il “Benessere Organizzativo”

Con il termine “BENESSERE ORGANIZZATIVO” possiamo intendere l’insieme dei nuclei culturali, dei processi e delle pratiche organizzative che animano la dinamica della convivenza nei contesti di lavoro, promuovendo, mantenendo e migliorando la qualità della vita e il grado di benessere fisico, psicologico e sociale delle comunità lavorative.

Le categorie alla base del “Benessere Organizzativo” sono:
– Caratteristiche dell’ambiente nel quale si svolge il lavoro
– Chiarezza degli obiettivi organizzativi e coerenza tra enunciati e pratiche organizzative
– Riconoscimento e valorizzazione delle competenze
– Comunicazione intraorganizzativa circolare
– Circolazione delle informazioni
– Prevenzione degli infortuni e dei rischi professionali
– Clima relazionale franco e collaborativo
– Scorrevolezza operativa e supporto verso gli obiettivi
– Giustizia organizzativa
– Apertura all’innovazione
– Stress
– Conflittualità

SEGNALI INDIVIDUALI DI “BENESSERE”
1) Soddisfazione per l’organizzazione
2) Voglia di impegnarsi per l’organizzazione
3) Sensazione di far parte di un team
4) Voglia di andare al lavoro
5) Elevato coinvolgimento
6) Speranza di poter cambiare le condizioni negative attuali
7) Percezione di successo dell’organizzazione
8) Rapporto tra vita lavorativa e privata
9) Relazioni interpersonali
10) Valori organizzativi
11) Immagine del management (credibilità e stima)

SEGNALI INDIVIDUALI DI “MALESSERE”
1) Insofferenza nell’andare al lavoro
2) Assenteismo
3) Disinteresse per il lavoro
4) Desiderio di cambiare lavoro
5) Alto livello di pettegolezzo
6) Covare risentimento verso l’organiz.
7) Aggressività inabituale e nervosismo
8) Disturbi psicosomatici
9) Sentimento di inutilità
10) Sentimento di irrilevanza
11) Sentimento di disconoscimento
12) Lentezza nella performance
13) Confusione organizzativa in termini di ruoli, compiti etc
14) Venir meno della propositività a livello cognitivo
15) Aderenza formale alle regole e anaffettività lavorativa.

Opinioni sull’Opinione

“L’uomo non può esimersi dall’esprimere opinioni su tutto ciò che lo riguarda direttamente o che, semplicemente, lo sfiora ma non conosce i mille “limiti” dell’opinione.”

Il libello “OPINIONI SULL’OPINIONE” è stato, per anni, uno dei testi che gli studenti dovevano leggere per preparare l’esame di “Scienze della Comunicazione” all’Università di Urbino.

Gli studi accademici, in Italia, non si sono occupati frequentemente dell’opinione: da una parte gli studiosi non le dedicano molta attenzione, dall’altra i cosiddetti “esperti” e quelli “neanche-esperti” ne parlano e straparlano in ogni occasione e in ogni contesto senza conoscerne minimamente la struttura e i meccanismi evolutivi. E allora sentiamo (ancora!), parlare di informazione obiettiva, condizionamento, persuasione occulta, messaggi subliminali, strapotere dei mezzi di comunicazione, di par condicio, e di altre amenità che quotidianamente ci vengono somministrate senza un minimo humus scientifico che renda il tutto appena credibile.

E’, tuttavia, quello dell’opinione un argomento affascinante che ci coinvolge tutti i momenti, tutti i giorni, tutta la vita.

L’uomo non può esimersi dall’esprimere opinioni su tutto ciò di cui viene a conoscenza, su tutto ciò che lo riguarda direttamente o che semplicemente lo sfiora, ma non conosce i mille limiti dell’opinione. Opinare è quasi un’esigenza fisiologica al pari del respirare o del parlare: e, forse, è proprio questo innato, naturale meccanismo mentale, ad affievolire l’interesse per lo studio e l’approfondimento del fenomeno. Giungiamo fino al paradosso che non esistono insegnamenti di “scienze dell’opinione” nelle scuole che preparano i tecnici dell’informazione, i giornalisti cioè, per i quali, invece, l’opinione rappresenta la materia prima, componente di base insostituibile di tutto il loro lavoro.

Questa non conoscenza, questa sciatta trascuratezza didattico-formativa consente ancora oggi a direttori di importanti quotidiani nazionali di affermare: “il nostro giornale, come sempre ha fatto, terrà separati i fatti dalle opinioni”. E, arrivando alla stazione di Roma Termini, non può non colpirci la pubblicità di un giornale della capitale che recita, ancora una volta, “I fatti e le opinioni”.

Ed ecco perché, con grande modestia e con piena consapevolezza dei limiti del nostro contributo, ci siamo lasciati convincere a mettere nero su bianco quello che andiamo raccontando, ahimé da molti anni, nei nostri corsi nei contesti più diversi.


Il libro è semplicemente una raccolta dei contenuti di tante mie lezioni: non c’è nulla di inedito e non ha pretese di originalità. I contenuti delle lezioni, a loro volta, derivano in parte da precedenti dispense che, partendo dagli insegnamenti del Prof. Fattorello, si sono via via aggiornate ed ampliate, ed in gran parte da riflessioni personali e dalle fonti più diverse. La bibliografia è modesta per il semplice fatto che tutto quello che ho detto nelle lezioni l’ho appreso da altri ma, spesso, non ricordo né mi interessa la fonte. Se ho dato la mia adesione alle opinioni da altri proposte, significa che le stesse mi hanno interessato, che le ho valutate e condivise e, quindi, fatte mie!

