Se Cleopatra sapesse comunicare…

di SARA ANGELUCCI

Cleopatra è il nome della mia gattina, ed ogni volta che esco di casa la saluto dicendole “ciao topolino mio”!! Ma se Cleopatra sapesse che, il vezzeggiativo con il quale mi rivolgo a lei, è il nome che il nostro linguaggio assegna a quegli animaletti ai quali dà la caccia con tanta foga, cosa direbbe?

Probabilmente, la sua reazione non sarebbe affettuosa come, viceversa, si dimostra. Tra gli uomini la comunicazione, per essere tale, deve avvenire con modalità diverse e chi ha letto il numero precedente del nostro bollettino ha certamente compreso la rivoluzione operata dalla fattorelliana “Scuola di Roma”.

Considerare sullo stesso piano sia il soggetto promotore che il soggetto recettore, entrambi soggetti opinanti di pari dignità, significa che per comunicare bisogna avere chiaro chi è il destinatario del nostro messaggio. Quando parliamo non possiamo rovesciare sull’altro il nostro pensiero, bensì dobbiamo costruirlo tenendo conto anche della sua idea.

E’ evidente come nella maggior parte dei casi questo non avvenga: si parla ma non si comunica, e ciò è visibile nella conflittualità che si registra negli ambienti politici, professionali e familiari. Ciò che sembra scontato (chi ammette di parlare senza conoscere chi si ha davanti?!), manda in corto circuito il processo comunicativo e la lite (verbale, ma non sempre) invalida lo scambio.

I politici, d’altro canto, rappresentano un caso esemplificativo di come, sullo stesso concetto, si possono costruire significati contrapposti, pur tuttavia validi, perché indirizzati a pubblici differenti. Solo chi fuori dagli schieramenti di partito vuole trovare un’univoca soluzione, si renderà conto che in realtà questa non esiste e sono proposte visioni diverse, che non costituiscono una risoluzione concreta.

Ci può essere un sistema migliore? Ci sono parole ed espressioni che abbiamo timore di pronunciare a noi stessi e che avrebbero invece un gran effetto benefico sul nostro essere e sul modo di relazionarci all’altro. Allora, forse, è il caso di avere più comprensione per noi stessi, dobbiamo esercitarci a pronunciare ad alta voce quelle parole che germogliando dentro di noi, ci predispongono all’accoglienza verso chi abbiamo di fronte.

Il perchè di un lavoro sull’opinione

di GIUSEPPE RAGNETTI

Gli studi accademici, in Italia, non si sono occupati frequentemente dell’opinione: da una parte gli studiosi non le dedicano molta attenzione, dall’altra i cosiddetti “esperti” e quelli “neanche-esperti” ne parlano e straparlano in ogni occasione e in ogni contesto senza conoscerne minimamente la struttura e i meccanismi evolutivi.

E allora sentiamo, (ancora!), parlare di informazione obiettiva, condizionamento, persuasione occulta, messaggi subliminali, strapotere dei mezzi di comunicazione, di par condicio e di altre amenità che quotidianamente ci vengono somministrate senza un minimo humus scientifico che renda il tutto appena credibile.

E’, tuttavia, quello dell’opinione un argomento affascinante che ci coinvolge tutti i momenti, tutti i giorni, tutta la vita. L’uomo non può esimersi dall’esprimere opinioni su tutto ciò di cui viene a conoscenza, su tutto ciò che lo riguarda direttamente o che semplicemente lo sfiora, ma non conosce i mille limiti dell’opinione.

Opinare è quasi un’esigenza fisiologica al pari del respirare o del parlare: e, forse, è proprio questo innato, naturale meccanismo mentale, ad affievolire l’interesse per lo studio e l’approfondimento del fenomeno.

Giungiamo fino al paradosso che non esistono insegnamenti di “scienze dell’opinione” nelle scuole che preparano i tecnici dell’informazione, i giornalisti cioè, per i quali, invece, l’opinione rappresenta la materia prima, componente di base insostituibile di tutto il loro lavoro.

Questa non conoscenza, questa sciatta trascuratezza didattico-formativa consente ancora oggi a direttori di importanti quotidiani nazionali di affermare: “il nostro giornale, come sempre ha fatto, terrà separati i fatti dalle opinioni”. E, arrivando alla stazione di Roma Termini, non può non colpirci la pubblicità di un giornale della capitale che recita, ancora una volta, “I fatti e le opinioni”.

L’uomo non può esimersi dall’esprimere opinioni su tutto ciò di cui viene a conoscenza, su tutto ciò che lo riguarda direttamente o che semplicemente lo sfiora, ma non conosce i mille limiti dell’opinione

Ed ecco perché, con grande modestia e con piena consapevolezza dei limiti del nostro contributo, ci siamo lasciati convincere a mettere nero su bianco quello che andiamo raccontando, ahimé da molti anni, nei nostri Corsi nei contesti più diversi. Il libro è semplicemente una raccolta dei contenuti di tante mie lezioni: non c’è nulla di inedito e non ha pretese di originalità.

La bibliografia è modesta per il semplice fatto che tutto quello che ho detto nelle lezioni l’ho appreso da altri ma, spesso, non ricordo né mi interessa la fonte. Se ho dato la mia adesione alle opinioni da altri proposte, significa che le stesse mi hanno interessato, che le ho valutate e condivise e, quindi, fatte mie!

Per i giornalisti l’opinione rappresenta la materia prima, componente di base insostituibile di tutto il loro lavoro

Ho avuto sempre pudore a scrivere qualcosa per non voler essere identificato come uno dei tanti replicanti: tutto ciò che c’era da dire è stato già detto in maniera migliore, in altre epoche, dai grandi del passato. Ho capito che tutti i miei pensieri, le mie idee, non erano mie.

