Provincia di Catania
“Comunicare meglio per servire di più”
Corso di formazione rivolto ai Responsabili e agli Operatori dei Servizi sociali della Provincia di Catania nelle sedi di Catania, Acireale, Paternò e Caltagirone.
Prof. Giuseppe Ragnetti
INTRODUZIONE
All’inizio di ogni corso è interessante capire l’atteggiamento di quelli che lo frequentano. Avete tutti un block-notes per prendere appunti e immaginate di portarlo a casa pieno di chissà quali nozioni utili, funzionali per il vostro lavoro, o che comunque diano un senso ad aver partecipato al corso. Pensate, invece, che alla fine lo troverete pressoché vuoto, perché io non vi dirò quasi niente e, al contrario, il mio sarà pieno! Perché sarete voi a lavorare, voi farete la lezione. Vorrei già lanciare una pietra, un macigno di questi nostri incontri, per dirvi: entrate subito in questa ottica, poi vedremo come, quando, i presupposti teorici: ogni cosa che diremo qui, seriamente, scherzosamente, ha poi una valenza anche professionale nel senso che potrà avere un ritorno di utilità.
Se venissi qui con l’idea di avere qualcosa da dire a voi, qualcosa di importante, di giusto, qualcosa di scientifico, da dottrina, conoscenza, e se pensassi che questo fosse motivo sufficiente per rendere il corso degno di essere frequentato, dovrei rinnegare tutta la vita, non avrei capito nulla. Se pensate che a qualcuno possa interessare minimamente ciò che volete dire, siete completamente fuori strada. Quindi lanciamo subito questo macigno: la comunicazione non è ciò che io voglio dire, ciò che io penso di dover dire, ciò che ritengo di dover dire, ciò che ho letto sui libri, ciò che ho ascoltato nelle mie lezioni, ciò che ritengo fondamentale. La comunicazione non è questo. La comunicazione non avviene in partenza, avviene all’arrivo, cioè avviene in colui che ascolta, nella sua .testa
Occorre sgomberare il campo dai falsi concetti, dalle false credenze. Spesso sentiamo dire, e anche noi lo affermiamo, frasi del tipo “Non esistono più i valori”, “Non ci sono più i valori di una volta”. A voi che lavorate nel sociale vi cadono le braccia perché i ragazzi non credono più a nulla, c’è il vuoto. In realtà, si continuano a non capire le dinamiche, i meccanismi della comunicazione quando si fanno questi discorsi, perché questi giovani non è vero che non hanno più valori. Dimenticate la parola “disvalore”, è impropria. In termini medici dis vuol dire alterazione, un fatto patologico, sono distonico quando non ho più tono. Ma chi decide che un valore è dis? La nostra cultura, i nostri genitori, il nostro sociale: ci hanno detto che il valore è questo e tutto ciò che non lo è è dis, quindi e una cosa di seconda categoria, per cui i nostri ragazzi non hanno più valori, o meglio, hanno dis-valori. E’ il contrasto, è il parlarsi tra due unità che non hanno nessuna possibilità di capirsi, e allora? Imposizione, repressione, autorità, che è, ancora una volta, la negazione all’ennesima potenza di una possibilità di una relazione con chicchessia. Dinamiche di gruppo, il leader, un leader imposto, un leader con i gradi che gli vengono conferiti dall’autorità non funziona. Allora dobbiamo subito, come partenza choc, metterci in testa che tutto ciò che abbiamo acquisito e conquistato attraverso i nostri studi, famiglia, sociale, tutto ciò che fa di noi gli uomini che siamo, non ha nulla a che vedere con questo universo che è l’universo delle altre persone con cui interagiamo. Quindi, tutto il nostro sforzo di trasferire, di imporre ai propri figli le cose in cui si crede non è corretto, perché dobbiamo comprendere che abbiamo a che fare con un altro essere umano che è diverso da noi e che la società in cui noi siamo cresciuti è diversa da quella in cui loro crescono.