Ho avuto sempre pudore a scrivere qualcosa per non voler essere identificato come uno dei tanti replicanti: tutto ciò che c’era da dire è stato già detto in maniera migliore, in altre epoche, dai grandi del passato. Ho, poi, capito che tutti i miei pensieri, le mie idee, non erano mie. E allora, ho accettato gli incoraggiamenti che mi venivano da più parti: ora, voglio scrivere per restituire tutto ciò che mi era stato dato in prestito. Nel transito della vita mi è stata concessa la “servitù di passaggio”, ma la proprietà rimane ad altri.

Secondo il filosofo Pascal, “l’opinione è la regina del mondo”[1].

L’opinare è una funzione sociale. Noi abbiamo delle opinioni solo in quanto pensiamo “socialmente”.

L’opinione tende, in definitiva, a situarci in una determinata posizione nell’ambito del gruppo al quale apparteniamo (in quel momento!).

I problemi di opinione sono posti a noi belli e fatti. La nostra riflessione è libera, senza dubbio, di risolverli nella maniera a noi più confacente, ma non è essa che li ha inventati. L’opinione individuale è sempre il frutto dell’interazione sociale. Nessuna opinione è mai stata veramente autonoma: per esistere e sostenersi, seppure per un brevissimo lasso di tempo, essa ha bisogno di appoggiarsi a mille e mille preesistenti opinioni, alle quali ha di volta in volta aderito, anche senza assumerne consapevolezza. E allora, l’opinione “individuale” per sua natura non può che essere “collettiva”: senza condivisione o senza disaccordo e, in definitiva, senza “pubblicità” l’opinione non sarà mai nata e, pertanto, non potrà mai esistere. Sono gli altri che nel loro essere “altro da me” mi autorizzano e legittimano il mio “secondo me… a mio giudizio … a mio modo di vedere…”, me … mio … mio modo …, che non potrei neppure pronunciare se non fossi certo dell’esistenza del tuo … vostro … loro … .

Ricordo di aver letto in gioventù un autore spagnolo che affermava “i morti comandano”: il nostro presente e il nostro futuro non possono prescindere dal passato, dai nostri morti. Sono loro che dettano le regole del presente, sono loro il nostro irrinunciabile patrimonio genetico che ci permette di vivere anche se in termini antitetici e senza condivisione, nel tentativo, a volte disperato, di superarli, di andare oltre per essere noi stessi i morti del domani, che, continuando a tessere le maglie di una catena senza fine, potranno finalmente “comandare” le generazioni future.

E allora, ogni mio pensiero, ogni mia opinione su tutto l’opinabile non può prescindere da tutto ciò che mi ha preceduto, da tutto ciò che altri, prima di me, hanno opinato. L’opinione, pertanto, non può che ribadire la sua connotazione di impossibile autonomia, di improponibile spontaneità, di illusoria indipendenza.

Nella storia dell’umanità sono apparsi, molto raramente, personaggi forniti di intelligenza superiore e noi, nelle diverse discipline del sapere, li abbiamo considerati originali, creativi, innovativi, spiriti ispiratori. Il loro essere fuori dal comune ci ha costretti a classificarli con un termine fuori dal comune: li abbiamo chiamati geni!

In tal caso, l’idea che li ispirava non stava in rapporto con delle determinanti individuali prestabilite. Questa idea era un’intuizione, innanzi tutto, di cui neppure loro potevano vedere le conseguenze intellettuali e sociali che ne sarebbero scaturite.

L’uomo che cerca di pensare da solo, nell’inseguire una impossibile autonomia perché, comunque, le sue opinioni deriveranno, in qualche modo, da opinioni preesistenti, non cerca di riunire attorno a se un gruppo che sposerà le sue opinioni e le sosterrà. Egli è solo preoccupato di arrivare allo scopo e, perciò, incorre nell’incomprensione, nello scherno, nel ridicolo.

Per quanto mi riguarda, con grande realismo e con un pizzico di autoironia, desidero, invece, iscrivermi al partito che A. Camus auspicava quando affermava che “se mai esisterà il partito di quelli che non sono sicuri delle proprie opinioni io potrò farne parte”.

Prof. Giuseppe Ragnetti

Qui il libro Opinioni sull’opinione in formato PDF

[1] “L’opinion est la reine du monde”, B. Pascal (1623-1662), Pensées, V, 311.

La Tecnica Sociale Fattorelliana

Il Difensore Civico

Testo per la Conferenza  ai Difensori Civici della Regione Marche, a cura del prof, Giuseppe Ragnetti


Vorrei parlarvi della informazione e della comunicazione, farò quindi un grande sforzo di sintesi per dire l’essenziale in poche pagine..

Partiamo dalla “rivoluzione chirografica” che data 4000 anni a.C. quando i Sumeri inventano i primi segni, l’alfabeto primordiale, dopo che l’uomo chissà per quanti migliaia di anni era andato avanti con una comunicazione non verbale,   la sola e unica forma di comunicazione  di cui l’uomo disponesse per millenni.

