Quale menù per quale recettore ?

This gallery contains 18 photos.

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” Laurea Specialistica in Editoria Media e Giornalismo Alice Muri Corso di Laurea: Tecniche di Relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti Anno 2008/2009 QUALE MENU’ PER QUALE RECETTORE?

Chi ha paura del lupo cattivo? Pubblicità e condizionamento

Serena Calabrò

Corso di Tecniche di Relazione  (Prof. Ragnetti) – A.A.2008-2009

CHI HA PAURA DEL LUPO CATTIVO? PUBBLICITÀ E CONDIZIONAMENTO

Coloro che hanno in mano questo meccanismo (la pubblicità) […] costituiscono […] il vero potere esecutivo del paese. Noi siamo dominati, la nostra mente plasmata, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, da gente di cui non abbiamo mai sentito parlare. […] Sono loro che manovrano i fili… “.

È con questo tono, direi alquanto apocalittico, che Edward Bernays, pubblicitario vissuto tra il 1891 e il 1955, parla della pubblicità in un libro dall’eloquente titolo: “Propagande”.

Si parla addirittura di “mente plasmata”, di “gusti formati”, di “idee suggerite”. Insomma: al nostro povero “individuo”, secondo questa tragica visione, rimarrebbe ben poco di individuale! Bernays aveva organizzato la campagna pubblicitaria per la American Tobacco Company negli anni Venti. L’obiettivo era quello di incitare le donne a fumare e per questo il pubblicitario aveva scelto di associare visivamente, in maniera costante, la sigaretta e i diritti o la libertà della donna. Si registrò, successivamente, un notevole aumento delle vendite.

Dobbiamo ammettere che la considerazione per le facoltà dell’uomo fosse, già allora, piuttosto bassa!

Fiumi e fiumi di inchiostro versati per mettere in guardia il povero consumatore dal mostro cattivo che è la pubblicità! Ricerche e indagini, d’altro canto, per studiare la psiche del consumatore ideale, per entrare “nelle sue viscere”, per aprire il suo cervello e guidarlo come un burattino nei meandri del mercato! Niente di più sbagliato.

Si pretende di poter “manipolare” (nel senso più logorato e negativo del termine) l’individuo: basterebbe una buona pubblicità, la cui formula sarebbe segreta o sconosciuta (fate voi!), per ottenere il proprio scopo. Solo una bacchetta magica e, di fronte alla stragrande potenza di uno spot televisivo di 30 secondi, il popolo dei consumatori sarebbe sconfitto!

A giudicare da quanto detto dovremmo avere le case piene di Coca Cola, Sofficini e biscotti Plasmon! Per fortuna non è così! Ma…andiamo con ordine!! A proposito di coca cola…e di pop corn…

Tra i più grandi strafalcioni della storia non possiamo non citare la grande e terribile potenza attribuita alla cosiddetta pubblicità subliminale! Solo il nome incute paura al povero e ignaro cittadino del mondo!

In realtà non c’è niente di più divertente (od offensivo: dipende dai punti di vista!) per chi sia dotato di almeno un pizzico di ironia e, soprattutto, di quella (naturale) consapevolezza delle proprie prerogative e qualità, peraltro prettamente umane!

L’evento che portò alla ribalta l’argomento della pubblicità subliminale è ormai molto noto.

Nel 1957 James Vicary, uno studioso di marketing, durante la proiezione di un film, mandò sullo schermo tramite un apposito strumento, le scritte «bevete Coca-Cola» e «mangiate pop corn». Il tempo di proiezione, 1/3000 di secondo, risultava così breve da rendere impossibile la visione agli spettatori. Alla fine del film si scoprì che vi era stato un consumo medio di Coca-Cola e pop corn statisticamente superiore alla media, dal che se ne dedusse che il comportamento d’acquisto era stato condizionato da quel messaggio non visto (subliminale). L’ulteriore deduzione che seguiva era incredibile: si prospettava l’ipotesi di poter influenzare i consumi di una persona semplicemente proponendole dei messaggi di cui essa stessa rimaneva ignara. Ne derivò un dibattito a livello etico sulle implicazioni di questa tecnica e, contemporaneamente, aumentarono le pressioni e gli studi sulla “formula magica” utilizzata da Vicary. A nulla valse la sua più radicale affermazione:

«L’esperimento era stato tutta una montatura […] allo scopo di allargare la clientela della mia ditta di marketing che attraversava un momento di difficoltà»(1962).

Dal 1962 ad oggi non è cambiato molto! Forti dell’esperienza americana, ancora nel XX secolo, nonostante i risultati raggiunti dalle discipline inerenti la comunicazione, si pretende di parlare in maniera asimmetrica di “emittente” e “destinatario”, con la consequenziale dequalificazione quasi totale dell’individuo.

Ancora oggi parliamo di “target”, il nostro “bersaglio”, obiettivo dell’alluvione mediatica cui siamo sottoposti ogni giorno (ma…ce ne rendiamo davvero conto???). Il target è il soggetto diventato oggetto, è incapace di opporre resistenza alla “pioggia” incessante di messaggi.

E ancora oggi le librerie proliferano di studi sulla persuasione (occulta o manifesta che sia), sulla sottomissione totale del cliente. Sappiamo qual è il più grande potere della pubblicità? Semplice: saper creare necessità e bisogni.

Da questa visione quasi fantascientifica sembrerebbe che, studiando i meccanismi della psiche alla base dell’atto dell’acquisto, si riuscirebbe ad indurre noi consumatori a comprare un determinato prodotto indipendentemente dalla sua necessità pratica. Tuttavia ne usciremmo soddisfatti, almeno psicologicamente.

Ed è questo il nodo centrale e la base da cui si perpetua l’errore primitivo della sopravvalutazione della pubblicità. Essa, infatti, è pur sempre informazione così come viene intesa dalla tecnica sociale. Pertanto, come fenomeno sociale, deve fare i conti con un recettore che, non soltanto si vede riconosciuto lo status di “soggetto opinante”, ma, ugualmente, è inserito in un contesto sociale e storico ben preciso, fa parte di un gruppo, al quale tende a uniformarsi, ed è figlio di un processo di acculturazione che ne ha definito le attitudini e gli interessi.

La pubblicità, pertanto, per quanto possa essere ben costruita, non può assolutamente agire sulle attitudini, non può creare nuovi bisogni o necessità, non inventa nulla, si limita a dar voce a quello che già esiste. Essa può agire soltanto, in una dimensione concorrenziale con l’intero mondo pubblicitario, su quella creatura mutevole e imperfetta che è l’opinione proponendo la sua “forma” della realtà e non la realtà stessa.

Suo obiettivo dovrebbe essere non tanto la ricerca degli strani meccanismi psicologici per “forzare la testa” dell’individuo (cosa peraltro impossibile: è l’individuo che si “apre” al messaggio), ma, piuttosto, la confezione di un messaggio calibrato sull’individuo stesso, un messaggio costruito per ottenere una sua adesione d’opinione. Adesione d’opinione che non significa necessariamente e di conseguenza atto dell’acquisto: l’atto in sé è un momento esterno al fenomeno sociale e dipende da fattori e variabili contingenti all’individuo (possibilità economica, accessibilità del prodotto ecc).

Qualcuno potrebbe allora chiedersi: come spieghiamo allora l’assalto ai negozi per l’acquisto dell’ultimo gioiello della tecnologia?

In due parole: conformismo sociale. È impossibile resistervi. L’uomo ha bisogno di essere accettato dal gruppo e si conforma ai suoi valori. Opinare è l’atto supremo dell’umanità dell’individuo: significa porsi in rapporto col mondo e con gli altri.

La solitudine uccide l’uomo.

La Comunicazione

LA COMUNICAZIONE

Semplice e Complessa
come i sogni più nascosti
Confusa e Chiara
come il ricordo più lontano
Piacevole e Imbarazzante
come una dichiarazione d’affetto
Sincera e Diplomatica
come un accordo di pace
Impulsiva e Ragionata
come una giovane poesia
Colorata e Spenta
come il ritratto della vita

Miliardi di farfalle variopinte
che svolazzano
sembrano perse
ma stanno solo aspettando
la brezza giusta
che le aiuti a raggiungere
la loro meta
Miliardi di farfalle variopinte
che uscite
in fretta
da una bocca sfrenata
arrivano in un orecchio
poco attento
che le muta in serpenti
e le caccia via.

Beatrice Pini
Urbino 07/06/05 ( Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione. Esame di Tecniche relazionali e comunicative. Prof. Giuseppe RAGNETTI Voto: Trenta e lode)

 

Chomsky e Fattorello a confronto: tra manipolazione e libertà

 

CORSO DI METODOLOGIA DELL’INFORMAZIONE E TECNICHE DELLA COMUNICAZIONE

Prof. Giuseppe Ragnetti – Anno 2011

Lavoro finale di Marta Minotti

 

CHOMSKY E FATTORELLO A CONFRONTO: TRA MANIPOLAZIONE E LIBERTA’

Abstract

Il presente lavoro si propone di mettere a confronto le teorie elaborate rispettivamente da Noam Chomsky e da Francesco Fattorello riguardanti l’ambito della sociologia della comunicazione.