Voi che agite in situazioni problematiche dovete avere soprattutto una funzione di comprensione, di intervento, possibilmente con finalità terapeutiche, che vuol dire instaurare un dialogo per capire, per potere poi comunicare nella maniera più giusta ciò che la scienza, l’istituzione ritiene essere il comportamento ideale per quel tipo di problema, di patologia, di necessità sociale, ecc. Voi dovete essere diversi, diversi dai luoghi comuni, diversi da ciò che fanno le persone vittime di una cultura tradizionale, accettabile, se volete, quella cultura che ha tenuto insieme la società fino ad oggi, ma che è anche quella cultura che ha provocato quel disagio per cui voi siete chiamati ad intervenite, a lavorare nelle vostre strutture pubbliche o private che siano. Il vostro ruolo, il vostro stipendio vi viene dato per intervenire su quel disagio che quella cultura ha provocato, o no? Se quella cultura fosse una cultura giusta, ineccepibile, se ciò che voi ritenete di avere come depositari della verità ebbene, vi mancherebbero i clienti, non avreste la materia prima su cui agire, non avreste i giovani militari che si presentano a volte in condizioni drammatiche, il problema delle caserme, non avremmo tutte le altre patologie, non avremmo il bisogno di ricorre a questa terapia sostitutiva. Perché poi la droga la definite come volete definirla, ma la droga è talmente chiaro che è una terapia sostitutiva, perché poi la droga è frutto di mille equivoci. La droga non provoca piacere, sembra una provocazione la mia, la droga impedisce di sentire dolore, che è un’altra cosa, ma poi il piacere è dentro di noi, le sostanze che provocano piacere sono le nostre. Quindi, disagio da che cosa? Dolore da che cosa provocato? Da un sistema di regole, di valori che hanno provocato il disagio in questo senso, e allora o ci nascondiamo dietro un’aurea ignoranza, oppure dobbiamo essere i primi a metterci in discussione. Così come facciamo nell’analisi psicologica, nella psicoanalisi, non avrebbe senso per un operatore se prima non avesse risolto i suoi problemi, la famosa analisi su se stessi. Ma come posso aiutare te, se non ho ancora risolto i miei problemi esistenziali? E’ obbligatorio liberarsi di questa zavorra. Per gli operatori sociali, per chi si occupa di disagio, è obbligatorio uscire fuori dai luoghi comuni, dai discorsi di salotto, dai “così fan tutti”, tutti voi dovete essere diversi, non potete essere come l’uomo della strada.
Allora voi dovete diventare innanzi tutto sociologi nel vostro lavoro, nel senso che dovete imparare a capire la società in quel momento, i cambiamenti, l’orientamento; quali sono le cose che interessano alle persone in questo momento, ai giovani in particolare. Non e vero che i giovani non credono più a nulla, per esempio credono al nulla, vi pare poco? Hanno fatto piazza pulita, sono in una posizione quasi catartica, di serenità totale. Ma noi sappiamo che questi ragazzi hanno bisogno di qualcosa, ma questo qualcosa va capito attraverso di loro.
Allora, che cosa ci proponiamo in questo corso? Io cercherò di dirvi quali sono i presupposti della comunicazione, vedremo che cosa è successo dal punto di vista comunicazionale fin dai primordi della storia dell’uomo, e vedremo cosa c’é dietro. La comunicazione é una scienza difficilissima anche se penalizzata. Tutti ne parlano, giornali, televisione e ciò che impressiona é la pretesa di dare giudizi su una disciplina scientifica complessa, che si occupa dei rapporti tra gli esseri umani. Non esistono regole fisse, perché non esistono esseri umani fissi, uguali, programmati, su cui possiamo fare delle ipotesi di comportamento, di reazione agli stimoli ecc. Vorrei poi sottolineare ed enfatizzare l’arte dell’ascolto: ascoltare per conoscere, conoscere per capire, capire per comunicare, comunicare per agire.
