scolastica, a causa dell’impossibile dialogo con le famiglie.

La famiglia però è sola ad affrontare tutte queste problematiche. Secondo i genitori, manca una adeguata politica di sostegno alle famiglie che consenta loro di affrontare le varie forme di disagio. E manca un vero protagonismo delle famiglie, che a volte sono consultate, spesso sono oggetto di interventi, ma difficilmente sono coinvolte nelle scelte.

Anche sul versante scolastico, si parla sempre più spesso del genitore-utente, e mai del genitore come componente attiva della scuola, come prevede invece la legge. Vi sono temi da sempre elusi dagli operatori della scuola: la partecipazione dei genitori a scuola, faticosamente operata e conquistata, l’alleanza educativa scuola-famiglia, i genitori come possibile risorsa per l’educazione, la corresponsabilità di tutti gli attori dell’educazione scolastica nell’affrontare i problemi vecchi e nuovi, l’associazionismo educativo dei genitori, riconosciuto dalla legge ma ignorato nella pratica.

Un ruolo attivo negli organi collegiali della scuola, il funzionamento dei Forum delle Associazioni dei Genitori nella Scuola, il coinvolgimento dei genitori negli osservatori sul Bullismo: questi sono gli impegni concreti che i genitori chiedono alle istituzioni e al Ministero della Pubblica Istruzione. Spazio e risorse alle associazioni dei genitori per fare formazione ed educazione alla genitorialità.

 

1.2.3 Professori ed Alunni

 

E’ difficile avere una visione completa su ciò che i ragazzi stessi e i professori pensano circa questo fenomeno.

Secondo un’ intervista condotta da un giornalista di “La Stampa” a professori e studenti del liceo scientifico “Galilei” di Cirié, in provincia di Torino[13], alla domanda “Che cosa è per te il bullismo?” gli studenti rispondono che è una forma di espressione adottata da ragazzi soli, immaturi e senza alcuna fiducia in se stessi che cercano di mascherare la loro fragilità attaccando ragazzi più deboli, e a volte più giovani di loro. Questo comportamento, dovuto principalmente a problemi familiari, permette agli adolescenti di costruirsi un mondo parallelo nel quale si sentono ingenuamente migliori.

Alla domanda “Hai mai assistito o sei mai stato vittima di episodi di bullismo?” la maggioranza dei ragazzi risponde di non avere mai subito violenza né verbale né fisica, ma alcuni dicono di essere stati più volte oggetto di scherno, nell’ambito scolastico, da parte di coetanei. Inoltre un gran numero di studenti afferma di aver assistito a fatti di bullismo, ma al di fuori della scuola. Secondo i giovani, per risolvere questo problema, bisognerebbe creare un miglior rapporto tra studente ed insegnante, in modo che la quotidianità sia seguita e supportata sempre, e non solo attraverso uno sportello di ascolto, già presente in questa scuola.

Gli insegnanti, la maggior parte con molti anni di esperienza professionale, rispondono che il bullismo è un fenomeno che si verifica in ragazzi soli interiormente, che hanno il desiderio di farsi notare dagli amici, per cercare l’approvazione che a livello scolastico e familiare non hanno. La maggior parte dei docenti rivela di non aver mai assistito a veri episodi di bullismo.

Secondo gli insegnanti l’atteggiamento costante di sfida, a volte  riscontrabile in classe nei confronti dell’insegnante stesso, e dei compagni, è il segno distintivo del bullo. Per risolvere il problema la maggior parte dei docenti pensa che si debba riflettere con i ragazzi, attraverso il dialogo, mantenendo però la fermezza. Solo una piccola parte di loro suggerisce non il confronto, ma metodi più severi.

 

Capitolo 2

La Teoria della Tecnica Sociale di Fattorello come metodo di interazione con i ragazzi

 

 

2.1 La Teoria della Tecnica Sociale

 

La Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione di Francesco Fattorello[14] spiega, con una breve ma esaustiva formula, quali siano le correlazioni tra i vari fattori che operano in ogni processo di informazione.

La formula ideografica della Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione ha una duplice caratteristica: la prima analitica, in quanto affronta lo studio delle condizioni necessarie e sufficienti ad una corretta informazione; la seconda operativa, perché spiega come attivare un rapporto di informazione.

La sua rappresentazione grafica è la seguente:

X)

M                                                                   M’

 

 

SP                                                            SR-SP’                                                      SR’-SP’’…

 

O                                                                   O’

 

 

Dove:

  1. X) = motivo per cui si mette in atto un rapporto di informazione

SP = Soggetto Promotore

M = Mezzo

O = Formula di Opinione, modo in cui il Soggetto Promotore interpreta i fatti

SR = Soggetto Recettore

 

L’informazione è un fenomeno sociale che diventa concreto nel rapporto tra chi informa, il Soggetto Promotore ( SP), ed il suo destinatario, il Soggetto Recettore (SR).

Il Soggetto Promotore interpreta secondo la propria visione soggettiva un fatto, la materia oggetto del processo di informazione (X), che può essere tutto ciò di cui si vuole informare l’altro (un avvenimento, un evento, un personaggio…). Il Soggetto Promotore trasmette l’informazione grazie ad un Mezzo (M), strumento attraverso cui si comunica il messaggio al Soggetto Recettore.