All’affermazione pessimistica di Chomsky secondo cui “i cittadini delle società democratiche dovrebbero seguire un corso di autodifesa intellettuale per evitare la manipolazione e il controllo”, Fattorello risponde tramite la sua tecnica sociale dell’informazione, che attribuisce pari dignità ai soggetti del processo comunicativo. Il soggetto recettore giudica liberamente e autonomamente le opinioni formulate dal soggetto promotore, il quale non è in grado di influire sulle scelte del soggetto recettore. Quest’ultimo agirà in base ai proprio bisogni e in base a degli schemi che sono frutto della sua acculturazione.

Si concluderà affermando che, contrariamente a ciò che viene sostenuto da Chomsky, non esiste alcuna forma di controllo ideologico sulla popolazione; piuttosto, sarà quest’ultima a dettare le leggi che sono alla base del processo di comunicazione, indicando agli “addetti ai lavori” le proprie aspettative e, soprattutto, i propri bisogni.

Sei al bar, sei uscito con i tuoi amici, per divagarti, per prendere un caffè, per stare un po’ in allegria. Si affrontano vari argomenti, si parla del più e del meno, si menziona un programma televisivo, un servizio del telegiornale, una pubblicità che ci ha particolarmente colpito e si finisce inevitabilmente per condire i nostri discorsi con “ingredienti lessicali” dal gusto amaro: condizionamento, persuasione occulta, messaggi subliminali, strapotere dei mezzi di comunicazione. Al bar eri entrato come libero cittadino, come libero pensatore, credendo di aver arbitrariamente deciso di condividere con i tuoi amici un sabato pomeriggio, davanti ad un caffè gustoso e ad una brioche deliziosa.

Alla fine, torni a casa con la convinzione che quell’uscita non possa più essere definita come “libera”, bensì come “condizionata” da una serie di fattori a noi ignoti, da una forza suprema che si è insinuata in maniera subdola nella nostra psiche al punto da obbligarci a frequentare quegli amici, quel bar, a bere quel caffè e a mangiare quella brioche.

Ma cosa ci spinge a pensare che qualcuno o qualcosa complotti contro di noi? Che qualsiasi cosa facciamo sia il frutto di una manipolazione da parte di cospiratori che controllano le nostre menti affinché tramite le nostre azioni possano raggiungere i loro scopi economici e politici?

L’esempio citato potrebbe sembrare un’esagerazione; si pensi, tuttavia, a quante volte si finisce per attribuire la scelta di un prodotto, nel nostro caso un caffè o una brioche, a un condizionamento che l’ambiente o la pubblicità ha operato su di noi.

Ma a cosa si può imputare la causa di questo senso di oppressione e di persecuzione che genera inevitabilmente pessimismo? La risposta si trova nei manuali di sociologia della comunicazione: a cavallo tra fine Ottocento e inizi Novecento, prendono piede in Europa nuove teorie riguardanti la società, come il concetto di “uomo-massa”, che ha particolare risonanza all’interno della Scuola di Francoforte.

Quest’ultima afferma che la legittimazione dell’ideologia dominante avviene attraverso un consumo quasi esclusivamente passivo che impedisce ogni forma di ribellione. La massa indistinta accetta in modo passivo e acritico le strutture di dominio esistenti. Attraverso le merci, e in particolar modo tramite i prodotti dell’industria culturale, la logica del capitalismo si impone al punto da non consentire più sguardi critici.

Anche oltreoceano si avverte l’eco di tali teorie: si sviluppano delle scuole di pensiero che definiscono il consumatore come target, ossia come bersaglio che gli strumenti del potere possono colpire a loro piacimento in modo da costringerlo a compiere involontariamente azioni finalizzate ai loro scopi utilitaristici.

Nell’ambito di tali teorie, si impone in particolar modo, a partire dalla fine degli anni ’60, quella di Noam Chomsky, linguista, filosofo e teorico della comunicazione statunitense, il cui intento è quello di spiegare come avvenga la disinformazione e quindi la manipolazione intellettuale dell’opinione pubblica attraverso i mass media.

Egli parte dal presupposto che chi detiene lo strumento dell’informazione/comunicazione ha il mezzo indispensabile per poter “comandare” tutto, in ogni settore della vita pubblica e privata. Chomsky è famoso per aver elaborato un decalogo che indica le diverse strategie utilizzate dai mass media per manipolare tutta l’opinione pubblica interessata.

Il primo punto riguarda la strategia della distrazione, secondo cui le élite politiche ed economiche distolgono l’attenzione del pubblico dai problemi importanti, inondandoli di informazioni insignificanti. “Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali”.

Il secondo punto analizza il metodo del “problema – reazione – soluzione”: ad esempio, creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici. Il terzo punto riguarda la strategia della gradualità: per far accettare una misura impopolare, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi.

Inoltre, aggiunge Chomsky, una strategia per far accettare una decisione impopolare è presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento. Il quinto punto spiega come la maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usi discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni.

Inoltre, la pubblicità sfrutta l’aspetto emozionale molto più della riflessione, in quanto il tono emotivo permette di influire sull’inconscio in modo da iniettare idee, desideri, paure, timori o da provocare determinati comportamenti. Le élite del potere devono mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità, spingendo il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti.

Bisogna far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile delle proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di depressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. In ultimo, comandamento fondamentale, è conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca, in modo che il sistema possa esercitare un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su sé stessa.

Il decalogo citato è frutto di un attento studio sul sistema dei mass media, i quali, afferma Chomsky,
assolvono la funzione di comunicare messaggi e simboli alla popolazione. Il loro compito è di divertire, intrattenere e informare, ma allo stesso tempo di inculcare negli individui, tramite una propaganda sistematica, valori, credenze e codici di comportamento.

Tuttavia, i mass media sono a loro volta nelle mani di un’élite dominante che svolge nei loro confronti un controllo monopolistico affinché essi servano i loro fini. La parte dei media in grado di raggiungere un pubblico sostanzioso è legata a grandi imprese, a loro volta controllate da gruppi ancora più grandi. Le notizie devono passare attraverso dei “filtri” messi a punto dalle élite dominanti affinché esse possano arrivare alla stampa prive di tutti quegli elementi che non siano meritevoli di pubblicazione.

Tali filtri agiscono in modo talmente subdolo da ingannare anche i giornalisti: questi ultimi sono convinti di agire con assoluta onestà e in perfetta buona fede e di scegliere e interpretare le notizie in modo oggettivo e nel rispetto dei valori professionali. È anche vero che i giornalisti che entrano nel sistema non possono farsi strada se non si adeguano alla pressione ideologica ad opera degli inserzionisti pubblicitari.

L’obiettivo di Chomsky è spiegare il funzionamento dei più avanzati sistemi democratici dell’era moderna, i quali, pur dovendo in linea di principio erigere il popolo a sovrano di tutte le decisioni, vedono il potere concentrasi nelle mani della classe privilegiata, che modella il modo di pensare della popolazione in base ai suoi interessi.

“La mia personale opinione”, afferma Chomsky, “è che i cittadini delle società democratiche dovrebbero impegnarsi in un lavoro di autodifesa intellettuale per proteggersi dalla manipolazione e dal controllo e per gettare le basi d’una democrazia più significativa”.

Pertanto, egli propone una “democratizzazione” dei media, ossia il loro affrancamento dai vincoli del potere privato o statale e auspica che emergano delle forze popolari in grado di opporsi alle strutture del dominio e dell’autorità che governano le vite degli uomini attraverso un sistema di illusioni e inganni adottato per mantenere passiva e marginalizzata “la plebe”.

Con particolare riferimento agli Stati Uniti, Chomsky afferma che dal 1917 fino alla fine degli anni ’80, la “belva bolscevica” ha fornito una pronta giustificazione per accettare ogni violenza legata agli interventi statunitensi nel Terzo Mondo. Il potere e la brutalità della tirannia sovietica erano usati per impaurire la popolazione e quindi per indurla ad accettare sacrifici e disciplina.

La scomparsa dell’URSS ha imposto uno spostamento dell’orientamento propagandistico verso il terrorismo internazionale, i narcotrafficanti latinoamericani, gli arabi, ecc.
I giornalisti scoprono che conformarsi al sistema ideologico architettato dal potere statale e dalla grande industria è più semplice e permette di ottenere privilegi e prestigio. Mettere in questione l’ideologia dominante significherebbe essere tacciati di fanatismo ideologico e essere espulsi dal sistema.

In questo modo, i media principali e le altre istituzioni ideologiche non fanno che riflettere le prospettive e gli interessi del potere costituito. Chomsky afferma che, nelle società democratiche più avanzate, si riscontra il declino progressivo delle istituzioni culturali che appoggiano valori e interessi diversi da quelli dominanti, così da privare i singoli dei mezzi necessari per pensare e agire in maniera autonoma al di fuori dell’assetto imposto dal potere economico.