Ho capito che tutti i miei pensieri, le mie idee, non erano mie

E allora, ho accettato gli incoraggiamenti che mi venivano da più parti: ora, voglio scrivere per restituire tutto ciò che mi era stato dato in prestito. Nel transito della vita mi è stata concessa la “servitù di passaggio”, ma la proprietà rimane ad altri.

Le Elezioni Politiche 2006 e Il Linguaggio Del Corpo

una modalità comunicativa sommersa che emerge oltre la parola

di EUFRASIA D’AMATO

Tra chi rosica per la mancata vittoria e chi festeggia per il risicato trionfo, quante parole si sono sprecate. Parole, parole, parole….e i gesti? O meglio, tutti i movimenti che il nostro corpo compie volontariamente o inconsapevolmente, che vanno sotto il nome di Comunicazione Non Verbale (CNV), dove li mettiamo? Di sicuro i nostri politici, che hanno ‘movimentato’ quest’ultima campagna elettorale hanno messo i loro gesti al posto sbagliato!

Come allievi della Scuola e studiosi di comunicazione ci interroghiamo su quanti voti ha portato, per esempio, una mano conigliosaldamente ancorata al tavolo, sinonimo di sicurezza ed asserzione, e quanti voti, al contrario, non hanno portato le braccia conserte e serrate in petto o il capo inclinato, corrispettivi di chiusura e disagio! Al di là dell’incantesimo della parola, quello che percepiamo ed osserviamo nel nostro interlocutore è rappresentato dai movimenti, dalla fisionomia, dal cambiamento di espressione. Siamo, dunque, prima visti che sentiti.

Al di là dell’incantesimo della parola, quello che percepiamo ed osserviamo nel nostro interlocutore è rappresentato dai movimenti, dalla fisionomia, dal cambiamento di espressione

Il linguaggio dei gesti è un modo naturale di ‘parlare’, perché il linguaggio stesso nasce dal gesto, da ogni nostro comportamento, anche apparentemente non-comportamento, che è uno straordinario veicolo di comunicazione. Il nostro corpo, pertanto, è uno strumento di comunicazione: ci dice come siamo e come sono gli altri. Alcuni tra i più banali gesti come per esempio grattarsi il naso, tenere il capo inclinato leggermente, cambiare continuamente posizione del corpo, tenere le braccia incrociate verso il petto ecc., possono essere apparentemente determinati da sensazioni di fastidio, prurito ma, molto spesso, lo stimolo, che è alla base di queste reazioni del corpo, non è solo di carattere fisiologico.

Lo stimolo può trovarsi, infatti, in un’azione o in una parola del nostro interlocutore, nella sua stessa presenza o nel fatto di vedere o sentire una cosa inattesa, che possono provocare in noi sensazioni inconsce di disagio. Ma anche la scarsa fiducia in noi stessi, il fatto di non credere per primi a quello che diciamo, sottende ad atteggiamenti e posture che indicano chiusura, scarsa autostima, imbarazzo e disagio.

La scarsa fiducia in noi stessi sottende ad atteggiamenti e posture che indicano chiusura, scarsa autostima, imbarazzo e disagio

Conoscere e sapere interpretare il linguaggio del corpo è molto utile a tutti (soprattutto ai politici!) poiché consente di migliorare il nostro rapporto con gli altri e, nel contempo, di accrescere la conoscenza di noi stessi. Bocca, naso, occhi, piedi, gambe, braccia….è divertente sezionare il nostro corpo in nome della scienza, o meglio, della comunicazione.

Dimmi come ti muovi e ti dirò chi sei; giocherellare con le mani, nasconderle in tasca, dietro la schiena, passarsi la mano sul collo: sono un modo per mascherare una situazione di disagio, di insicurezza e di nervosismo. Braccia aperte, inclinazione del corpo in avanti e busto eretto manifestano, al contrario, apertura ed interesse nei confronti del recettore. Così come ridere in modo stridulo, sedersi ed ancorare i piedi alla sedia, giocherellare con capelli, barba, collane e cravatte, all’occhio attento del nostro interlocutore, non ci consentono di essere credibili e padroni di noi stessi.

Il linguaggio del corpo è molto utile a tutti poiché consente di migliorare il nostro rapporto con gli altri e, nel contempo, di accrescere la conoscenza di noi stessi

question_markTutti questi gesti li compiamo in modo inconsapevole proprio perché, il vero linguaggio che ci caratterizza e ci fa entrare in relazione con il mondo, è quello non verbale per il semplice fatto che i gesti non cadono sotto la censura della mente e rilevano il nostro vero stato d’animo. Osservare per credere! Non dobbiamo, allora, pensare che mente e corpo siano entità disgiunte. Noi osserviamo e veniamo osservati; questa è una maniera eccellente di capire, di percepire, di comunicare.

Il grande regista ed attore italiano, Vittorio De Sica, lo aveva capito; gli occhi sono lo specchio dell’anima e lo sguardo è una delle componenti fondamentali e prioritaria della comunicazione non verbale, ricordate: “…quella fissità dello sguardo tipica dell’ottuso”. Molti, troppi sguardi fissi abbiamo notato nella recente bagarre televisiva pre-elettorale.

Il vero linguaggio che ci caratterizza e ci fa entrare in relazione con il mondo, è quello non verbale per il semplice fatto che i gesti non cadono sotto la censura della mente e rilevano il nostro vero stato d’animo

Troppe palpebre ammainate, teste reclinate e braccia rigidamente conserte, per non parlare di registri vocali ed espressività di infimo livello. Tutti segnali di evidente insicurezza dovuta all’incoerenza tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe che gli altri pensassero di noi. E allora la paura che gli elettori potessero scoprire il bluff, ancora una volta…ha fatto 90!