L’uomo si esprimeva esclusivamente con una comunicazione che potremmo definire  inespressa o con dei suoni gutturali che potevano in qualche maniera assomigliare alle nostre parole, l’uomo evidentemente non era ancora in grado di articolare in maniera sufficientemente corretta le sue modalità espressive, e quindi, non poteva che utilizzare quella che oggi viene appunto chiamata comunicazione non verbale. Era assicurato un livello minimo di comprensione e di scambi comunicativi ma, naturalmente di tutto ciò non restava una minima traccia.

La rivoluzione chirografica avviene, abbiamo detto, 4000 anni a. C. e possiamo immaginare che la motivazione primaria fosse la necessità di mettere nero su bianco. Possiamo immaginare che l’uomo di allora abbia detto in qualche ipotetico e fantascientifico convegno sull’argomento:” dobbiamo inventare dei segni, dobbiamo smetterla di affidarci esclusivamente alla memoria, al passa parola, allo stregone che detiene la conoscenza, dobbiamo trovare un sistema che lasci delle tracce e che faciliti i rapporti tra gli esseri umani”.

La sua istanza è stata recepita e si arriva alla grandissima rivoluzione che parte, appunto con la realizzazione del segno, con l’invenzione dell’alfabeto. Dopo di che passano ben 5500 anni per arrivare alla seconda rivoluzione della storia della comunicazione: la rivoluzione guttemberghiana, attorno al 1450 d. C., laddove Guttemberg inventa finalmente la stampa. Questa viene definita come la più grande rivoluzione dell’umanità assieme alla bussola e alla polvere da sparo, ma è la stampa la vera rivoluzione perché evidentemente passiamo da una cultura patrimonio esclusivo di certe  istituzioni quali la Chiesa e lo Stato ad una cultura che può diventare  accessibile a tutti.

Attraverso la stampa infatti la cultura inizia a circolare, potenzialmente è già patrimonio di tutti, anche se trova un limite enorme soprattutto per i primi 100 – 200 anni nello scarsissimo livello di alfabetizzazione. Si calcola che soltanto il 4-5% delle persone fosse in grado di leggere, è un dato di fatto che l’invenzione della stampa abbia rappresentato la svolta delle svolte, perché ha permesso la circolazione del sapere, ha permesso agli uomini di confrontarsi e, grazie anche alla stampa, siamo arrivati alle meravigliose scoperte del 1800.

In questo secolo l’uomo inventa di tutto e di più, tutte le più grandi scoperte avvengono in questo secolo, per quanto riguarda la comunicazione: dalla macchina fotografica alle apparecchiature per riprodurre i suoni, alla radio, al cinema, al primo embrione televisivo, al telegrafo e al telefono.

Tutto avviene in questo secolo perché innanzitutto il sapere, grazie ai libri, è stato in grado di circolare tra i vari paesi e tra i vari studiosi e poi perché un’altra meravigliosa energia che per la prima volta appare sulla faccia della terra, l’elettricità, consente questa esplosione di conoscenze e le relative realizzazioni pratiche.

Questa volta, siamo passati dalla rivoluzione guttemberghiana alla successiva rivoluzione elettrica in meno di 400 anni : da quella elettrica alla rivoluzione elettronica, che è quella in cui siamo tuttora immersi, sono passati neanche 100 anni.

Queste rivoluzioni hanno generato nell’arco dei secoli quattro culture: la cultura orale che per trasmettere la conoscenza e per un minimo scambio relazionale fa uso della parola o, comunque, di tutto ciò che rappresenta la comunicazione non verbale.

Abbiamo poi avuto la cultura chirografica che adopera la tecnica silenziosa  della scrittura, del segno: finalmente l’uomo è in grado di tracciare tracce precise. Arriva poi la cultura tipografica che è figlia della rivoluzione guttemberghiana. Abbiamo infine la cultura dei media elettrici prima ed elettronici poi rappresentata dalle informazioni e dalla conoscenza in generale trasmessa attraverso i più comuni mass media.

La conseguenza delle tre rivoluzioni è stata quella di far circolare le informazioni ad una velocità sempre maggiore e a  costi sempre più contenuti: l’uomo da sempre si era posto questo obiettivo ed oggi finalmente lo ha raggiunto. Aspetto economico a parte, facilità di far circolare informazioni a parte, l’uomo da sempre coltivava un sogno che poteva apparire impossibile: quello di annullare due limiti che sembravano veramente inattaccabili: tempo e spazio.

Oggi, nella comunicazione il tempo non esiste più: in questo momento con il mio cellulare schiaccio un pulsante e parlo con il mio amico che lavora a Tokio in tempo reale come comunemente si dice. Anche il limite spaziale non esiste più: 10.000-12.000 km mi consentono tranquillamente di dialogare con la persona come se la stessa fosse nel mio condominio.

Potremmo quindi dire che l’uomo in quest’ultimo secolo si è concentrato sulle nuove tecnologie in vista dell’ottenimento di questo risultato incredibile: la comunicazione avviene in tempo reale in tutto il mondo, non solo nel nostro mondo abitato ma, più che mai, oggi siamo proiettati verso gli spazi extraterrestri.

Si parla sempre di comunicazione, ma in realtà che tipo di comunicazione dobbiamo mettere in atto? Tutti ci consigliano di comunicare bene, ci dicono che la comunicazione è importante, che la comunicazione efficace produce benessere, scambi proficui tra gli esseri umani. Ma che cosa è in realtà la comunicazione? Che cosa significa comunicare bene?