Chomsky emana una sentenza molto pessimistica, ritenendo necessario assicurare che coloro che governano il Paese e che controllano gli investimenti siano contenti, altrimenti tutti saranno costretti a soffrire: “per i senzatetto che stanno nelle strade, quindi, è prioritario far sì che gli abitanti delle ville siano ragionevolmente soddisfatti; […] l’unica cosa razionale da fare appare la massimizzazione dei vantaggi individuali a breve termine, insieme alla sottomissione, all’obbedienza, nonché all’abbandono dell’arena pubblica”.

Nella nostra democrazia, afferma Chomsky, “il cittadino è un consumatore, un osservatore, non un partecipante”. Sono coloro che detengono il potere economico ad assumersi l’onere di controllare la pubblica opinione, costruendo il consenso attraverso i media e sopprimendo le forze contrarie al loro potere. Per dimostrare la modalità con cui si esplica l’operazione di controllo ideologico interno, Chomsky ha analizzato in particolar modo il periodo storico della Guerra del Vietnam e dei movimenti popolari degli anni ’60 che dovevano essere controllati e neutralizzati, avendo messo in pericolo le capacità concorrenziali delle grandi imprese americane sul mercato mondiale.

Dunque, è stato necessario svolgere un’intensa operazione di fabbricazione del consenso nei confronti dell’élite culturale per costituire “l’illusione necessaria” degli Stati Uniti come parte offesa e dei vietnamiti come aggressori. Infatti, il bersaglio principale della propaganda è di regola costituito da quelli che sono ritenuti “i membri più saggi della comunità”, gli “intellettuali”, gli “opinion leader”, che servono ad arginare possibili sommosse popolari e a controllare il consenso.

Chomsky afferma che nel sistema democratico le illusioni necessarie non possono essere imposte con la forza, ma devono essere istillate nella mente delle persone con mezzi più raffinati. In democrazia c’è sempre il pericolo che il pensiero indipendente dia origine ad un atto sovversivo, quindi è indispensabile eliminare tale pericolo.

Tuttavia, il dibattito non può essere messo a tacere, né sarebbe opportuno farlo, perché in un sistema propagandistico ben organizzato esso può avere una funzione di appoggio alle istituzioni se incanalato entro limiti adeguati e ben precisi. Sempre rimanendo entro confini adeguati, il dibattito va addirittura incoraggiato, perché contribuisce all’affermazione delle dottrine dell’élite dominante e contemporaneamente consolida l’impressione che la libertà imperi. Ai media è data la possibilità di contestare la politica governativa soltanto all’interno della griglia di problemi determinata dagli interessi dello Stato e del potere economico.

I media, dice Chomsky, sono agenzie di manipolazione, indottrinamento e controllo al servizio dei potenti e dei privilegiati.
Nell’assetto sociale attuale, la gente comune deve continuare ad essere oggetto da manipolare, non un soggetto in grado di pensare, di partecipare al dibattito, alle decisioni. Tutto ciò può dare l’impressione che il sistema sia onnipotente, ma è bel lungi dall’esserlo: la gente può resistere e a volte lo fa con grande efficacia.

L’esistenza di limitazioni interne, anche in uno Stato potente, consente alle sue vittime un margine di sopravvivenza e ciò non dovrebbe mai essere dimenticato.

Chomsky si fa portavoce di una “politica democratica della comunicazione” che dovrebbe cercare di sviluppare mezzi d’espressione e d’interazione che favoriscano l’azione individuale e collettiva. Tuttavia, Chomsky afferma che le prospettive di successo d’una tale politica sono inevitabilmente limitate dal potere delle élite, che determina il funzionamento delle principali istituzioni sociali.

La risposta risiederebbe nelle prospettive di successo di quei movimenti popolari, che hanno a cuore i valori repressi o marginalizzati nell’attuale ordine sociale e politico.

Chomsky, nel suo libro “La Fabbrica del Consenso”, afferma che le critiche istituzionali che lui e il coautore del libro hanno presentato vengono comunemente liquidate dai commentatori dell’establishement come “teorie cospiratorie”, ma questo è solo un modo per sbarazzarsi del problema. Il loro studio, al contrario, è legato ad una profonda analisi di mercato, che ha smascherato la modalità con cui le élite del potere, supportate dalle élite intellettuali, riescono ad imporsi e a far valere il loro operato, attraverso un annientamento progressivo dell’opinione pubblica, che resta passiva e dunque incapace di far valere la sua opinione.

Tali considerazioni, seppur convalidate da un’attenta analisi, sono ormai completamente inaccettabili per chi, pur per un breve periodo, si è abbeverato alla sorgente “Fattorello”, fonte di teorie e pensieri positivi che liberano il soggetto dalla paura e dalla gabbia della manipolazione.

Il significato profondo degli studi fattorelliani sta nell’aver rivalutato il soggetto recettore rispetto al soggetto promotore: l’opinione proposta da una minoranza ottiene l’adesione dei recettori che non la accettano passivamente, ma soltanto dopo una valutazione di coerenza con la propria scala di valori. Solo una volta concessa l’adesione il recettore farà sua l’opinione proposta e la sosterrà presso altri recettori.

Nel caso specifico della propaganda, fenomeno preso in esame da Chomsky, Fattorello dice che
è semplice agire sulle opinioni, ma i comportamenti umani restano difficili da prevedere. Quando si parla di propaganda ci si riferisce sempre all’ambito dell’informazione, intesa come tecnica sociale, che giunge all’adesione d’opinione attraverso lo studio delle attitudini sociali che scaturiscono dall’acculturazione dell’individuo.

Per cui l’informazione non ha nulla a che vedere né con la psicologia dell’individuo né con il suo inconscio; di conseguenza non sono psicologiche le tecniche da adottare per agire sull’opinione degli uomini. La tecnica è stata definita “sociale” perché non ha nulla a che fare con i meccanismi della psiche umana che verrebbe, secondo Chomsky, manipolata da seducenti imbonitori dotati di poteri magici in grado di irretire dei “poveri” recettori (lettori, spettatori, consumatori) che quindi non avrebbero alcun scampo.

I parametri di cui il tecnico dell’informazione deve tener conto sono l’acculturazione e la socializzazione dell’individuo. La comunicazione avrà luogo solo quando le opinioni del promotore e del recettore convergeranno in un’unica interpretazione.
Non esiste dunque ciò che viene definito “strapotere” dei mezzi della comunicazione. Sono solo un’illusione gli uomini che hanno superpoteri che condizionano gli esseri umani.

Basta parlare di persuasione occulta e evitiamo di ascoltare coloro che parlano con superficialità di informazione e di comunicazione. Il recettore non è più da considerare oggetto passivo della comunicazione, ma soggetto opinante di pari dignità che interagisce sempre con il promotore, all’interno di una complessa dinamica sociale. Come è stato dimostrato, la Teoria della Tecnica Sociale si pone in antitesi con l’impostazione teorica di Chomsky e dei suoi seguaci, nonché con l’impostazione anglosassone che per decenni ha fatto leva sulla psiche dell’individuo attribuendo alla comunicazione la capacità di “persuasione occulta”.

Non è facile per Fattorello affermare a gran voce la sua teoria, in quanto il periodo in cui si manifesta la sua visione è totalmente influenzato dall’impostazione teorica anglosassone che, come detto in precedenza, vede la comunicazione come un processo subito da un ricevente passivo. Superare l’idea del recettore come target e come altamente condizionabile è stata la sfida dei fattorelliani che hanno di tutta risposta proposto un soggetto recettore dotato delle stesse facoltà opinanti del soggetto promotore.

L’informazione del giornalista, come informazione contingente, potrà “manipolare” positivamente il fatto, per rivestirlo di quell’abito lucente e attraente che lo rende appetibile al consumatore, riconfermando le opinioni cristallizzate e i valori su cui si basa il pubblico. L’individuo, infatti, si conforma automaticamente con quei valori che egli identifica con la verità, col bene, mentre tutto ciò che non riconosce come parte del suo bagaglio culturale rappresenta l’errore e il male.

Le opinioni cristallizzate oppongono resistenza ad ogni trasformazione e concorrono a creare nell’individuo una barriera che contrasta l’entrata di opinioni che non riconosce.

La Tecnica di Francesco Fattorello rappresenta quindi il superamento delle teorie di Chomsky in quanto stabilisce che è possibile influenzare l’opinione di un individuo e non i suoi comportamenti. Tutto ciò che si può ottenere è un’adesione di opinione, ma non si può fare nulla per condizionare i comportamenti degli uomini, che posseggono un sistema di valori determinato dalla loro dimensione culturale e sociale.

BIBLIOGRAFIA

Chomsky N., Illusioni necessarie. Mass media e democrazia, Elèuthera editrice, 1991.
Ragnetti G., Opinioni sull’opinione, Edizioni Quattro Venti, Urbino, 2006.
Fattorello, F., Teoria della tecnica sociale dell’informazione, Edizioni Quattro Venti, Urbino, 2005.
Abbruzzese A e Mancini P., Sociologie della comunicazione, Gius. Laterza & Figli, 2007.