I tecnici della informazione e il problema della loro formazione professionale

di FRANCESCO FATTORELLO

1. Tutti conoscono quella teoria secondo la quale l’informazione è una quantità. L’informazione come quantità diminuisce l’incertezza. Una informazione riduce della metà la quantità delle incertezze. Due informazioni riducono di tre quarti la possibilità di scelta. E così via. Ma non pare sufficiente dire che quanto maggiore è la quantità delle informazioni tanto minore è quella delle incertezze.

E’ anche vero che quanto maggiore è il numero delle informazioni tanto maggiore è il numero delle possibilità di scelta fra le medesime: i ragguagli diversi su un film mi fanno meditare sulla decisione di andarlo a vedere o meno; i ragguagli diversi su un libro mi mettono in dubbio sulla opportunità o meno di comperarlo. L’informazione è soggettiva e quanto maggiore è il numero degli informatori e delle informazioni tanto maggiore sarà il numero di interpretazioni.

Dunque la scelta da parte di colui che viene informato è tanto più difficile quanto maggiore è il numero delle informazioni; quanto maggiore è il numero delle informazioni tanto più difficile da parte sua dare adesione ad una piuttosto che ad un’altra delle formule di opinione che vengono offerte su qualche cosa. Per questo l’informatore si preoccupa che il suo ragguaglio, la sua informazione prevalga su ogni altra.

Ciò discende dalla natura dei processi di informazione. L’informazione è un fenomeno di opinione: è sempre un fenomeno di opinione e il giornale uno dei suoi strumenti. Ma l’informazione è anche un fenomeno di tale ampiezza che investe tutta la vita

Francesco Fattorello

Francesco Fattorello

dinamica della società. I rapporti di informazione sono quelli per cui tutti noi che ci troviamo nella condizione sociale di soggetti in stato di comunicazione, diventiamo soggetti promotori di informazioni.

2. Tutti noi, tramite queste attività, intessiamo la rete dei rapporti sociali; rapporti della nostra vita pubblica e privata, delle nostre attività contingenti e di quelle che durano assai di più della vita di un giornale o di un uomo. Nei tempi nei quali viviamo si parla spesso di “diritto alla informazione”. Ma il problema è molto più vasto perché l’informazione, al di là di un diritto che si vuole proclamare, si identifica nella nostra stessa vita sociale. L’ordine dei nostri studi e interessi si sofferma però dinanzi ad una sola delle grandi categorie dei fenomeni di informazione perché noi lasciamo da parte tutto ciò che non attiene alla informazione contingente e collettiva.

Ciò è certamente utile per delimitare l’ambito delle nostre indagini e delle nostre ricerche. Ma sarebbe colpevole dimenticare che, al di là dell’informatore del contingente, vi è l’informatore che non assume come oggetto l’attualità, le opinioni contingenti sui fatti che passano, ma i valori, le opinioni cristallizzate della vita in società. La grande importanza del fenomeno sociale dell’informazione non si può valutare appieno se non si ha la capacità di vedere questo fenomeno in tutta la sua ampiezza.

Ciò significa che i giornalisti sono soltanto una delle categorie degli informatori dell’attualità. Tuttavia una categoria molto importante perché essi, più degli altri, consapevoli o no, polarizzano intorno alle loro opinioni sugli avvenimenti di attualità le opinioni dei loro lettori.

3. Arduo problema quello della formazione professionale dei giornalisti. Sebbene relativamente recente è problema ormai aperto in tutto il mondo. E oggi si stenta a capire come ci siano stati e ci sono tuttora giornalisti che nulla vedono al di là delle attitudini innate con le quali il giornalista eserciterebbe la professione. Comunque il problema della formazione professionale dei giornalisti è problema didattico e in un secondo momento “apprentissage” di pratica professionale.

E’ problema di esperti nella didattica al quale impropriamente può opporsi solo l’esperienza tratta dall’esercizio professionale. Il problema non si risolve ponendo sulla cattedra i giornalisti come non si risolverebbe il problema della formazione dei pubblicitari ponendo sulla cattedra i professori di pubblicità. Come ho avuto modo di dire altre volte, la scuola non può sostituire la pratica professionale; ma neppure l’esercizio professionale si può sostituire alla scuola.

La scuola, convenientemente programmata, assolve compiti diversi dall’esercizio professionale: è propedeutica all’esercizio professionale. Errato dunque confondere didattica con esercizio professionale. Il fatto, come ho detto dianzi, che il giornalismo ha rapporto col fenomeno sociale della informazione, nel senso che il giornale è uno degli strumenti dei processi di informazione, pone già la complessità della programmazione di una scuola di giornalismo che prima delle tecniche strumentali ha da riconoscersi nel fenomeno generato dai processi di informazione.

4. Vi è un paese in Europa dove l’insegnamento del giornalismo ha subito un lungo travaglio manifestatosi attraverso una successiva serie di esperienze che, a mio avviso, sono molto significative. Voglio dire la Polonia.

La scelta da parte di colui che viene informato è tanto più difficile quanto maggiore è il numero delle informazioni; quanto maggiore è il numero delle informazioni tanto più difficile da parte sua dare adesione ad una piuttosto che ad un’altra delle formule di opinione che vengono offerte su qualche cosa

Mi scuso con il prof. Tadeus Kupiz se mi avvalgo dei suoi ragguagli pubblicati sul “Journaliste Democratique” (Praga, dicembre 1967) per riferire su questo argomento. Sebbene l’inizio di un insegnamento del giornalismo risalga in quel paese al 1930, la prima importante istituzione didattica si ebbe nel 1946, dopo la seconda guerra mondiale, con una Facoltà di giornalismo presso l’Accademia delle Scienze di Varsavia.