E qui s’impone la necessità di demolire un mito tuttora molto presente nelle università italiane: si insegnano ancora oggi impostazioni e metodologie che sono state completamente riviste o addirittura ripudiate da coloro che le avevano elaborate al livello teorico. Questi in buona sostanza ci hanno detto “non avevamo capito nulla, abbiamo sbagliato, scusate avevate ragione voi” e poi vi dirò chi erano i “voi”.

Tutto nasce dalla rappresentazione di un bersaglio colpito da una freccia. Si tratta dell’impostazione teorica anglosassone laddove la freccia rappresenta la comunicazione e il bersaglio dovrebbe rappresentare gli esseri umani a cui la comunicazione è rivolta.

Attorno agli anni ’30, tra le due guerre, negli Stati Uniti è tutto un fiorire, per la prima volta, di studi sulla comunicazione che approdano a questa conclusione: la comunicazione è un potere assoluto e su questa scia una particolare tipologia di comunicazione, quella pubblicitaria diventa addirittura uno strapotere in grado addirittura “di vendere frigoriferi anche agli Eschimesi”, pian piano si accredita l’idea che la comunicazione intesa appunto come strapotere, praticamente permette a certi esseri umani – e io mi chiedo dotati di chissà quali poteri extraterrestri, con un background di chissà quali studi provenienti da chissà quale mondo, e qualche volta scherzando parlo di una casta privilegiata che discende direttamente da Dio – esseri umani comunque in grado di condizionare altri esseri umani e far si che questi si comportino come coloro che promuovono la comunicazione desiderano. E’ questa la grande illusione, un equivoco colossale nel quale siamo quotidianamente immersi.

Pensate alla situazione Berlusconi, pensate alla situazione di altri personaggi in altre parti del mondo: tutto quello che Berlusconi ottiene è dovuto al fatto che ha uno strapotere enorme sulla comunicazione, cioè ha televisioni, giornali e ogni mezzo possibile per raggiungere gli Italiani quando e come vuole.

Questa impostazione è assolutamente fuorviante perché non ci aiuta a comprendere la realtà, non ci fa capire i problemi, è una interpretazione estremamente superficiale che non ha nessuna valutazione né validità scientifica.

Gli autori più accreditati, quello che vengono considerati come un riferimento obbligato per tutto ciò che riguarda la comunicazione, e mi viene in mente in primis Denis Mc Quail che ha scritto un testo classico “Le comunicazioni di massa” che è tuttora  una lettura di riferimento in tutte le università italiane, il quale dice esattamente questa frase: “L’intero studio delle comunicazioni di massa si basa sul presupposto dell’esistenza di effetti provocati dai mezzi di comunicazione. (…) E tuttavia sussistono molti dubbi circa il grado, l’incidenza e il tipo di effetti e la nostra conoscenza è insufficiente per fare la benché minima previsione circa il verificarsi di un effetto in un determinato caso.”.

Abbiamo cercato in ogni modo di capire le dinamiche elettorali e abbiamo tentato di analizzare i perché dei comportamenti umani: e tuttora possiamo affermare che la comunicazione rappresenta soltanto uno degli aspetti marginali del perché gli uomini assumono certi comportamenti. Se noi potessimo accettare l’impostazione che la comunicazione  è in grado di far fare agli esseri umani quello che altri esseri umani vogliono, dovremmo accettare una umanità divisa tra personaggi dotati di poteri particolari e dall’altra parte una massa enorme di burattini di cui alcuni tirano regolarmente i fili, incapaci di reagire, incapaci di scegliere, incapaci di decidere.

Tutto questo rappresenterebbe il più grave oltraggio alla nostra dignità e soprattutto un oltraggio alla nostra intelligenza.  Gli esseri umani, purtroppo hanno talvolta una grande difficoltà ad accettare l’idea di avere un cervello: questo è grave perché rifiutare di riconoscere la parte più importante del nostro essere, la parte dotata di una complessità e di una magnificenza strutturale per la quale dovremmo provare pudore solamente a parlarne e considerarsi invece soggetti -oggetti estremamente fragili, estremamente deboli ed esposti a pesanti condizionamenti, tutto ciò dovrebbe essere inaccettabile da parte di qualsiasi essere umano.

La cultura americana del dopoguerra, produce poi un testo classico, l’ autore è Packard, che si chiama: “I persuasori occulti”: diventa subito un best seller anche se a livello scientifico rappresenta un’ amenità da tenere sul comodino per leggere la sera quando si è un po’ depressi. Packard afferma, in sostanza, che la comunicazione attraverso una psicoanalisi di massa è in grado di scavare le profondità degli esseri umani.

Ebbene, chi conosce l’impostazione psicologica e la serietà ormai incontrovertibile dei processi psicoanalitici, non può neanche lontanamente accettare l’idea di una psicoanalisi di massa. La psicoanalisi è un rapporto a due che è in grado di attivare particolari dinamiche nel chiuso di una relazione che può andare avanti per anni e anni nel tentativo di capire , e non sempre si riesce, qualcosa di una persona. Come potrei condizionare i comportamenti di milioni di esseri umani di cui non conosco neanche il nome?

Facciamo l’esempio di un miliardo di Cinesi: con una compagna comunicativa ben orchestrata, facendo leva su  ipotetici bisogni profondi, sulle loro esigenze che affondano nel loro inconscio, io sarei in grado di condizionare un miliardo di Cinesi ed ottenere da loro quello che voglio? E’ chiaro che si tratta di una impostazione al limite dell’ingenuità o della malafede e, comunque, estremamente limitativa.