Il perchè di una ristampa

Francesco Fattorello

TEORIA DELLA TECNICA SOCIALE DELL’INFORMAZIONE

a cura di Giuseppe Ragnetti

DEDICATA A …..

A Francesco Fattorello mio maestro.
Mi ha aiutato ed è riuscito a farmi
risalire dal baratro
in cui ero sprofondato.
Il baratro dello “strapotere”
dei mezzi di comunicazione.
Il baratro di superuomini
in grado di condizionare i
comportamenti degli
esseri umani.
Il baratro della persuasione
occulta.
Il baratro di suggestive teorie
anglosassoni capaci di
costruire frecce avvelenate
destinate ad una umanità
incapace di intendere e di volere e
ridotta a semplice bersaglio o meglio
target.
Il baratro della superficialità
e dell’incompetenza di
tutti coloro che si occupano di
informazione e comunicazione
sulla base dei più abusati luoghi comuni.

 

IL PERCHE’ DELLA RISTAMPA …..
A vent’anni dalla scomparsa di Francesco Fattorello e a distanza di diversi decenni dall’ultima edizione, ho sentito il dovere di pubblicare di nuovo la Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione ideata e insegnata per la prima volta da Francesco Fattorello sin dall’anno accademico 1947/ ‘48.

Come direttore dell’Istituto che porta il nome dell’insigne studioso ho avuto la responsabilità di diffondere i suoi insegnamenti attraverso i corsi di formazione nei contesti più diversi e in quelli istituzionali regolarmente attivati ormai da sessanta anni ed ora, attraverso questa nuova edizione della Tecnica Sociale.

L’obiettivo che intendiamo raggiungere è quello di mettere a disposizione degli studenti e degli operatori interessati l’approccio teorico fattorelliano che rappresenta una visione di una incredibile modernità e ci sembra poter fornire una risposta adeguata alle crescenti esigenze di informazione e comunicazione che connotano le società democratiche di oggi.

La Tecnica Sociale dell’Informazione è l’unica teoria italiana del settore, formulata su rigorose basi scientifiche.
E’ una costruzione metodologica profondamente radicata nella tradizione culturale europea proprio perché si basa sul presupposto che non possa esistere una impostazione teorica sulla comunicazione sempre valida ed applicabile a qualunque recettore ma che una metodologia sui processi di interazione tra chi promuove e chi riceve la comunicazione, debba necessariamente essere tarata sul recettore.

Ecco allora il recettore non più oggetto passivo della comunicazione che diviene, a sua volta, un soggetto opinante di pari dignità che interagisce sempre e comunque con il promotore, all’interno di una complessa dinamica sociale. Da qui l’apporto fondamentale di una Tecnica Sociale che ricerca l’adesione e quindi il consenso dei destinatari sulla base delle loro attitudini sociali.

Attitudini sociali intese come disponibilità ad accettare le opinioni proposte, a seconda della propria acculturazione, intendendo per acculturazione tutto ciò che l’ambiente sociale ha, inevitabilmente, trasferito nell’arco di tutta una vita a qualsiasi essere umano. La Teoria della Tecnica Sociale si pone in netta antitesi con l’impostazione teorica anglosassone che per decenni ha inteso far leva sulla psiche dell’individuo attribuendo alla comunicazione in senso lato capacità di “persuasione occulta”.

L’impostazione teorica di Francesco Fattorello, fondatore della “Scuola di Roma”, in tutto il contesto internazionale ha ormai acquisito sempre più valenza di fondamentale utilità pratica e metodologica per tutti coloro che si occupano di informazione e comunicazione.

In altri termini, possiamo tranquillamente affermare che oggi l’approccio mondiale alla comunicazione scaturisce dall’impostazione teorica fattorelliana.

Per concludere mi piace riproporre la prefazione alla terza edizione pubblicata nel 1963 così come Fattorello aveva scritto :
“L’interessamento da più parti dimostrato per la mia tecnica sociale dell’informazione mi ha spinto a pubblicare questo breve saggio per mezzo del quale il lettore viene introdotto alla interpretazione da me data al fenomeno sociale dell’informazione.

Le esperienze fatte nelle scuole dove questa teoria viene insegnata ed applicata già da parecchi anni e più il fatto che in luoghi diversi se ne citano i termini o si fanno illazioni senza indicare la fonte o la paternità della teoria stessa, mi inducono a superare la riservatezza cui mi ero attenuto fin qui proponendomi, caso mai, di apportare a questo testo altri perfezionamenti.
A questa pubblicazione mi hanno indotto segnatamente i miei colleghi e allievi del Centre International d’ Enseignement Superieur du Journalisme dell’Università di Strasburgo che hanno ascoltato le miei lezioni e discusso le miei proposizioni. Ed è appunto confortato segnatamente da queste discussioni fatte in una sede internazionale, con esperti che provenivano da tutte le parti del mondo, che mi sono deciso a pubblicare questa prima esposizione della mia sistematica.

Qualcuno dei capitoli qui pubblicati era già apparso nelle stampe, ma qui viene ripubblicato con modifiche o con varianti intese a rendere in modo più chiaro e completo il mio pensiero.

Per l’esattezza cronologica questa teoria fu esposta per la prima volta al Corso propedeutico alle professioni pubblicistiche, istituito in seno alla Facoltà di Scienze Statistiche della Università degli Studi di Roma, nell’anno accademico 1947/ ’48. Successivamente essa divenne anche uno degli argomenti del programma didattico del Centro Internazionale di Strasburgo.
Questa terza edizione, che appare nel 1963, comprende due capitoli in più delle edizioni precedenti. Con questi ritengo di aver completato la mia esposizione.”

Cambia i pensieri e cambierai il mondo, cambia il linguaggio e cambierai i pensieri: rigore linguistico o torre di Babele ?

Università degli Studi “Carlo Bo” Urbino
Laurea Specialistica in Editoria Media e Giornalismo
Esame di “TECNICHE DI RELAZIONE”
Prof. Giuseppe Ragnetti
Elaborato scritto di: Valentina Volpini
Anno Accademico 2009-2010

CAMBIA I PENSIERI E CAMBIERAI IL MONDO, CAMBIA IL LINGUAGGIO E CAMBIERAI I PENSIERI: RIGORE LINGUISTICO O TORRE DI BABELE?

Partiamo da un concetto, quello di cultura. Esistono diverse accezioni di questo termine, a seconda che ci si riferisca al suo rapporto con la natura, con l’educazione, con la civiltà, con la società. Forse scegliere quest’ultima accezione può essere più utile ai fini di un discorso generale. Da un punto di vista sociologico la cultura viene definita come l’insieme della produzione spirituale e materiale di una certa entità sociale.

Ogni società ha una propria cultura, intesa come l’insieme dei modi di vita che contraddistinguono quella società o un gruppo sociale determinato, e che questi riconoscono come proprio e tramandano di generazione in generazione: valori, norme, usanze, credenze, istituzioni, prodotti artistici ecc. La condivisione di tali elementi è il risultato di un processo che si svolge gradualmente nel tempo, e si articola in un’ assimilazione di opinioni, che si cristallizzano e si stabilizzano.

E’ questa caratteristica a rendere difficile la modificazione della cultura di una società. Così come la cultura, anche la visione del mondo di un soggetto, è frutto di una sedimentazione, avvenuta gradualmente, cominciata nell’ambito familiare, proseguita attraverso l’educazione ricevuta e consolidatasi nel tempo. Difficilmente un soggetto rinuncia alla propria opinione, al proprio pensiero sul mondo.

E’ pur vero, che un individuo, nella realtà attuale, si trova immerso in una rete di rapporti di informazione, ed è soggetto quindi a un notevolissimo numero di formule d’opinione diverse che riceve da altrettanti soggetti promotori, valutando poi se adottare tali opinioni o rifiutarle.

Se agendo da soggetto recettore, l’individuo decide di adottare la formula d’opinione che ha ricevuto e quindi di dare la sua adesione d’opinione, dal punto di vista del soggetto promotore che ha messo in moto il rapporto d’informazione, si può parlare di comunicazione; se non c’è adesione d’opinione, la comunicazione non avviene.

Affinché avvenga la comunicazione, affinché cioè il rapporto di informazione vada a buon fine, bisogna considerare il condizionamento reciproco degli elementi di tale rapporto.

x) M
Sp Sr
O

Il fatto, la notizia, l’evento, il motivo per cui viene iniziato un rapporto di informazione (x), condiziona innanzi tutto le scelte del soggetto promotore (Sp). Egli sceglie il mezzo (M) con cui comunicare e configura il messaggio in base al soggetto recettore (Sr). Il mezzo impone al Sp di rispettare le proprie caratteristiche tecniche e al Sr di possedere certe facoltà per gestire tale mezzo. Inoltre la formula d’opinione (O) è messa in forma in un certo modo dal Sp, e condiziona la scelta del mezzo con cui essere comunicata.

Infine il Sr obbliga il Sp a conoscere le sue facoltà e ad adeguare di conseguenza la formula d’opinione e il mezzo. Un Sp quindi, nel mettere in atto un rapporto d’informazione, deve tener ben presente che il suo obiettivo è ottenere un’adesione d’opinione e che per riuscirci, non può prescindere dai condizionamenti interni.