Nel 1950 fu istituita presso la Facoltà di Scienze Umane della Università di quella città una Sezione di giornalismo. Questa sezione passò nel 1952 alla Facoltà di Scienze Sociali e Filosofiche e nel 1955 diventò Facoltà autonoma con un programma quadriennale allungato a cinque anni nel 1956. Così, per la prima volta in Polonia, una Facoltà di Giornalismo poteva conferire un diploma di studi superiori in questa materia. Ma ecco nel 1960, la Facoltà si trasforma in corso biennale, corso post universitario, al quale possono accedere coloro che hanno conseguito il titolo accademico conferito da una Facoltà universitaria.

Nel giro di venti anni sei successive trasformazioni dovute specialmente alle inquietudini degli ambienti giornalistici. Comunque tutte queste trasformazioni avevano portato alla conclusione che: 1) il sistema migliore era quello di abbordare gli studi di giornalismo dopo una conveniente maturazione compiuta attraverso un ordine di studi universitari; 2) che gli studi di giornalismo possono dare solo una preparazione propedeutica generale sulla materia;

3) che nel giro di due anni si poteva impartire una istruzione sufficiente nella materie specifiche utili alle esigenze della professione; 4) che questa generalità degli studi era anche giustificata dalla impossibilità di creare una scuola che, ad un tempo, potesse preparare e i tecnici del giornale e quelli della radio e quelli della televisione e quelli del cinema; 5) che d’altra parte pareva inopportuno creare tante scuole separate per il giornale, per la radio, per la televisione ecc.

Ma era soprattutto emerso che, sebbene il progresso delle tecniche strumentali moderne ponga esigenze diverse nella elaborazione, l’articolazione dei processi di informazione è sempre la medesima fra materia su cui informare, informatore, strumento, contenuto e recettore. Poi era emerso che, tramite le diverse strumentazioni dei processi di informazione si persegue lo stesso comune obiettivo: formazione delle opinioni del pubblico.

5. Due argomenti di grande importanza: un particolare processo che, per mezzo di una tecnica sociale, porta alla più conveniente elaborazione dei contenuti; un fine comune che muove le diverse strumentazioni dell’ informazione. Ora i comuni problemi di base non sono lo studio delle tecniche strumentali né lo studio di quante altre materie complementari al giornalismo si possono mettere insieme, ma gli insegnamenti relativi ai processi di informazione e ai fenomeni di opinione che si generano allorché l’informatore mette in moto il rapporto con i suoi recettori.

L’esigenza di siffatti insegnamenti di base per un programma più sistematico delle scuole di giornalismo, la necessità di una teoria di base cui orientare il piano didattico di una scuola, abbiamo sentito richiedere anche al congresso internazionale di Praga, nel novembre 1967, dal direttore della scuola di giornalismo di Santiago del Cile quando rilevava la necessità di rinnovare in tal modo i modelli dell’America Latina.

Anche a mio modesto avviso una scuola che si rispetti deve poggiare le fondamenta della sua didattica su una tale sistematica offerta dalla sociologia dell’ informazione.

6. D’altra parte una esigenza di tal fatta si impone alle nostre scuole anche perché esse non dovranno formare soltanto i futuri giornalisti ma i tecnici della informazione qualunque sia l’ordine delle loro applicazioni: sia esso un articolo di giornale o un manifesto o un bollettino di guerra.

Non bisogna pensare che il problema sia circoscritto al giornale o al giornalismo. Quando il portavoce della Casa Bianca diceva che il Presidente Kennedy aveva interrotto il suo viaggio elettorale perché “grippè” mentre invece era corso Washington per gli incombenti fatti di Cuba, agiva nella pratica della politica delle informazioni. Le nostre scuole debbono guardare oltre il giornale che è un piccolo o, se volete, un grande strumento; ma solo uno strumento di fronte alla grandezza, imponente varietà di cui, al di là degli strumenti moderni di diffusione collettiva, si giova l’informazione.

Le nostre sono scuole dell’avvenire. Se noi ben guardiamo aventi, agli orizzonti sconfinati della informazione, esse hanno l’avvenire dinnanzi e non possono fermarsi al giornalismo.

7. Certo in molti paesi le nostre scuole incontrano forti opposizioni. Le opposizioni sono di due ordini: quelle che provengono dall’alta cultura universitaria e quelle che provengono dal mondo professionale. Le prime si hanno nei paesi di più tradizione umanistica e discendono anche dal fatto che non si sa bene quali sono i problemi di cui ci occupiamo.

Se io volessi raccontare la storia della Scuola che io dirigo in Italia e attraverso quali lotte e opposizioni essa potè sorgere or sono ventun anni, in seno alla Università di Roma, il racconto sarebbe molto istruttivo. Né potrei proprio dire che dopo tanti anni di attività ininterrotta e tante positive esperienze, quelle opposizioni siano state infrante. Sia la tradizione umanistica, sia la tenace resistenza delle vecchie forme cui si ispira in certi paesi l’alta cultura accademica sono ancora barriere difficilmente superabili. L’altro ordine di opposizioni discende dai professionisti legati ancora al vecchio adagio: giornalisti si nasce.

Anche qui, sebbene le opposizioni siano di molto attenuate, per motivi del tutto diversi da quelle degli oppositori di cui abbiamo detto ora, da molti non si concepisce che il giornalismo possa essere anche materia di insegnamento, al di là di quello che in modo del tutto artigianale, si può dare al giornalista. Non si capisce che al futuro tecnico dell’informazione bisogna anzitutto dare una appropriata e logica giustificazione della messa in opera della sua attività: per esempio del come e perché il giornalismo abbia funzione strumentale nei confronti della informazione e perché il giornalismo non si identifica con l’informazione.