Tutto nasce da questo equivoco laddove gli esseri umani vengono definiti con un termine ignobile: target. Oramai tutti parlano di target, tutti abbiamo un target di riferimento. Target ha solo un significato: significa bersaglio, quindi l’essere umano bersaglio, e va da sé che se la comunicazione è ben costruita, se la freccia è ben realizzata il target non ha scampo.

Ecco allora l’immenso potere della comunicazione che concentra per circa 50 anni, dal 1930 al 1980 circa, sull’impostazione delle scuole teoriche americane, tutti i suoi sforzi nella costruzione della freccia, nel rafforzamento dell’organizzazione che emette comunicazione (giornali, radio, televisioni) e tutti gli sforzi sono mirati a costruire la freccia la più efficace possibile e se poi sulla punta di quella freccia io riesco a mettere anche un po’ di curaro, il povero target sicuramente non ha scampo. Il target esiste esclusivamente per essere colpito e affondato tipo battaglia navale per intenderci.

Ribadisco quindi che con tale impostazione dei problemi su questa terra ci sarebbero alcuni specialisti molto abili nel costruire frecce avvelenate e dall’altra parte ci sarebbero miliardi di esseri umani che sono lì  esclusivamente nel ruolo di bersaglio passivo in grado di essere affondato senza poter reagire.

E’ questa una impostazione che ci rifiutiamo con tutte le nostre forze di accettare e avendo dedicato tanto tempo e tante energie a capire questi fenomeni, siamo stati in grado di dire agli Americani: “non avete capito nulla, vi sfugge un particolare di enorme importanza dimenticate che l’uomo ha un cervello, ma soprattutto, vi sfugge quella struttura meravigliosa che si chiama filtro percettivo: non avete capito che io posso parlare a voi, un’ora, due ore o cinque minuti, posso avere preparato il mio intervento in maniera encomiabile, posso avere usato le migliori tecnologie, le migliori illustrazioni, posso essere un mago della comunicazione ma tutto ciò non serve assolutamente a  nulla se voi non mi volete sentire.

Tutti noi abbiamo questa meravigliosa struttura, certamente non anatomica, ma tuttavia altrettanto reale, per cui ognuno di noi sente ciò che vuol sentire. Chi ha dei figli vive alle volte drammaticamente questa situazione.

Quante volte le vostre bambine o i vostri bambini vi hanno fatto capire o, esplicitamente, detto “mamma, papà parlate, parlate tanto da qui mi entra e da qui mi esce” definizione bellissima dell’ impossibilità di superare il filtro percettivo, cioè “non ti faccio entrare nel mio cervello” se io non voglio. Per dieci, venti, trenta anni, i genitori hanno detto ai figli “ non fare così, ti prego”, minacce, promesse, soldi, tutto. I risultati sono stati, talvolta, molto insoddisfacenti, perché? Perché il messaggio non è riuscito a scavalcare questo meccanismo salvifico che si chiama filtro percettivo.

La cultura americana ha, infine, varcato l’oceano e forse, con il capo cosparso di cenere, pragmaticamente ha dovuto accettare la nostra impostazione.

Possiamo tranquillamente affermare che oggi in tutto il mondo la comunicazione segue l’impostazione teorica italiana di cui  parlerò più avanti. Impostazione teorica  che individua con chiarezza, limiti e potenzialità reali dell’informazione e della comunicazione.

Nella nostra quotidianità, lavoro, famiglia relazioni sociali di ogni tipo, il primo obiettivo deve essere la certezza che le persone ci capiscono, così come noi dobbiamo capire loro. In sintesi capire e farsi capire. Troppo spesso   per opera dei cosiddetti intellettuali, dei burocrati, dei politici, dei professionisti si ripete la vecchia storiella del bravo parroco di campagna. I parrocchiani che andavano a messa commentavano “hai sentito quanto parla bene?” “ eh sì, che ha detto?” “veramente non ho capito però parla tanto bene!”

Può sembrare che io stia banalizzando i problemi ma vi assicuro che non è così: ho un’esperienza aziendale, ho un’esperienza universitaria ed ho un’esperienza di formazione alla comunicazione che mi consente di affermare che la stragrande maggioranza dei problemi è rappresentata da problemi di comunicazione: nella famiglia, nel lavoro, nei rapporti interpersonali per non parlare poi dei rapporti di coppia, non ci si capisce più: tu dici buongiorno e l’altro capisce buonasera e si arrabbia perché sono le 8.00 del mattino.

D’altra parte, quando andiamo a vedere le aziende, le amministrazioni e in generale laddove le cose funzionano, guarda caso puntualmente scopriamo che funziona bene la comunicazione, che i messaggi sono chiari, che tutti li hanno capiti, che tutti sono stati coinvolti nella giusta maniera perché hanno condiviso.

La comunicazione ha obiettivi ben precisi: far capire il problema per ottenere la condivisione delle persone che sono co-interessate a quel problema, e subito dopo, la azione consequenziale, altrimenti si parla tra sordi, tra muti con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.

E adesso se avete ancora un po’ di pazienza per continuare a leggere, vorrei illustrarvi in estrema sintesi, l’impostazione teorica italiana.

Noi siamo fortemente convinti che al di là delle istruzioni tecniche, al di là  di esposizioni più o meno corrette, più o meno scientifiche, più o meno gradite, dobbiamo avere un metodo, che qualche volta ha la sua valenza proprio perché è un metodo non metodo, è quasi un metodo passe-partout .