Dunque è fondamentale il modo in cui viene portato avanti il rapporto comunicativo. Da ciò deriva che l’idea che un contenuto possa essere comunicato così come è nella mente del soggetto promotore è un’illusione; la formula d’opinione va adattata al recettore, affinché egli, prima di poter valutare se aderire o meno, possa comprenderla.

Uscendo per un attimo dalla teoria, possiamo verificare tale concetto in due ambiti importanti della vita sociale, entrambi appartenenti alla sfera del contingente, cioè alla sfera della tempestività, dell’immediatezza, dell’istantanea adesione d’opinione: l’informazione giornalistica e la propaganda politica. Nel primo caso, il problema si verifica nella difficoltà che molti lettori hanno nel comprendere il contenuto di un articolo, perché espresso con un linguaggio troppo complesso, spesso di tipo elitario che sfugge quindi all’universale comprensione dei lettori.

Un sintomo di tale disagio è ad esempio il fatto che molti dichiarano di preferire la free press al quotidiano acquistato, non solo per la gratuità ma soprattutto per il dispendio di energie che richiederebbe leggere un articolo su tale giornale. Nel caso della propaganda, il problema si riscontra nella diversa efficacia che la comunicazione politica ha nel momento del risultato elettorale. Infatti è innegabile che nella contemporaneità, la chiave per un risultato politico soddisfacente per un candidato o un partito, sta nell’efficacia della comunicazione.

Non si tratta, come si potrebbe pensare, di una questione di diffusione della propaganda attraverso i mezzi di comunicazione sociale, specialmente la televisione, ma spesso di una questione di linguaggio. Spesso i politici cadono in un grossolano errore, che è quello di non farsi capire dal proprio elettorato, al quale stanno chiedendo un’adesione d’opinione, da esprimere con l’istituto del voto.

Il promotore, nei processi contingenti, ha un tempo limitato per realizzare il suo scopo, per questo la sua formula d’opinione deve essere dotata di una notevole carica sociale, deve possedere un fattore di conformità, cioè la forza di raggiungere il recettore nella sua sensibilità, adeguandosi alla sua curiosità e ai suoi desideri. Appare dunque chiaro come il soggetto recettore debba avere un ruolo preminente nel rapporto di informazione. Una formula d’opinione, soprattutto in un rapporto da uno a molti, deve avere una caratteristica fondamentale, l’universale comprensibilità.

In questo senso risulta importante l’attenzione posta al linguaggio utilizzato, perché come detto in precedenza, il mezzo deve essere adeguato al recettore. Trascurare l’importanza di tali elementi comporta una situazione fallimentare.

Possiamo descriverla attingendo alla tradizione biblica. Come racconta l’Antico Testamento, dopo il diluvio universale i discendenti di Noè, stabilitisi nella regione del Sennaar, in Babilonia, vollero innalzare una torre tanto alta da raggiungere il cielo. Il Signore, adirato per la loro presunzione, li punì facendo parlare a ognuno un idioma diverso; prima la lingua era una sola, dopo quell’episodio gli uomini non si capirono più.

Contestualizzando, possiamo dire che se un promotore ha la presunzione di comunicare la propria idea, il proprio pensiero, utilizzando un linguaggio adatto alla propria soggettività, senza tener conto di chi riceverà tale messa in forma, realizza una situazione di incomunicabilità, una Babele, in cui ognuno porta avanti la propria opinione, senza che gli altri membri della comunità possano comprenderla.

All’estremo opposto, tuttavia, non bisogna pensare che si possa verificare automaticamente una totale e completa adesione all’opinione del promotore.

Questo sarebbe un caso limite, difficile da ottenere. Potrebbe essere la pretesa di un’impostazione ideologica, ma neanche nel caso di una pianificazione rigorosa del rapporto d’informazione, anche dal punto di vista del linguaggio, si può avere la certezza dell’adesione d’opinione del recettore. Egli infatti resta sempre e in ogni caso un soggetto opinante e assolutamente indipendente e insensibile a qualsiasi speranza di condizionamento da parte del promotore.

Come in molte altre cose, dunque, possiamo dire che la verità è a metà strada. Possiamo cioè dire che nella normalità, un rapporto d’informazione, correttamente pianificato rispettando tutti gli elementi in gioco, diventa un rapporto comunicativo se il Sr recepisce, attraverso il filtro della propria soggettività, la formula d’opinione trasmessa, vi aderisce, se ne appropria, e la comunica a sua volta, in qualità di Sp, ad altri Sr.

Questa considerazione permette di porre l’accento sulla reale condizione in cui si trovano i soggetti nella loro esperienza quotidiana. Non sono riparati all’interno di una bolla d’aria che li protegge, tutt’altro, ciascuno di noi è costantemente immerso in una rete fittissima di rapporti di informazione, contingenti e non, che costantemente trasmettono formule d’opinione diverse a ognuno di noi.

Possiamo riformulare dicendo che riceviamo e trasmettiamo visioni del mondo soggettive e frutto della nostra personale esperienza e acculturazione.

Allo stesso tempo, in quanto soggetti appartenenti a un gruppo o a una data società, possediamo una serie di opinioni cristallizzate e di valori che abbiamo ricevuto e assimilato attraverso rapporti di informazione non contingenti.

Possediamo una data cultura, che ci appartiene e che in generale condividiamo con gli altri membri della società. Possiamo vedere i vari gruppi-società, come un grande soggetto collettivo con una propria formula d’opinione, la propria cultura.

Come il singolo, anche il soggetto collettivo, difficilmente rinuncia alla propria personale visione del mondo e alla propria cultura, perché entrambe appartengono alla sfera del non contingente, sono il risultato di un processo graduale e lento, cristallizzato e consolidato. In questo senso possiamo facilmente comprendere l’estrema difficoltà, se non l’impossibilità, di cambiare tali visioni, tali pensieri sul mondo.

Tuttavia si potrebbe forse contrapporre a tale concetto un fatto che probabilmente molti di noi hanno spesso considerato inevitabile e cioè che ci siano dei comportamenti, diciamo pure delle idee, delle opinioni, delle mode, che attecchiscono fortemente nella società e si diffondono a largo spettro. Si tratta di formule d’opinione ben trasmesse? Oppure la responsabilità è la grande diffusione attraverso i mezzi di comunicazione?

A tal proposito bisogna mettere in gioco un altro elemento, che ha una fortissima rilevanza in tale fenomeno e cioè il conformismo sociale di ciascuno di noi, quel bisogno di essere simile a un gruppo per non correre il rischio di una esclusione dal gruppo stesso.

Tale fattore ha a che fare con le personali attitudini, con le proprie esigenze e sicuramente va considerato nella pianificazione di un rapporto di messa in forma, ma non ha a che fare con lo strumento, che resta sempre un tramite tra i due soggetti del rapporto ma non determina il risultato del rapporto.

A cosa serve tale considerazione? A sottolineare la diversa collocazione del discorso sulla cultura. In questo caso il fattore rilevante è l’aspetto non contingente, la dimensione temporale, riflessiva potremmo dire, che di sicuro non appartiene ai fenomeni definiti di informazione pubblicistica, il giornale, la propaganda, la pubblicità, nei quali invece è il conformismo ad avere possibilità d’azione.

Nel caso dei Pensieri sul mondo, della cultura come patrimonio, dei valori, andiamo a toccare non più la superficie del lago, ma la dimensione profonda, quasi nucleare, evidentemente difficile da raggiungere e solleticare.

Di conseguenza il sogno, se così vogliamo chiamarlo, o meglio il tortuoso cammino verso una modificazione dei pensieri e di conseguenza delle visioni del mondo, e quindi, per estensione del mondo stesso, non può prescindere da una lentissima e costante trasmissione di nuovi valori e credenze.

L’applicazione implicita della tecnica sociale nell’Antropologia

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

Corso di laurea in Editoria, Media e Giornalismo

ESAME DI TECNICHE DI RELAZIONE
PROF. GIUSEPPE RAGNETTI

Stud. MARTINA CELEGATO
Anno acc. 2009/2010

L’APPLICAZIONE IMPLICITA DELLA TECNICA SOCIALE NELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE

1. La nascita dell’antropologia culturale

L’antropologia (come dice la stessa etimologia greca della parola ànthropos = “uomo” e lògos = nel senso di “studio”) è attualmente una disciplina sociale che si configura all’interno del grande insieme delle scienze umane in due grandi ramificazioni: da un lato quella culturale che più si concentra nello studio delle reti sociali, dei comportamenti, degli usi e costumi, degli schemi di parentela, delle leggi e istituzioni politiche, dell’ideologia, delle religioni e credenze, degli schemi di comportamento nella produzione e nel consumo dei beni e negli scambi e nelle altre espressioni culturali; dall’altro lato quella fisica o biologica, per così dire più “antica”, che studia l’evoluzione delle caratteristiche fisiche degli esseri umani, la genetica delle popolazioni e le basi biologiche dei comportamenti della specie umana e dei suoi parenti più stretti, le grandi scimmie (primatologia).