Ora va detto ai professionisti che le nostre scuole accreditano la dignità della professione e all’opposizione accademica va detto che l’ordine dei problemi di cui ci interessiamo spalanca le finestre su orizzonti che interessano tutta la nostra vita sociale. E’ molto ingenuo, se non colpevole, per noi docenti, lasciar credere che informazione vuol dire “far conoscere”; più colpevole ancora lasciar credere che informazione possa significare “far conoscere obiettivamente”.

Bisogna rendere edotto il futuro giornalista affidato ai nostri insegnamenti degli effetti cui può portare, al di là delle sue intenzioni, l’esercizio dell’informazione. Per questo affermammo prima che le nostre scuole non sono soltanto scuole per giornalisti e che il problema di cui ci interessiamo, e che pare limitato a questioni che concernono solo una professione, sta invece al centro di fenomeni ben più vasti e più drammatici che ci avvolgono ogni giorno con la forza coercitiva dell’informazione.

8. Mentre gli studi storici e giuridici sull’informazione hanno lunga tradizione, e quelli tecnici e sociologici sono di recente sviluppo: quelli sulla formazione professionale sono di data ancor più vicina a noi. Via via che l’informazione è stata intesa come fenomeno sociale e come attività della nostra vita sociale si è fatta strada anche l’esigenza di penetrare nei metodi della formazione professionale.

E si badi bene: non si tratta di sapere quali sono i criteri seguiti nei paesi dell’Est e dell’Ovest europeo, quanto di ricercar i metodi che più si convengono nella formazione di coloro che debbono esercitare una importante attività nella vita sociale del nostro tempo. Scriveva Vladimiro de Lipski che la scuola “assure aux individus la formation générale qui est préalable nécessaire de la formation professionnelle: elle leur fait acquéir les mécanismes de base de la vie sociale; elle leur fait prendre conscience de leur aptitudes et des possibilités que leur offre le milieu; elle contribue à la sélection et à la formation des élites locales et nationales; enfin elle assure sa propre expansion en récupérant en qualitè d’einseignants certains de ses meilleurrs élèves”. Sembrano parole scritte per noi che stiamo esaminando problemi tanto delicati delle nostre scuole.

Per la verità le nostre scuole sono di recente istituzione e si può capire che esigenze pratiche e urgenti si sono imposte alla loro strutturazione. Ma ora è tempo di esaminare i problemi con maggiore ponderazione. E certo, fra i tanti, quello dei docenti e della loro formazione. Una delle ragioni per cui l’alta cultura accademica si oppone alle nostre scuole, specie in alcuni paesi, discende certamente dal fatto che in esse vi è un po’ il superamento della divisione classista fra lavoro intellettuale e lavoro pratico, fra teoria e pratica.

Alla opposizione precostituita di coloro che non ritengono l’informazione oggetto di didattica vanno aggiunti coloro che non vedono l’opportunità di questo connubio. Invece il superamento di questo problema in una integrazione dei relativi insegnamenti è uno dei fatti da rilevare proprio a proposito della formazione dei nostri insegnanti.

E’ chiaro che noi non abbiamo bisogno del professore di sociologia ma del professore di sociologia dell’informazione; è chiaro che noi abbiamo bisogno del professore di tecnica delle arti grafiche, ma di quello che è esperto nelle “formule de presentation de la presse quotidienne”.

Bisogna dunque anche ricercare i metodi che più si convengono nella formazione di coloro che debbono non solo “expliquer”, come si potrebbe pensare, ma rendere consapevoli gli interessi delle responsabilità sociali che assumono nell’esercizio della loro funzione

Fabio Lanzellotto Self-Made Man e Fattorelliano DOC

Scopriamo uno dei fattorelliani eccellenti che, dopo aver seguito il Corso di metodologia dell’informazione e  tecniche  della comunicazione, ha investito in un progetto originale ed innovativo.

di ELEONORA PICCI

A partire da questo secondo numero del bollettino dell’Istituto Francesco Fattorello andremo alla scoperta dei tanti allievi che sono passati sui banchi della scuola, non solo per occupare le copertine del giornale, ma per capire come l’esperienza fattorelliana influisca sulla vita privata e professionale di chi frequenta il corso.

Non ho mai smesso di dire la verità, ma ho imparato a comunicare come desidera e si aspetta chi mi ascolta

Il primo protagonista di queste pagine è Fabio Lanzellotto, 45 anni, imprenditore, proprietario di Italpan, editore di un quotidiano on line ed uomo di successo. Sorridente, soddisfatto della posizione che ha raggiunto dopo anni di duro lavoro, ma ancora desideroso di scoprire ed imparare nuove cose.

Questa l’impressione che emerge guardando gli occhi scuri e curiosi di quest’ uomo, che dopo anni di esperienza imprenditoriale ha deciso, ancora una volta, di rimettersi in discussione, frequentando il corso istituzionale del nostro Istituto.

Fabio Lanzellotto ha colto l’importanza della relazione comunicativa e messo a frutto gli stimoli, creando e diventando editore di “Italiani nel mondo”, quotidiano on line che tutte le mattine permette a 50.000 italiani che vivono all’estero di “sentirsi a casa”, semplicemente leggendo la propria posta elettronica.

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Fabio Lanzellotto, editore di “Italiani nel Modo” nel suo ufficio romano

Fabio Lanzellotto, lei avrà l’onore della prima copertina dedicata ad un ex-fattorelliano doc. Questo perché ha seguito il corso comprendendone a fondo lo spirito che lo anima. Che cosa, secondo lei, lascia dentro il “viaggio nel mondo della comunicazione”, vista attraverso gli occhi di Francesco Fattorello?

Bella domanda…il corso lascia dentro quello che ciascuno vuole cogliere…

Lei che cosa si aspettava?