Abbiamo parlato di una visione di scuola anglosassone dove tutti gli sforzi erano concentrati sulla costruzione di una freccia avvelenata cioè di una comunicazione irresistibile. In altri termini, la comunicazione fatta bene, magari da super specialisti, otterrebbe comunque i risultati voluti.

L’impostazione teorica italiana, figlia di Francesco Fattorello, il massimo studioso italiano del settore e autore dell’unica teoria concepita nel nostro paese porta il nome di Tecnica sociale dell’Informazione. Io voglio parlarvi della tecnica sociale non soltanto perché Francesco Fattorello è stato il mio maestro e mi ha lasciato in eredità la sua Scuola, ma perché è oggi l’impostazione teorica adottata in tutto il mondo. Da parte mia, è doveroso far conoscere un così illustre concittadino alla città di Pordenone che gli ha dato i natali.

Questa teoria nasce nell’immediato dopoguerra, con una visione avveniristica e all’epoca assolutamente impensabile; non è facile per Fattorello affermare a gran voce la sua Teoria, in quanto il periodo in cui si manifesta la sua visione, è totalmente influenzato dalla impostazione teorica anglosassone che,  come detto in precedenza, vede la comunicazione come un processo ineludibile subìto da un ricevente passivo.

Superare l’idea di un recettore come target e come altamente condizionabile, è stata la sfida dei fattorelliani che hanno, di tutta risposta, proposto un soggetto recettore di pari dignità in quanto dotato delle stesse facoltà opinanti del soggetto promotore.  Il significato profondo degli studi fattorelliani sta nell’aver rivalutato il ruolo del soggetto recettore rispetto al conclamato strapotere del soggetto promotore.                                

X)

M

Sp                       Sr

O

Nella formula ideografica che schematicamente rappresenta il processo, colui che mette in atto il rapporto di comunicazione si chiama soggetto promotore e non più emittente.

Per la prima volta parliamo di un soggetto cioè  di un essere umano dotato di facoltà opinanti, di una persona in grado di vedere il mondo dal suo punto di vista e soprattutto in grado di ragionare.

Il problema da comunicare è rappresentato dalla X che può essere qualsiasi cosa: un prodotto, un’idea, un fatto di cronaca, insomma qualcosa oggetto del nostro parlare, del nostro comunicare, in altri termini il motivo per cui si mette in atto un rapporto di informazione/comunicazione.

Questo soggetto promotore avendo ora qualcosa da comunicare, cioè la X, che cosa deve fare? Deve chiedersi immediatamente, dopo aver individuato il problema, quali potranno essere o meglio quali saranno i suoi Sr, cioè i suoi soggetti recettori. Si tratta di una vera rivoluzione culturale: non più target, non più elementi indefiniti, generici emittente-ricevente, ma i  due terminali si chiamano entrambi “soggetti”.

Questo significa riconoscere pari dignità a coloro che parlano e a coloro che ascoltano, a coloro che scrivono sul giornale e a coloro che lo leggono, a coloro che producono un film e a coloro che vedono un film, a coloro che fanno il telegiornale e a coloro che lo seguono.  Perché pari dignità? Perché essendo comunque esseri umani, sono entrambi dotati delle stesse facoltà opinanti. O no?

Perché il cervello di chi vede il telegiornale dovrebbe essere diverso o dovrebbe avere meno neuroni di chi il telegiornale lo presenta? Questo è un dato di fatto: c’è un uomo che “di mestiere” lavora al telegiornale e dall’altra parte c’è un uomo che “di mestiere” ascolta e vede quello che il primo uomo ha proposto. Assoluta pari dignità tra soggetto  promotore e soggetto recettore.

E’ questa una grande rivoluzione culturale che nasce in primis da un’impostazione mentale europea e italiana in particolare che non riesce a considerare gli esseri umani soggetti passivi, semplici target, bersagli inerti che possono essere soltanto colpiti.

Dopo aver individuato chi sarà il mio soggetto recettore, e quindi aver capito che debbo parlare ad un particolare destinatario, si pone il problema di che cosa dire a questo destinatario.

La O della formula ideografica significa appunto il contenuto, ciò che voglio dire. Una volta che ho individuato il motivo per cui debbo parlare ( la X ) una volta che ho capito a chi voglio parlare ( Sr ) il problema sarà che cosa debbo dire ( la O ). In effetti, non posso trasmettere nel mio colloquio, nella mia trasmissione televisiva, nel mio giornale, l’oggetto tal quale, ma posso trasmettere la mia interpretazione di quell’oggetto.

Il cronista che va in guerra non può mettere sul giornale i missili, gli aerei, le bombe, i morti. L’unica cosa che gli è consentito fare e che rientra nelle possibilità umane è quella di riportare la sua narrazione,  la sua interpretazione, il modo in cui egli ha visto e vissuto gli avvenimenti di cui parla e quindi il racconto non può non essere figlio della soggettività del giornalista, soggetto promotore.

E allora, la nostra impostazione dà una spallata tremenda alla cultura americana demolendo senza appello il mito dell’obiettività che purtroppo, si insegna ancora in alcune scuole di giornalismo in Italia quando si afferma: “ ricordate che il primo dovere del giornalista è l’obiettività”.