Con l’avvento dell’Illuminismo iniziarono gli studi sistematici della specie umana, studi che diedero vita alla cosiddetta corrente fisica o biologica dell’antropologia che quindi in questo periodo si caratterizza più come vera e propria scienza che come disciplina sociale.

Questo periodo, per così dire “fisico” dell’antropologia sarà un grosso limite per lo sviluppo della disciplina soprattutto perché verrà ripreso nel XX secolo, precisamente in Italia.

Non è comunque un caso che l’antropologia si sviluppi proprio durante questo periodo. Questo infatti è il periodo delle grandi colonizzazioni, i periodo in cui i grandi stati europei si stanziano in zone quali l’India, l’Africa e le Americhe. Ma questo è anche il periodo in cui le teorie evoluzioniste di Darwin, dopo un breve periodo di titubanza, vedono il loro massimo splendore e vengono applicate non solo al campo della biologia ma anche a quello umano e sociale.

L’antropologia culturale, come oggi la intendiamo noi, nasce ufficialmente nel ‘800, principalmente in Gran Bretagna per mano di Edward Tylor e Lewis Henry Morgan, e apporta grandi variazioni alla cosiddetta antropologia fisica anche se ne mantiene ancora alcune caratteristiche.

Questa antropologia, giustamente nei manuali definita etnologia, è ancora fortemente caratterizzata da una relazione indiretta e interposta dell’antropologo con le società considerate “altre”: infatti non era l’antropologo che si occupava di analizzare direttamente queste società, ma al contrario questo veniva fatto da un etnografo (spesso semplici mozzi di navi che si dirigevano in terre lontane) il cui compito era quello di raccogliere più informazioni possibili osservando questi popoli e dialogando con chi ne era venuto a contatto.

Questi taccuini venivano poi recapitati al cosiddetto antropologo che rielaborava le informazioni riportate. Questo dava quindi alla disciplina un taglio fortemente autoritario e semplicistico nel senso che ovviamente l’antropologo non poteva cogliere le sottili sfaccettature delle nuove realtà sociali, ma, per forza di cose doveva limitarsi a un giudizio fermo e distaccato.

Non bisogna comunque dimenticare che un importante fattore politico in influenzava queste ricerche cioè quello del colonialismo, che si doveva tutelare al fine di tutelare altresì il proprio lavoro. Quindi nonostante queste ricerche dal punto di vista della disciplina abbiano un valore abbastanza limitato o quasi nullo, all’interno del loro contesto storico-sociale rappresentano una forma di innovazione che non può passare inosservata.

Già con l’avvento del Romanticismo la visione di queste società “altre” viene valorizzato dal punto di vista della formazione sociale, anche se il forte limite di questa tradizione, sebbene totalmente opposto a quello precedente, è quello di creare il mito del selvaggio, dell’opposizione natura-cultura, che se da un lato è importante per rimuovere il senso di superiorità proprio dell’Occidentale e della sua tradizione sociale, da un lato ne limita le ricerche più strutturali e mirate.

Nel XX secolo gli antropologi per la maggior parte rifiutarono la concezione secondo la quale tutte le società umane dovrebbero passare attraverso tutti gli stadi di sviluppo nello stesso ordine, quindi la teoria Darwiniana applicata alla società, e dalle ceneri di questa tradizione nacquero le due più grandi teorie antropologiche destinate a stravolgere la storia e le modalità della stessa: lo strutturalismo francese di Claude Levi-Strauss e il funzionalismo inglese della Scuola di Manchester e di Bronislaw Malinowski.
Con queste due correnti culturali infatti nasce la concezione dell’antropologia ancorata alla realtà che no può essere descritta per così dire “a distanza” ma deve essere guardata e testata.

Tutti questi antropologi infatti scrivono i loro testi e traggono le loro conclusioni solo ed esclusivamente dopo aver passato un periodo più o meno lungo a contatto diretto con le società considerate “altre” ( Levi- Strauss nei Tropici e nell’Amazzonia, Malinowski nelle Isole Trobriand….).

Proprio grazie alla “discesa in campo” diretta degli antropologi nasce quella che oggi è considerata la caratteristica principale e peculiare della ricerca antropologica: l’osservazione partecipante. Questa tecnica di ricerca è fondata sull’osservazione appunto delle società, delle tradizioni e delle relazioni con l’antropologo che si pone a diretto contatto con esse, chiedendo informazioni, interagendo con i soggetti e a volte provando sulla sua stessa pelle alcune esperienze più difficili da descrivere.

2. il passaggio dell’antropologia da informazione non contingente riconosciuta a informazione contingente

Come già detto tracciando brevemente la storia dell’antropologia nel paragrafo precedente essa è nata come una ramificazione principalmente della sociologia e più in generale delle discipline sociali.

Come tale l’antropologia intesa, come del resto tutte le discipline sociali alla loro nascita, si può dire quindi venga definita come una disciplina non contingente, statica, da insegnare così come si propone sulle basi etnografiche e porta insita in sé stessa tutte le caratteristiche dell’informazione non contingente cioè:

• La materia, cioè le ricerche e le informazioni etnografiche sono cristallizzate;

• Non ha limiti di tempo, le ricerche necessitano di tempi lunghi sia di stesura che di rielaborazione;

• Le novità non sono frequenti e comunque non manomettono le caratteristiche principali del corpus di teorie;

• Il promotore delle teorie è comunque un antropologo o etnografo ben qualificato con una certa fama all’interno del suo ambito scientifico e politico di appartenenza;

• Il recettore di tali informazioni è solitamente un soggetto qualificato alla ricezione di tali nozioni, l’etnografia non è soggetta a divulgazione popolare;

• Il contenuto è specifico e non generalizzabile (l’analisi di determinate popolazioni no è espandibile ad altre)

• Si basa sull’esistenza di determinati processi logici razionali e valori già esistenti all’interno della comunità scientifica,

• Vi sono degli strumenti e delle tecniche che vengono utilizzate solo ed esclusivamente per queste ricerche e per la conferma di queste teorie,

• È bilaterale nel senso che le teorie possono essere ampliate o approfondite con nuove ricerche senza però variarne il senso principale.

Come si può facilmente dedurre con le nuove scoperte sociali da parte di tutte le discipline che si occupano di tale argomento un’impostazione così rigida e precostituita non è certamente accettabile, infatti dalle impostazioni di Bronislaw Malinowski in poi l’antropologia, assumendo consapevolezza dei suoi limiti e delle sue insite potenzialità, si pone in un’ottica meno storicistica e più contingente, coordinandosi ( e non subordinandosi) alle altre discipline sociali, quindi ponendosi i un’ottica più contingente.

Quindi vi è un passaggio formale da informazione non contingente riconosciuta a informazione contingente:

• La materia, cioè gli studi e le ricerche sono i continua variazione cioè possono cambiare di volta in volta, approfondendo peculiari caratteristiche;

• Vi sono dei limiti di tempo dettati dall’ambiente accademico e soprattutto dalla consapevolezza della sempre più rapida dissoluzione delle società che si studiano;

• Vi sono frequenti novità, dovute soprattutto al fatto che le realtà sociali e culturali subiscono profonde e costanti variazioni;

• I promotori delle teorie non sono solo antropologi affermati ma nella maggior parte dei casi ricercatori o seguaci di determinate teorie;

• I ricettori oltre ad essere qualificati in materia sono anche i comuni studenti di qualsiasi facoltà umanistica (non è un caso infatti che vi sia un corso di antropologia culturale in pressoché tutte le lauree che confluiscono sotto la facoltà di lettere e filosofia);

• Si tenda di far in modo che il contenuto sia sempre più generalizzabile e applicabile a più società possibili;

• Qualsiasi teoria già esistente può essere confutata e rielaborata per una maggiore comprensione del fenomeno sociale;

• Sebbene vengano mantenuti gli strumenti “storici” della ricerca non si escludono totalmente altre tipologie di ricerca;

• Può essere un processo unilaterale, anche se in linea di massima si mantiene bilaterale.

In linea di massima si può dire che questi siano stati i maggiori cambiamenti riguardo alla disciplina antropologica anche se mi sento di sottolineare che, essendo una disciplina accademica, e in quanto tale fonte di insegnamento e apprendimento, alcune caratteristiche dell’informazione non contingente si mantengono, soprattutto nello studio della storia antropologica, ed è giusto che sia così, per non perdere l’autorevolezza che le è stata attribuita con tante difficoltà.

3. il rapporto “studioso-studiato” e le sue evoluzioni

Fino ad adesso ho volutamente trascurato il rapporto diretto dell’etnografo e successivamente dell’antropologo con le popolazioni e le culture che si pone ad analizzare.

Come prima infatti vi sono delle sostanziali differenze tra il primo periodo più etnografico e quello più spiccatamente antropologico. Nel periodo etnografico infatti si può vedere come, sia per l’influenza dell’evoluzionismo sia per una sorta di superiorità sociale insita nell’europeismo in sé, l’etnografo, e poi l’antropologo che rielabora le informazioni, si pongano con un certo distacco nei confronti delle popolazioni che si vanno a valutare.