Il Soggetto Recettore elabora l’informazione usando un modo di raccontare l’accaduto: questo elemento è chiamato “ Formula d’Opinione” e varia a seconda del destinatario del messaggio.

A seconda del Soggetto Recettore varieranno sia la Formula d’Opinione, sia il Mezzo.

Il Soggetto Promotore è colui che si fa carico di iniziare il rapporto di informazione. La lettera S rappresenta un punto chiave nell’identificazione di questo termine, in primo luogo perché tale lettera lo accomuna al Soggetto Recettore e li rende pari, dotati delle medesime capacità cognitive e opinanti, ed in secondo luogo perché mette in evidenza che ciò che il Soggetto Promotore emana è soggettivo. Ogni azione e informazione promossa dal Soggetto Promotore porterà sempre con se la paternità di chi l’ha generata, quindi l’informazione non potrà mai essere obiettiva, sradicata dal contesto di chi la propone, ma al contrario sarà segnata da quei fattori di cui si è nutrito il Soggetto Promotore.

Il Soggetto Promotore, nella formula ideografica, è saldamente legato, da tratti che non hanno un verso preferenziale di percorrenza per sottolineare come tutto sia mutuamente collegato e interdipendente, sia ad M, che rappresenta il mezzo, sia ad O, che rappresenta la formula di opinione adottata per il singolo rapporto di informazione. Il Soggetto Promotore quindi ha la facoltà di scegliere di quale mezzo avvalersi per trasmettere l’informazione scelta.

Il Soggetto Recettore è colui al quale è indirizzato il rapporto di informazione, è il destinatario e il fruitore dell’azione. Non lo si può considerare passivo perché è condizionatore delle opinioni proposte ed è libero di decidere se e a quale formula aderire. I Soggetti Recettori non ricevono un solo rapporto di informazione, quindi bisogna tenere conto che altri Soggetti Promotori potrebbero cercare di interessarlo e di arrivare fino a lui.

Inoltre egli è limitato dal mezzo utilizzato: alcuni strumenti hanno un’estensione limitata, ad esempio i quotidiani locali o regionali, altri strumenti, quali i mass media o i new media, diventano accessibili solo per chi li possiede e per chi può utilizzarli.

Considerando l’enorme diversificazione tra Soggetti Recettori, è necessario avvalersi di studi e di metodi statistico-sociologici per l’analisi del recettore, per sapere dove vive, cosa fa, quali valori sono comuni al suo gruppo. Questi metodi danno vita ai sondaggi d’opinione.

Il Soggetto Recettore, nella formula ideografica, è legato al mezzo M e alla formula d’opinione O, collegamento indispensabile perché è il Soggetto Recettore che influenza O e che suggerisce come dovrebbe essere affinché egli stesso non la rifiuti. Esiste infatti anche la possibilità di rifiutare l’informazione e di non condividere l’opinione proposta.

O rappresenta la formula di opinione, l’interpretazione del fatto, è il tramite tra il Soggetto Promotore e il Soggetto Recettore. Il Soggetto Promotore deve tener conto delle attitudini sociali del Soggetto Recettore: infatti è solo quando i due soggetti sono sullo stesso piano che ci può essere comunicazione, perché entrambi devono avere qualcosa da mettere in comune e qualcosa su cui convergere, cioè l’opinione. Le formule d’opinione possono essere innumerevoli perché dipendono dalle personalità del Soggetto Promotore e del Soggetto Recettore; O quindi dipende soltanto da SP e da SR e non da X). Infatti su uno stesso avvenimento ( a parità di X) ),  promotori diversi possono costruire formule di opinione diverse per diversi recettori.

Nella rappresentazione ideografica della formula Fattorelliana O non è legato ad M ma ne influenza ugualmente la scelta e l’utilizzo.

Il punto M nella formula ideografica coincide con il mezzo con cui il Soggetto Promotore intende contattare il Soggetto Recettore e rappresenta quella serie di strumenti (voce, editoria, cinema, radio, televisione) che mettono in comunicazione i due soggetti. Il Soggetto Promotore deve scegliere il mezzo più opportuno per selezionare il Soggetto Recettore, cioè per contattare esclusivamente il target prescelto.

Come spiega Giuseppe Ragnetti[15] la teoria di Fattorello è stata definita “sociale” perché il Soggetto Promotore deve tener conto di tutto ciò che ha socializzato l’individuo, i meccanismi sociali che mette in atto nei gruppi, che sono all’origine del processo dell’opinione pubblica.

L’informazione utilizza i mezzi di comunicazione  di massa destinati ad un pubblico indeterminato, tra cui stampa, radio, cinema, televisione ed internet. L’attività del promotore è limitata nella quantità di mezzi di cui dispone e nelle caratteristiche tecniche di questi mezzi.

La realtà non può essere comunicata, ma può essere trasmessa la formula d’opinione che il Soggetto Promotore propone in modo da adattarsi al Soggetto Recettore ed ottenerne l’adesione.