E’ questa una bestemmia che noi non possiamo accettare. Il primo dovere del giornalista è la soggettività, il giornalista deve raccontare quello che lui vede, quello che lui crede di aver visto quando firma la sua corrispondenza; il vero problema non è tanto soggettività o obiettività, il vero problema deontologico è la mistificazione operata da parte di coloro che affermano di essere obiettivi ben sapendo che obiettivi non possono esserlo.

L’obiettività non è tra le possibilità umane perché nessuno di noi può vedere se non con gli occhi della propria soggettività. Quello che per me è bello e desiderabile, per te potrebbe essere brutto e di nessun interesse. Anche la terminologia e le modalità di descrizione dell’episodio, il livello “di temperatura” attribuito non possono che essere figli della mia soggettività e quindi figli della mia acculturazione, espressione dell’animale sociale che è in me quale espressione di tutto il mio vissuto.

Il discorso sulla obiettività non esiste e non deve esistere e sarebbe addirittura la negazione dell’informazione che significa esattamente dare forma, mettere in-forma, il fatto, l’avvenimento, il problema che genera il mio rapporto di informazione e di comunicazione.

I più grandi giornalisti che sono spesso etichettati come obiettivi, in realtà sono il massimo della soggettività e sono riconosciuti, ammirati e cercati proprio perché raccontano le cose come loro le vedono e ciò nonostante vengono definiti obiettivi. In realtà, l’unica obiettività teorica che possa esistere è quella di quando chi fa informazione vede come vorrei vedere io, cioè “quando la vede esattamente come io la penso” e in realtà è soltanto la sua soggettività che coincide con la mia.

Quando abbiamo deciso di che cosa vogliamo parlare, come la vogliamo raccontare, a chi la vogliamo raccontare rimane il problema del mezzo da utilizzare. Non è questa una scelta semplice perché anche il mezzo è in funzione del tipo di recettore a cui voglio parlare; per capirci non possiamo inviare una circolare a persone che non sanno leggere o scrivere.

Purtroppo, la scelta del mezzo è spesso realizzata con grande superficialità e si è arrivati nell’Amministrazione dello Stato al paradosso di usare mezzi assolutamente improponibili per certe tipologie di recettori. Oggi poi, si vorrebbe fare tutto attraverso la televisione ma non è detto che la televisione sia il mezzo ideale per il semplice fatto che entra in tutte le case.

Ad esempio, molto spesso va da sé che la comunicazione è soprattutto interpersonale e diventa prioritaria una forte attenzione agli aspetti della comunicazione non verbale.

Ancora una volta quindi il mezzo in funzione del soggetto recettore. A questo punto il soggetto promotore può affermare “ho ben compreso il problema da comunicare, ho individuato a chi parlare, ho deciso come dirglielo, ho scelto il mezzo più opportuno” e a questo punto il cerchio si chiude. Quella che vi ho illustrato viene definita come formula ideografica fattorelliana che rappresenta graficamente la teoria della tecnica sociale: abbiamo un problema, c’è un soggetto promotore, c’è un soggetto recettore, c’è un mezzo e c’è una “O” che è la mia interpretazione del problema . Per la prima volta noi sappiamo come costruire questa “O”.

Questo aspetto della teoria normalmente richiede un anno di didattica ma io cercherò di illustrarvela in poche righe (avevo promesso estrema sintesi!)

Insomma come gliela debbo raccontare alla persona che mi sta davanti, al mio pubblico a cui voglio parlare, questa cosa affinché il pubblico sia d’accordo con me, e mi dia la sua adesione d’opinione, affinché in altri termini, ci sia una convergenza di interpretazione tra come io l’ho vista e come il pubblico la avrebbe vista?

A questo punto la tecnica sociale afferma che questa convergenza di interpretazione – “sono d’accordo con quello che tu mi dici, anche per me è così” – avviene se noi abbiamo studiato attentamente il nostro soggetto recettore, soprattutto dal punto di vista della sua acculturazione, intendendo per acculturazione tutto quello che ha socializzato quell’essere umano che ci sta di fronte.

Capite allora che il problema è completamente ribaltato: altro che la freccia da costruire per colpire;  si rende invece indispensabile lo studio del soggetto recettore per costruire la nostra “ O “ in funzione della sua acculturazione, delle sue aspettative, dei suoi desideri, della sua capacità di capire anche il lessico da noi adottato.

A volte dobbiamo essere banalissimi nel nostro linguaggio, dobbiamo usare esempi, metafore. Ad esempio  e’ bellissimo ascoltare certi interventi in tribunale quando l’uomo di legge, pur potendo giocare tutto sotto gli aspetti del diritto o comunque sotto aspetti tecnici, si lascia invece andare  a ,metafore che hanno un grande impatto comunicativo.

Altra cosa che mi sento di raccomandarvi: non abbiate mai timore di esser troppo chiari. Io ho elaborato una teoria a cui ho dedicato anni e anni della mia vita: “ la teoria della nonna”: quando vi accingete a fare un discorso di qualunque tipo,  prima di presentarlo fatelo ascoltare alla nonna.  “Senti nonna, io domani voglio dire questa cosa” se nonna capisce andate avanti se nonna non capisce stracciatelo e ricominciate da capo.

Debbo dire che ho un precedente illustre, grande commediografo francese, un certo Molière che andava dalla sua cuoca in cucina e le diceva “senti , si capisce? Ti piace?” Se la cuoca diceva sì, andava avanti, se diceva no, buttava via tutto. I maligni pensano che questa fosse una gran bella cuoca e che Molière fosse uno sporcaccione e la consultazione fosse soltanto un pretesto, comunque la storia è storia e non sta a noi giudicare.