“Il selvaggio”, sostantivo che viene spesso attribuito a queste popolazioni, viene visto come una sorta di cavia, di target da colpire, di soggetto senza capacità pensanti o volontà, atteggiamento questo che limita fortemente lo sviluppo di una disciplina sociale in senso lato, che ne minimizza gli sforzi e che soprattutto semplifica l’articolazione inevitabilmente. Il non-capire il soggetto con il quale si vuole fondare una teoria, il non-capire le motivazioni di determinate usanze o riti, li semplifica con mere descrizioni.

Nella seconda fase, cioè quella antropologica e soprattutto quella più contemporanea, al contrario, la considerazione del soggetto analizzato, il suo studio e soprattutto le sue esigenze sono state messe al centro di discussioni che sono tuttora vivaci e molto sentite all’interno della comunità accademica mondiale.

Attraverso le modalità dell’osservazione partecipante infatti quello che prima era catalogato come “selvaggio” ora viene considerato come “uomo”, “essere pensante” e le sue esigenze come tali vengono percepite e approfondite. Proprio con il metodo di indagine infatti i soggetti studiati vengono direttamente a contatto con gli studiosi, i quali tentano di capirne caratteristiche e necessità, per poter portare avanti una ricerca ricca di presupposti teorici come di conoscenze pratiche.

Si può quindi dire che proprio in questa fase vi è una comunicazione fattorellianamente intesa, con soggetto promotore e soggetto recettore che collaborano e formano un corpus di opinioni fondato e ricco.

Conclusioni

Nonostante la storia dell’antropologia sia ovviamente più ampia e articolata spero che le semplificazioni e la sintesi qui riportate siano abbastanza esaurienti da far capire l’importanza delle evoluzioni che sono avvenute al suo interno. La comprensione di tali cambiamenti è di vitale importanza per un approccio creativo e non solo passivo allo studio della disciplina stessa.

Il cambiamento radicale avvenuto ovviamente non è solo per la disciplina antropologica, ma coinvolge tutte le discipline sociali e la teoria della Tecnica sociale dell’informazione mi ha aiutato a palesare le sostanziali variazioni avvenute e che ancora stanno avvenendo. Inoltre mi ha aiutato a vedere come sia di primaria importanza la comprensione del recettore, o del soggetto “studiato” per poter dare il giusto ruolo a colui senza il quale non avrebbe senso parlare di “ricerca”.

Riferimenti Bibliografici
Fattorello, F. “ Teoria della tecnica sociale dell’informazione”, QuattroVenti, Urbino, 2005
Ragnetti, G. “Opinioni sull’opinione”, QuattroVenti, Urbino, 2006
Fabietti, U. “Storia dell’antropologia”, Zanichelli, Bologna, 2005 [2001]
Clifford, J. e Marcus G. E. (a cura di), Scrivere le culture: poetiche e politiche dell’antropologia, Meltemi, Roma, 1997 [1986].
Fabietti, U., Antropologia culturale: l’esperienza e l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 1999

“La Chimera dell’obiettività giornalistica”

 

Laurea specialistica in Editoria Media e Giornalismo – Università “Carlo Bo” Urbino

Esame di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe RAGNETTI

SOFIA ALBERTO presenta :

 

LA CHIMERA DELL’ OBIETTIVITA’ GIORNALISTICA

Si è soliti rivendicare nell’ambito degli studi sui mass media la pretesa di perseguire la ricerca dell’ “obiettività”, in particolare nel campo dell’informazione giornalistica. Si tratta di una tendenza radicata principalmente nelle scuole americane di giornalismo dove si porta avanti una netta distinzione tra news (fatti) e views (commenti), in nome dell’imparzialità e della trasparenza nel riferire le notizie.

In Italia invece il perseguimento dell’obiettività è indirizzo rivolto dal Parlamento all’azienda radiotelevisiva di stato (RAI), tanto che è stata istituita anche nel 1975 la Commissione di indirizzo e vigilanza dei servizi radiotelevisivi, organo bicamerale, teso appunto a controllare che i principi di imparzialità e obiettività, definiti “inderogabili”, siano appunto rispettati.

L’obiettività sta inoltre alla base della deontologia professionale del giornalista stesso.
Appare però necessario domandarsi se, effettivamente, sia possibile essere obiettivi.

Il fraintendimento nasce da un presupposto fondamentale : la notizia non è l’evento, ma la relazione di tale evento.
Informare significa infatti “dare forma” ad un fatto, “vestirlo”: il giornalista dà forma a ciò che intende trasmettere al proprio recettore ai fini del consenso.

Già l’americano Ivy Lee affermava negli anni ’20 come la trasformazione di un fatto in notizia sia il risultato di una selezione degli eventi della realtà. Nessuno era in grado secondo lo studioso di presentare la totalità dei fatti relativi ad un dato (s)oggetto.

Ciò che era possibile era solo offrire una visione personale, un’interpretazione dei fatti, influenzata da un insieme di fattori, background culturale e appartenenza sociale in primis.

Anche Fracassi affermava come il soggetto osservatore non sia in grado di riferire senza interferire: la notizia è una rappresentazione della realtà e come tale è sempre frutto d’incontro tra ciò che accade e colui che decide di raccontarlo.

La comunicazione quindi è relativa a proprietà non intrinseche all’oggetto di cui si parla, ma che dipendono dall’osservazione. Secondo tale teoria possiamo affermare come in realtà si parli di de-formazione e non di informazione, data dal punto di vista dell’osservatore nel momento in cui questi decide di descrivere la realtà.

Allo stesso modo l’informazione giornalistica non rispecchia, dunque, la realtà quanto, piuttosto, valorizza frammenti di realtà, che appaiono interessanti in base alle contestualizzazioni di natura culturale, politica, economica e sociale.
La regola aurea del giornalismo anglosassone era quella per cui la notizia appariva come “sacra”, mentre il commento facoltativo, oltre alla già citata separazione tra fatti ed opinioni.

Il mito di stampo positivista relativo alla possibilità di descrivere la “realtà in sé” appare però fin dagli studi di Karl Popper solo una chimera. A cadere è di conseguenza anche il costrutto giornalistico della priorità nella scala gerarchica dei fatti rispetto alle opinioni.

L’osservazione può essere infatti definita come un processo di esplorazione della realtà, che presuppone la selezione e l’interpretazione del soggetto osservante. Il costruttivismo poi illustra come sia impossibile affermare l’esistenza di una realtà oggettiva: ogni descrizione è inevitabilmente interpretazione, nel senso che il suo significato viene – almeno parzialmente – determinato dal background storico-culturale che i soggetti, i giornalisti nella fattispecie, possiedono.

A tali studi si aggiungeranno le riflessione dell’ Interazionismo Simbolico che giudica la realtà come una costruzione sociale.
preferiva parlare di paradigma. Nel momento in cui ci confrontiamo con persone dotate di schemi concettuali molto diversi dai nostri e che “leggono” la realtà in modo profondamente diverso da come la vediamo noi “occidentali del XXI secolo”, appare chiaro come non esista un’unica realtà, bensì un insieme di realtà, ognuna influenzata dalle diverse pratiche di osservazione.

E’ una concezione tipica del post-moderno, che tende ad eliminare e rifiutare ogni verità ed ordine precostituito e che valorizza invece il relativismo culturale, principio basilare per la democrazia, considerando che le visione totalizzanti sono tipiche dei regimi e delle dittature o, in generale, delle ideologie acritiche.

Partendo dal presupposto per cui non esiste una visione unica di realtà, allo stesso modo appare impensabile perseguire nel giornalismo la ricerca dell’obiettività.

Il giornalista non è obiettivo, e non perché non vuole, ma semplicemente perché non può; però ha un obiettivo: ottenere il consenso del recettore, perché senza consenso non c’è comunicazione.
L’uomo, sia esso uno scienziato, uno storico, un giornalista, non può uscire dalla propria soggettività: pertanto, coloro che credono di essere obiettivi, esprimono solo la loro verità.

Certo occorre non cadere nel nichilismo: relativismo significa ammettere la validità del pluralismo dei punti di vista e quindi dei differenti “modi di leggere il reale”. Occorre dunque distinguere tra giudizi di valore non ammessi (arbitrari) e giudizi di valore ammessi, cioè quelli che hanno un riscontro di coerenza nell’esperienza e che rendono conto dei valori presenti all’interno di quella data esperienza.

Il fenomeno dell’informazione, secondo la teoria della tecnica sociale dell’informazione di Francesco Fattorello, è il risultato di un processo del quale possiamo distinguere due fasi:

  • il rapporto tra il soggetto promotore e la forma che egli dà a ciò che è oggetto di informazione;
  • il rapporto tra il soggetto recettore e questa stessa forma che riceve per mezzo di uno strumento, ovvero l’adesione di opinione del recettore (consenso) alla “forma” che il promotore gli ha trasmesso.