Un corso tecnico, che mi avrebbe fornito modalità e regole di comunicazione, attraverso esercizi pratici. Invece ho compreso che soltanto attraverso la mia percezione e sensibilità avrei acquisito qualcosa. E’ stata una verifica di principi e valori in cui già credevo.

Che cosa è cambiato dopo il corso di metodologia dell’informazione e tecniche della comunicazione?

Ho rafforzato la convinzione di dover continuare sulla strada che avevo già intrapreso, perché è risultata vincente: credo che il mezzo attraverso cui si comunica debba avere dignità e coerenza con quanto si dica. Non ho mai smesso di dire la verità, ma ho imparato a comunicare come desidera e si aspetta chi mi ascolta.

Perché fare il corso e perché no?

Il corso ti offre delle nuove opportunità. Non mi era mai capitato di parlare in pubblico di me stesso, senza maschera, senza nulla da nascondere ma, nel momento in cui davanti ad un gruppo di persone che non conoscevo ho dovuto presentarmi, ho capito che quella sarebbe stata un’esperienza importante.

Mi sono chiesto addirittura se fossi ancora me stesso o se l’immagine che raccontavo fosse ormai costruita a tal punto da non riconoscermi più. Più che una banale presentazione è stata una introspezione a voce alta. Consiglierei a tutti di farlo, anzi, se potessi, ripeterei l’esperienza.

Dunque, il Fattorello ti “mette a nudo” ed in contatto con te stesso…

Sì, se hai il coraggio di guardarti dentro… Questo aspetto è quello più profondo e più difficile che, a volte, ha creato anche problemi ad alcuni studenti…. Lo credo bene. Descriversi, differentemente da quello che si vuole apparire, non è facile.

Corso di comunicazione o corso di introspezione?

Entrambe le cose.

Perché secondo lei?

Perché comunicare con se stessi ed avere chiare le proprie idee è indispensabile per relazionarsi con gli altri.

A posteriori, cosa consiglia a coloro che stanno seguendo o seguiranno il corso? Di comprendersi e mettersi in discussione, cercando di analizzare le aspettative personali prima ancora delle lezioni, e poi di stare attenti, perché il corso non è un gioco ma la giusta chiave per aprire le porte alla realtà che ci circonda.

Piccolo Manuale di Comportamento

…per sopravvivere ad una giornata in ufficio

di FLAVIA SALVINI

Comunicare è alla base di ogni tipo di relazione: si comunica con uno sguardo con un gesto, la parola può essere un contorno, ma bisogna fare attenzione, una comunicazione sbagliata può generare incomprensioni, malumori e può rovinare la giornata di una persona. Nell’ambito del lavoro può diventare causa di frustrazioni perché in ogni ruolo e ad ogni livello, la comunicazione è fondamentale.

Anche chi passa la giornata davanti ad un PC, pensando di essere isolato in una stanza dell’ufficio, può generare informazioniCOM_0006 attraverso un semplice data entry o prendere informazioni che altri hanno messo a disposizione sul proprio computer.

Basterebbe adottare poche regole comportamentali per vivere l’ambiente di lavoro molto meglio, ascoltando di più i propri interlocutori ed evitando di interrompere la comunicazione con chi ti circonda. In pochi punti evidenziamo i comportamenti da evitare e quelli più corretti per “sopportare” meglio la giornata lavorativa:

– Non riferire al capo di essere in possesso di informazioni – Tale comportamento può generare delle distorsioni: il vertice potrebbe non prendere delle decisioni in tempo reale pensando erroneamente di non poter acquisire l’informazione per inefficienza del sistema. Questo può accadere perché non ci si sforza a “mettersi in comunicazione” o, peggio, perché si è gelosi delle informazioni in possesso. Quando ciò si verifica, non c’è volontà di uno dei due soggetti a comunicare, lo sforzo dell’altro trova solo un muro di gomma insormontabile. Non bisogna dimenticarci che per comunicare bisogna essere almeno in due.

– Non isolare il proprio staff – Accentrare, non delegare, creare distanza tra vertice e operativi: tutti comportamenti deleteri per chi deve coordinare un team.

– Non applicare il detto “la mano destra non deve sapere cosa fa la mano sinistra” – Quando le persone facenti parte dello stesso staff non sanno nulla del lavoro degli altri si genera una disgregazione e un conseguente isolamento del gruppo, oltre al fatto che se una persona va in ferie il lavoro si interrompe.

Far sentire i propri collaboratori coinvolti in tutto, anche nelle piccole cose, significa far sentire le persone vive, oltre a una forma implicita di grande rispetto per la persona/lavoratore perché non siamo delle macchine ma soggetti pensanti. Se al contrario, il proprio capo o un collega interviene in modo operativo su un lavoro di tua competenza, su cui stai operando, si può fare la figura di contattare fornitori, consulenti esterni o altri uffici per lo stesso motivo più volte, dando all’esterno una immagine negativa e di inefficienza.

– Infondere lo spirito di lavoro di squadra – Nessuno è indispensabile ma tutti sono necessari per raggiungere gli obiettivi più importanti. Se il responsabile dell’ufficio crea la concezione che è importante il lavoro di tutti e che se manca un pezzo del puzzle tutto l’ufficio ne risente in modo negativo, si crea un clima di reciproca collaborazione. In caso contrario si generano tensioni causate dal voler primeggiare l’uno sull’altro per emergere dal gruppo.

– Non dare mai per scontato chi lavora con te – Motivare sempre i propri collaboratori. A volte premiare con un grazie ed esternare i meriti è più importante e più efficace che autorizzare il pagamento di uno straordinario.