Un’ultima cosa mi preme sottolineare e la ritengo imprescindibile. Se è vero come è vero, che noi dobbiamo conoscere il nostro soggetto recettore per costruire il discorso attorno ai contenuti esattamente come lui vorrebbe che noi dicessimo, e cioè vedere la realtà con gli occhi di chi ci sta di fronte, non possiamo tuttavia pensare che la nostra visione, per quanto corretta, giusta ben realizzata, possa essere condivisa da chi ci ascolta: aspettarsi questo, è un atto di presunzione infinita che dà alla mia percezione del mondo il valore  di essere nel giusto e toglie alla percezione dell’altro altrettanta dignità. Siamo sempre soggetti opinanti, di pari dignità, a prescindere dalla cultura, dai libri letti, da diverse impostazioni ideologiche. Sono due cervelli che si mettono in relazione.

Provate a convincere un vecchio contadino a fare qualcosa: per due ore di seguito vi dirà “sì, sì, sì “, poi quando tu pensi di averlo convinto e gli chiedi “allora sei d’accordo?” La risposta sarà “no, io faccio di testa mia” dopo due ore di “sì, sì, sì!” E allora capite che per avere l’adesione di opinione non basta il potere di una cultura superiore o un ruolo sociale elevato: tutti voi avete esperienza di persone che si relazionano con  voi e dicono “sì, sì però…”

Pari dignità, grande rispetto, non sottovalutiamo nessuno e non sopravvalutiamo nessuno si tratta pur sempre di due cervelli dove spesso l’unica differenza è un banalissimo – lo chiamo così io – titolo di studio, qualche libro in più o qualche libro in meno, ma non è una differenza sostanziale anche perché i libri che ho letto io sono a disposizione di chiunque altro li voglia leggere, e quindi si impone la necessità di conoscere e capire al meglio per poter parlare secondo le aspettative e comunque in sintonia con i miei soggetti recettori.

E allora vi propongo il mio personale, imprescindibile assioma della comunicazione.

Al primo punto troviamo “ascoltare per conoscere” ; subito dopo “conoscere per capire” poi ”capire per comunicare” e, infine, “comunicare per agire”  Se saltiamo anche soltanto uno di questi passaggi, la relazione non funziona e il rapporto diventa inutile e privo di significato. Ho dunque bisogno di ascoltare per conoscere ed ho bisogno di conoscere per comunicare, perché se non conosco non entrerò mai in sintonia e non capirò mai le aspettative del mio interlocutore.

Naturalmente tutti noi dobbiamo anche comunicare per l’agire quotidiano, per le esigenze pratiche di tutti i giorni e allora  ascoltare e possibilmente sentire, diventa un mezzo importante per accrescere le nostre informazioni, l’intuizione e la comprensione necessaria a gestire con successo e soddisfazione il rapporto interpersonale.

Spero di avervi trasmesso il mio entusiasmo per l’ordine di studi sulla comunicazione. Ho la fortuna di avere giorno per giorno risultati eccellenti, basati esclusivamente sulla forza dell’ascolto e delle parole.

E allora è con grande entusiasmo che porto a voi la mia esperienza di vita e la mia esperienza professionale per incitarvi, al di là dei problemi concreti, a prestare una grane attenzione al miglioramento della vostra comunicazione. E per comunicare non intendo soltanto parlare, intendo innanzi tutto ascoltare.

Il primo atto della comunicazione è ascoltare e non sempre  è facile, però se vogliamo dare un senso anche al nostro lavoro oltre che alla nostra vita, credo che la strada non possa essere che questa.

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In tutte le attività lavorative che coinvolgono più persone, il capo di successo deve essere un bravo allenatore

Schemi delle Capacità

La comunicazione efficace è di massima importanza al fine di ottenere consensi dai nostri colleghi, collaboratori e cittadini/utenti. Sapersi esprimere al meglio, in modo comprensibile e corretto, garantisce la massima chiarezza nel rapporto interpersonale. Saper comunicare in maniera corretta significa farsi comprendere, mettere il nostro interlocutore in grado di percepire ciò che vogliamo comunicargli e, inoltre, ci dà la sicurezza fondamentale per rafforzare la fiducia nelle proprie qualità.

La Gestione degli Obiettivi

La Gestione per Obiettivi facilita la realizzazione effettiva del decentramento di responsabilità e della delega di autorità con lo scopo di ottenere la massima partecipazione delle risorse umane al conseguimento dei risultati aziendali.

Terapia della “Parola”

Siamo quotidianamente sempre di più inondati da “parole” non sempre correttamente utilizzate; diviene, quindi, opportuno ricordare e sottolineare la valenza terapeutica della “Parola” ed il suo corretto utilizzo in funzione della Comunicazione.

 

 

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Nel momento che stiamo vivendo, attenuato il pericolo COVID grazie ai comportamenti prudenziali e, soprattutto, al vaccino, il problema fondamentale è quello del lavoro. Risulta che tutte le Aziende ricercano personale soprattutto nel settore delle vendite, al Sud quasi in esclusiva. Sembra che il COVID abbia colpito tutte le attività produttive, lasciandole piene di “invenduti”. Ecco perché il settore vendite è diventato una priorità per tutte le Aziende.

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