Secondo questo modello, pertanto, non c’è posto per l’obiettività all’interno del rapporto di informazione. Ponendo al centro del processo di informazione i due soggetti con le stesse capacità opinanti, e considerando questo fenomeno come il risultato di due interpretazioni soggettive, possiamo affermare che l’obiettività, come pura e semplice aderenza ai fatti, come mera corrispondenza tra le notizie date dai mezzi d’informazione ed una supposta realtà esterna, non esiste. Anzi, si potrebbe sostenere che se l’obiettività esistesse si negherebbe l’informazione, dato che questa appare come l’incontro di due soggettività, di due formule di opinione.

Il giornalista che pretende di rincorrere l’obiettività mette invece in moto lo stesso meccanismo di fidelizzazione rispetto alle idee, credenze e convinzioni politiche, sociali, religiose. Non basta quindi nemmeno apprendere le diverse interpretazioni su un determinato fatto, in quanto ciò significa darne una visione, non obiettiva, ma pluralistica.

Il modello di Fattorello ci spiega il perché la descrizione di un fatto ci appaia obiettiva rispetto ad un’altra: la presunta “obiettività” sta nel fatto che il resoconto considerato “obiettivo”, ma che in realtà è di carattere soggettivo, in quanto coincide con la nostra opinione personale sul fatto.

Per questo è possibile concludere affermando come tutto il giornalismo sia in realtà parziale, non solo i quotidiani politici. E questo non significa affermare che il giornalismo non abbia alcuna funzione o sia specchio di una visione distorta o erronea della realtà.

Occorre infatti assumere come principio inderogabile il carattere relativo e costruzionistico della realtà. Solo così sarà possibile “informarsi” senza l’illusione di “possedere” la verità : ovviamente dipenderà dai singoli interessi/background/convinzioni socio-politiche e culturali, assumere come “propria” una determinata visione, ma partendo però dal presupposto che si legge solo una delle tante possibili ricostruzioni di un determinato evento e che sia comunque opportuno leggere diverse interpretazioni dello stesso fatto, non per ricercare una verità che appare probabilmente irraggiungibile, ma al fine di possedere delle alternative, valide o meno, di giudizio.

Ogni ricostruzione – o quasi – potrà così possedere i requisiti di veridicità, in quanto grazie all’ onestà intellettuale di chi scrive, il lettore saprà a priori che il fatto è stato costruito secondo la visione più obiettiva possibile, ovvero la propria!

SOFIA ALBERTO – Editoria, Media e Giornalismo, Anno 2009 – 2010

Testo di riferimento:
Francesco Fattorello, Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione, a cura di Giuseppe Ragnetti
Edizione QuattroVenti, Urbino 2005

La Creatività incontra la Comunicazione

Prof. Giuseppe Ragnetti – Direttore Istituto di Comunicazione “FRANCESCO FATTORELLO” – Roma

“La Creatività incontra la Comunicazione”

Se comunicare è “mettere in comune” e quindi “condividere”, per quale forma di alchimia ciò può verificarsi attraverso la scrittura?!

La scrittura è una modalità della comunicazione  realizzata sempre e comunque attraverso l’uso di parole non più dette ma trasmesse su un supporto cartaceo o tecnologico. Ed è questa l’unica “diversità” rispetto all’oralità.

Ma è chiaro che nella scrittura, rispetto all’oralità, viene a mancare tutto ciò che rappresenta circa il 90% della comunicazione (30% il paraverbale e il 60% la CNV e la simbolica).

Eppure la parola scritta può comunicare, mettere in comune, condividere: e quando ci riesce lo fa egregiamente. E quando non ci riesce i motivi sono i più diversi ma mai il motivo è da ricercare in un limite intrinseco, tecnico , della parola scritta… E’, forse, proprio questa l’alchimia: la capacità del testo scritto di trasformare un modesto potenziale comunicativo del 10% in un risultato che può raggiungere anche il 100%!!!

Ma allora ha proprio ragione Galileo, quando afferma: “ Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual’eminenza di mente fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsiasi voglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che sono nelle Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e diecimila anni? E con quale facilità? Con i vari accozzamenti di venti caratterizzi sopra una carta…………..”

(Galileo, Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, giornata I,)

 

L’obiettività come negazione dell’informazione

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea Specialistica in Editoria, media e giornalismo – Anno accademico 2006-2007 – Corso di Tecniche di relazione – Professore Giuseppe Ragnetti

“L’obiettività come negazione dell’informazione”

a cura di Laura Volpe

Durante gli studi di giornalismo ci siamo trovati, spesso e volentieri,  di fronte a professori che ci  hanno insegnato  che alla base  di questo mestiere ci debba essere l’obiettività.

Negli anni continuano ad inculcarci questa condizione come essenziale per chi vuole intraprendere il mestiere del giornalista.

E invece poi si scopre che  l’obiettività non esiste perché noi, in quanto soggetti opinanti, NON possiamo che essere soggettivi e porre  qualcosa di nostro in qualsiasi processo di informazione.

La tecnica sociale dell’informazione di Fattorello ci insegna proprio questo: l’obbiettività è la negazione dell’informazione.

Il fenomeno dell’informazione è il processo che salda un rapporto fra chi informa(soggetto promotore) ed il suo recettore( soggetto recettore).

Per questo, il rapporto di informazione, avviene attraverso un soggetto promotore(SP) che trasmette al soggetto recettore(SR), sulla base di un argomento esterno (X)) e attraverso un mezzo o strumento (M), la forma che EGLI dà all’oggetto di informazione.

X)

                                               M

                         SP                                    SR

                                               O

Informare vuol dire proprio “dare forma” a qualcosa e poi, come nel caso del nostro schema, comunicarlo ad un altro soggetto. Ma la cosa importante da capire è che i soggetti sono dentro al fenomeno dell’informazione e, in base alla loro caratteristica  di essere  soggetti intelligenti dotati di una propria opinione, non può esistere l’obiettività.

Ecco perché l’obiettività è la negazione dell’informazione, anche se vogliono insegnarci il contrario, l’informazione è assolutamente soggettiva.

Ritornando al nostro schema, c’è da approfondire le varie funzioni nel processo di informazione.

La X) rappresenta la MATERIA oggetto dell’ informazione, è IL fatto,la parentesi sta ad indicare che questa materia è esterna al processo.

SP e SR sono soggetti opinanti. Il soggetto promotore trasmette la forma che egli ha dato  di un fatto o di una cosa e il soggetto recettore non si limita a ricevere detta forma, ma la interpreta a sua volta. Perciò ENTRAMBI danno forma a ciò che è oggetto dell’informazione (X)).

Questo sta a farci capire come il soggetto promotore e quello recettore siano sempre gli stessi diversificati nella loro funzione.

Per quanto riguarda il mezzo o lo strumento (M) attraverso il quale i soggetti instaurano questo rapporto di informazione, la scelta dello stesso  ha una funzione essenziale nel rapporto in quanto deve essere percepibile sia dal promotore che dal recettore.

Il termine O è l’opinione. È ciò che si identifica come la  forma, la manifestazione dell’opinione data dal promotore che mira ad ottenere l’adesione del recettore. La O sta a rappresentare l’abito che, il promotore prima e il recettore poi, mettono al fatto, alla materia, ovvero alla X).

Tutto questo sta a significare che la conoscenza di un determinato fatto avviene tramite la mediazione del tecnico dell’informazione,  che si colloca fra  l’ oggettività del fatto e il suo soggetto recettore  attraverso una doppia valenza di soggettività: la  propria e quella del recettore che, a sua volta, essendo un soggetto opinante, interpreta l’interpretazione che gli è stata data.

Da ciò risulta il fatto che non si trasmette mai la realtà vera e propria ma sempre la sua forma, l’”abitino” della X). Molto importante è il fatto che detto “abitino” debba essere “cucito” sull’acculturazione( intesa come habitat naturale e visione del mondo del soggetto, ciò che lo ha “socializzato”) del soggetto  recettore. A questo punto è palese che in tale rapporto non si possa parlare di obiettività.

L’uomo non è una macchina e non riferisce il fatto da “esterno”, bensì riferisce la forma che egli stesso da al fatto, la sua opinione che non può mai essere oggettiva. Quindi, il bravo giornalista è colui che dà l’abito più adatto ai fatti di fronte al suo recettore, è colui che trasmette la realtà nel modo più vicino possibile a ciò che è il mondo sociale del lettore.

È da tutto questo discorso che scaturiscono i principi base dell’informazione pubblicistica: Coloritura, Interpretazione, Semplicità.

Il primo suscita l’attenzione del lettore sul fatto, l’interpretazione supplisce al fatto di non essere stati fisicamente presenti all’accaduto e la semplicità che non impone un lavoro intellettuale troppo impegnativo per un recettore che è sempre più distratto da mille stimoli. Alla base di quanto si è detto  si capisce che la realtà NON può essere comunicata e che può essere trasmessa solo la sua FORMA ovvero FORMULA D’OPINIONE che il soggetto promotore propone, tenendo conto della acculturazione del soggetto recettore, per ottenerne l’ADESIONE.