La Tecnica Sociale dell’Informazione del professor Fattorello  ha restituito dignità al Soggetto Recettore, rendendolo protagonista del processo comunicativo. “Il processo dell’informazione e dell’adesione di opinione ha un carattere sociale perché è figlio del tempo in cui si realizza e non ha nulla a che vedere con il comportamento del recettore.”[16]

 

 2.2 La Tecnica Sociale come metodo di interazione con i ragazzi

 

Una metodologia che si occupi dei processi della relazione comunicativa deve, in base a questa impostazione, necessariamente essere modellata sul recettore.

Come vi è una tecnica industriale per lavorare sui materiali, così esiste una tecnica sociale per agire sulle opinioni degli uomini[17].

Nel caso del bullismo i recettori dell’adulto, professore o genitore che sia, sono i ragazzi. Questi recettori necessitano di un determinato linguaggio e di un determinato mezzo congeniale al loro mondo, al sistema di socializzazione in cui sono cresciuti e ai loro valori.

E’ impensabile voler trovare soluzioni al fenomeno del bullismo senza tener conto dei ragazzi e delle loro esigenze, senza entrare in contatto con loro. Non si possono costruire politiche scolastiche, modelli educativi e sanzionatori dall’alto, senza prima aver capito l’ambito culturale dei giovani e i loro valori. Si, perché non è vero che i giovani di oggi non hanno più valori come molti dicono, ma hanno “valori altri”, che gli adulti, troppo impegnati su sé stessi, non riescono a cogliere.

E’ facile dare la colpa ai rapporti famigliari, alla scuola, al sistema sociale, ai modelli offerti dai media. Ognuno ha la sua opinione ma nessuno si è mai chiesto: “come si può comunicare con i ragazzi entrando in contatto con loro per fargli capire che i loro problemi e le angosce quotidiane non vanno sfogate con la violenza?”. Il punto di partenza sono loro, i ragazzi-recettori.

Solo analizzando i recettori, i ragazzi, si può trovare la forma più opportuna per trasmettere loro una determinata formula di opinione, cioè la negatività dei comportamenti violenti contro i loro compagni.

L’analisi preventiva del recettore deve tener conto della conoscenza dei motivi culturali che possono ispirare il suo comportamento, quindi di credenze e tradizioni che appartengono al suo mondo. Il singolo comportamento spesso è condizionato anche dal conformismo sociale e dai fattori di conformità[18].

Affinché la trasmissione dal primo al secondo termine, cioè dal soggetto promotore al soggetto recettore, diventi operante “è necessario che la forma immessa nel processo abbia una tale carica sociale da determinare quella adesione di opinione che ci proponiamo di ottenere dal recettore. La carica di forza sociale dipende anche dal fattore di conformità, il quale deve essere tale da raggiungere il recettore nel punto di maggiore sensibilità: ciò si ottiene con un adeguamento ai suoi desideri oppure alla sua curiosità”[19]. Solo così può verificarsi il fenomeno che Fattorello chiama “polarizzazione delle opinioni”. Adeguarsi ai desideri dei ragazzi, alla loro curiosità. Parlare con loro mettendosi alla pari, capire le loro esigenze. Questo potrebbe essere un metodo di prevenzione agli episodi di bullismo.

Il promotore sceglie lo strumento più adatto al suo scopo e configura il messaggio nel modo più conveniente al fine di ottenere l’adesione di opinione cui mira. Il recettore infatti obbliga il promotore alla conoscenza delle sue possibilità e facoltà recettive e condiziona l’elaborazione dei messaggi che gli devono essere adeguati, altrimenti non saranno percepiti.

I messaggi destinati ai ragazzi devono essere formulati in base ai valori dei giovani: solo così le formule di opinione di genitori e insegnanti riusciranno a trovare accoglimento nei ragazzi e la loro adesione. La comunicazione avverrà quando, tra promotore-adulto e recettore-ragazzo, ci sarà convergenza di interpretazione su quanto proposto. I ragazzi interpretano il messaggio accettando o respingendo le formule di opinione proposte a seconda che queste rispecchino o meno la loro scala di valori, le loro attitudine sociale e la loro acculturazione.

Spesso si parla di divario generazionale e di contestazione da parte delle nuove generazioni. Questo è dovuto semplicemente al fatto che, nell’interazione, gli adulti applicano la loro scala di valori, ma questa differisce completamente da quella dei ragazzi.

In conclusione, le armi migliori sono quelle più semplici: ascoltare i ragazzi e farli parlare.

 

Bibliografia e Sitografia

 

Fagnani G., Il bullismo e i suoi aspetti. Il fattore amicizia, www.psicolab.net.

Fattorello F., La teoria della Tecnica sociale dell’informazione, a cura di G.Ragnetti, Quattro Venti, Urbino, 2005

Olweus D., Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti Editore, Firenze 1996

Ragnetti G., Opinioni sull’opinione, Ed. QuattroVenti, Urbino, 2006

 

www.age.it

www.censis.it

www.lastampa.it

www.opsonline.it

www.psicolab.net