– Mai incaricare una persona di fare qualcosa senza motivarne le ragioni – Anche un semplice inserimento di dati all’interno di un arido programma è fondamentale a chi utilizza quei dati per lavorare, ovvero per elaborarli e portarli sulle scrivanie dei vertici che devono prendere le decisioni che coinvolgono tutta l’azienda.

– Mai evidenziare la propria autorità e il proprio ruolo – Il famoso “lei non sa chi sono io” allontana solo, non porta a niente, e a volte non genera neanche il timore chi si vorrebbe incutere a chi reputi non ti rispetti o non esegua i tuoi ordini. E’ sempre con le azioni che si guadagna la fiducia del prossimo e si conquistano i tuoi dipendenti o sottoposti. Creare una buona comunicazione interna non è facile, ma è una esigenza importante nel mondo del lavoro.

Anche se caratterialmente non si è predisposti bisogna “violentarsi” un po’ e alla fine comportamenti inizialmente imposti diventeranno naturali. I flussi informativi miglioreranno generando più efficienza nel sistema e nell’organizzazione, l’ambiente lavorativo diventerà più sereno e l’azienda alla fine ne acquisterà anche di immagine all’esterno.

Francesco Fattorello inventore del “Marketing Oriented”

La tecnica sociale è la base teorica dei processi di produzione orientati al mercato

di ALESSANDRA ROMANO

In una Società dove prevalgono le Leggi di libero Mercato, l’imprenditore prima di produrre deve necessariamente chiedere al proprio “Cliente” come vuole che venga costruito e personalizzato il suo “Prodotto”. Oggi ci sembra una affermazione scontata, quasi banale. Sarebbe impensabile per un imprenditore svegliarsi la mattina e iniziare una qualsiasi attività imprenditoriale senza aver prima individuato: il settore merceologico che offre ancora opportunità, a chi vendere, cosa produrre, e soprattutto, quanto produrre e a che prezzo.

Invece, neanche troppo tempo fa, in Italia la produzione, anche delle grandi industrie come FIAT, seguiva ancora tutt’altra logica: produco quello che so produrre e che ho sempre prodotto ,miglioro la produttività della mia azienda, perchè più produco, più vendo, più guadagno. La saturazione della domanda dei mercati occidentali e lo choc petrolifero di metà anni ’70 indussero le industrie di tutto il mondo a cambiare strategia.

Bisognava applicare logiche di produzione che mettessero il mercato e quindi il cliente finale al centro del processo di produzione. Assistiamo ad un incredibile capovolgimento di logica aziendale: dalla produzione orientata al prodotto alla produzione Marketing Oriented. Gli uffici Studi & Ricerche (R&S) delle aziende si posizionano sotto la direzione marketing e là elaborano prodotti rispondenti ai reali fabbisogni e gusti del consumatore.

Le odierne tecniche di Marketing Strategico sono improntate allo studio del mercato e alla ricerca dei fabbisogni del consumatore. L’ultima frontiera del marketing è la Customer Cure volta al miglioramento continuo della Customer Satisfaction, perché un cliente soddisfatto è un cliente fidelizzato. La Produzione Orientata al Mercato rappresenta un passaggio importante nelle democrazie occidentali, perché induce l’imprenditore a dare dignità al suo potenziale cliente chiedendogli cosa vuole comprare e cosa può comprare.

Il consumatore non è più un “target”, bersaglio passivo ma è un Cliente con bisogni, gusti e stili di vita. L’applicazione della

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filosofia Marketing Oriented alle aziende porta inevitabilmente ad un Processo Democratico di Produzione. Di fatto è il cliente finale che decide la produzione industriale per quantità e soprattutto qualità. Proviamo ora a pensare al Cliente finale come ad un Soggetto Recettore (SR) di un prodotto X) qualunque, proposto da una azienda (SP), che dopo una fase di studi e ricerche assume la forma di “P” un prodotto pensato proprio su misura per SR?

Sembra proprio lo schema logico della Tecnica Sociale applicato però ai processi industriali di produzione anziché al processo di comunicazione. La formula di opinione “O” è costruita in base ai valori sociali del Soggetto Recettore; parimenti il prodotto “P”, orientato al mercato, risponde ai fabbisogni e agli stili di vita del Cliente. Le antesignane e geniali intuizioni di Francesco Fatterello hanno di fatto indicato la strada: anche per le tecniche di marketing, che ricalcano la medesima logica della Tecnica Sociale dell’informazione.

In questo preciso istante la Tecnica Sociale è applicata nella comunicazione così come nel marketing, in tutte le imprese del mondo che operano in una logica di libero mercato. Ovviamente nulla è meno ovvio dell’ovvio – nelle imprese di produzione di servizi marketing oriented vanno comprese anche tutte le iniziative editoriali. La comunicazione per un editore di un Media deve essere considerata un “prodotto” da vendere al pubblico.

Anche i giornali e le televisioni possono essere considerate aziende Marketing Oriented, purché operino autonomamente sul libero mercato, ovvero non usufruiscano di pubbliche prebende – leggi canoni televisivi e sovvenzioni statali alla carta stampa quotidiana. In caso contrario il processo di produzione della “O” potrebbe rilevarsi non necessariamente tagliato su “misura” per SR.

Potrebbe essere un processo Product Oriented del tipo: “scrivo perché sono una buona penna e perchè ho la verità in tasca e quindi il lettore deve pensarla come me” tanto SR comprerà comunque il mio giornale e guarderà il mio TG e, anche se così non fosse, i finanziamenti pubblici mi permetteranno di resistere sul mercato. In questa impostazione si presume che SR sia un soggetto passivo senza scampo e che il ruolo dell’informazione sia quella di condizionare il proprio pubblico.

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Per assurdo, continuando a ragionare così potremmo arrivare a spiegare un paradosso tutto Italiano: Mediaset, organizzazione privata decisamente orientata al mercato, attiva un processo di produzione di un prodotto di comunicazione orientato ai gusti del pubblico e quindi più “democratico” della pubblica Rai che produce per il suo SP politico. Aggiungo un’ulteriore importante riflessione “fattorelliana” – se è vero che il cliente compra solo se il prodotto è stato progettato su “misura” per lui, allora è il marketing che fa vendere il prodotto, non è la pubblicità.

 

La pubblicità informa solo che ” il prodotto che tu volevi ora esiste ed è sul mercato ad un prezzo a te accessibile”. Infatti, nelle aziende, per comunicare correttamente un prodotto, il bravo tecnico dell’informazione acquisisce i dati di SP e di SR dagli uffici di marketing per costruire correttamente la “O”.

E allora è più importante il Marketing o la Comunicazione! Ma questa è un’altra storia che dimostreremo la prossima volta….

Un modo Di-Verso

di SARA ANGELUCCI

E’ ancora forte l’eco dei dibattiti della trascorsa campagna politica: caratterizzata dal tono esasperato degli scambi, dai confronti serrati, dall’aspra contestazione di quella parte imprenditoriale che, naturalmente, sembra più vicina alla passata coalizione governativa. Parole, tante parole, che ogni argomento sembra non aver più il senso costruttivo, o meglio ricostruttivo, di unaCOM_0005 coscienza politica che come fine ha il bene comune e non l’interesse personale.

Così, la critica di parte del gruppo dirigente della Confindustria all’ex Capo del Governo, ha destato stupore. Una parte della nostra imprenditoria, si è accorta che la competitività, passa attraverso la costruzione di relazioni che riconoscono l’altro, relazioni articolate nell’intento di raggiungere un obiettivo comune.

Sono imprenditori che vogliono difendere il prestigio del loro prodotto, che non temono la concorrenza a basso costo, certi che la differenza è nel prestigio del “made in Italy”. Per tutelare e far crescere tutto ciò, chiedono politiche economiche che incentivino la ricerca scientifica e la formazione professionale perché sono certi della necessità di recuperare qualità e professionalità.

Se analizziamo il discorso, tra un superiore ed un dipendente, nel caso in cui i risultati di un incarico non siano quelli attesi, capita spesso di rilevare come il tono sia aggressivo e le frasi pronunciate non abbiano nulla a che fare con l’oggetto del lavoro, SEN_0011ma diventino offese e vessazioni nei confronti del sottoposto.

Stili di comunicazione di questo tipo, ripetuti e continuati nel tempo non sono da stimolo per chi, pur volendosi sentire parte del gruppo, ne è, invece, progressivamente escluso, maturando senso di ostilità nei confronti dell’azienda. Le parole sono piccoli semi che germogliano e crescono nella nostra mente, guidano le nostre azioni e costruiscono la nostra realtà.

Non esistono parole buone o parole cattive, ma esistono espressioni migliori di altre, esistono modi diversi di comunicare, di gestire i conflitti e le situazioni di crisi, dalle quali possono derivare effetti positivi, nuove idee e nuove prospettive.

 

Seminario Intensivo di Studi 2006

Dal 9 all’11 giugno si è tenuto quest’anno il consueto week-end outdoor nella amena tenuta di Poggiovalle (Città della Pieve). E’ ormai una tradizione per gli studenti dell’Istituto “Francesco Fattorello” approfondire gli argomenti affrontati durante l’anno in insolite lezioni, immersi nel verde, sotto l’esperta guida del professor Ragnetti.

Nella sessione intensiva di Poggiovalle si sono privilegiati gli aspetti pratici della comunicazione che hanno coinvolto tutti i partecipanti attraverso simulazioni e giochi di ruolo. Tra questi, particolarmente apprezzato, la originale ed innovativa visione de “la cucina come sala stampa!”

 

Sensazioni “Versate”

In questo spazio, le parole cadono in successioni, ombre metamorfiche di silenzioso passato.

Sono oltre il dolore che tace.

Non c’è orizzonte né solco in cui porre il seme.

Cade una pioggia bluastra.

Lampo di solita inerzia nel cielo, il tuo sguardo. Rassegnato.

Non abbiamo che la vita, costruita e disegnata in origami, dileggiata o nel cuore amata. I

l sogno ha perso la lotta.

Avido, lo insegue il destino.

Noi siamo lì. Fermi. Già attesa.

Marina Petrillo

 

 

Un’orgia d’anime bramose di sapere s’assembla unisona ignara del futuro e cerca, e scruta…e pensa a ciò che vede ma non sa capire.

Stravolgere concetti ed esserne coscienti cullarsi nel limbo tra saggi ed ignoranti, quale che sia la meta ignoto è il condottiero maestro è…il sol pensiero!

Il premio per ognuno sarà disconoscenza di propria identità, per esaltar l’essenza, essenza d’interiore, propria di noi altri che sesso si nasconde in atteggiamenti scaltri.

Credici amico mio, fallo con l’istinto che in questo mondo non puoi “vedere” tutto e quello che non vedi magari è anche più bello basta predisporsi di… buona volontà….e un corso Fattorello

Remo Diana

 

 

Sei tu, mio poeta, a percorrere Il lato sinistro del cuore.

Declini il senso ultimo in lenta scansione e non taciti i sensi.

Sferraglia il giorno in sconnesse aritmie.

Trafigge la luce meridiana, parola, già verbo.

Immota presenza in spazi di cielo, dondoli lo smarrito mio sguardo.

Anima di tutte le sillabe silenti, crocevia di lingue in acrobatica forma.

J’accuse tra infami menzogne

Sospeso Nelle tue mani Il vero.

Marina Petrillo