Voi avete un’immensa responsabilità sociale. Voi dovete avere la capacità di capire la comunicazione inespressa, quello che non viene detto, che cosa quella persona vuole dirvi. Chi opera nel sociale, con persone problematiche deve essere in grado di cogliere la comunicazione inespressa, che quasi sempre si esprime con tutta quella che viene definita “comunicazione non verbale” e “comunicazione simbolica”. Come capire se non ascoltando? Come capire se non mettendo le persone in condizione di parlare senza il terrore del giudizio? E’ tutto qui. Bisogna capire le regole del gioco, e necessario nei limiti delle nostre possibilità stabilire una relazione con chi viene da noi, in modo tale che quella persona identifichi in noi un qualcuno in grado di dare, se non la soluzione, un contributo, una disponibilità, una voglia di cercare, di fare insieme. E’ facile condividere queste cose, però poi c’é la macchina burocratica che spesso non ci aiuta. E’ un grande sforzo quello che si chiede agli operatori sociali, a persone che hanno a che fare con un mondo di problemi. Pur rispettando le regole, i rapporti devono essere costruiti in maniera tale che l’altro sia disponibile a stabilire un rapporto con voi, e questo non può che avvenire attraverso l’ascolto, quindi attraverso la conoscenza, la disponibilità. Tutto questo per dire che cercheremo di vedere anche concretamente come si fa ad ascoltare una persona.
E’ tutta vera la problematicità del vostro lavoro. Ma se ognuno di voi riuscisse ad avere un colloquio soddisfacente con l’interlocutore del momento, in qualsiasi situazione problematica, se una persona uscirà dal colloquio con voi con l’impressione di essere stata ascoltata, di avere trovato una persona umana, disponibile, ebbene la vostra giornata avrà avuto un senso, e siccome la vostra vita e fatta di tante giornate, senso dopo senso, la vostra vita avrà un senso. Occorre evitare che il vostro interlocutore abbia la sensazione di avervi disturbato, perché magari siete impegnati intellettualmente in un’altra direzione. Perché il problema e proprio questo: la sensazione che danno gli operatori sociali, gli psicologi del centro di igiene mentale. Non funziona mai. Sapete qual’ è il limite più grosso della terapia psicologica, sociale? Il pagamento. Perché ? Perché se io vengo da te e ti devo pagare, mi resta dentro l’idea che ti prendi cura di me perché ti pago, e mi resta dentro un’altra idea: che tu non hai alcun interesse a curarmi perché quando mi avrai guarito perderai la fonte di sostentamento. E allora nella mente del paziente questa terapia va avanti anni ed anni “perché io pago”. Tutto questo ci porta verso un’unica direzione. Se vogliamo veramente essere terapeuti non soltanto sotto l’aspetto medico, bisogna uscire dalla logica del profitto. E’ lo Stato che deve garantire l’assistenza sociale, psicologica, la psicoterapia, ma non tanto come una questione sociale quanto come sistema di efficacia terapeutica. In questo senso lo Stato diventa un atto terapeutico, perché non lo fa per i soldi, lo fa perché mi ama. Allora perché tutte le persone che scelgono di lavorare per lo Stato – lo psicologo, il sociologo – non riescono ad essere disponibili, perché non riescono a dare all’utente la sensazione di volersi prendere cura di lui? Dovete crederci, dovete dare un senso al vostro lavoro. Il discorso e tra noi e noi. Noi dobbiamo avere 365 giorni di senso. Sono un illuso?
Il meccanismo di base e lavorare sull’uomo, sul singolo, quindi a livello psicologico, per fare assumere consapevolezza al singolo della propria personalità, del suo essere interiore, quindi delle sue capacità, potenzialità; cioè dobbiamo restituire al singolo la fiducia nei propri mezzi, dobbiamo far capire al singolo che se vuole può farcela da solo, dobbiamo fargli capire che l’aiuto non può essere esterno. Ma qual e la finalità di questo obiettivo primario e direi imprescindibile? Portare le persone ad un livello tale di consapevolezza che capiscano che volendo possono camminare con le proprie gambe. Il secondo è: puoi muoverti con le tue gambe per stare in mezzo agli altri. C’è una ricostruzione psicologica, dobbiamo ricostruire un uomo psicologico per inserirlo nel migliore dei modi nel sociale. La psicologia sociale chiarisce che non esiste un sociale senza uomini, perché il sociale è fatto di persone, individui, uomini e la psicologia deve capire che non esiste uomo senza sociale. Sono due meccanismi talmente interconnessi, talmente in continuo scambio tra le dinamiche richieste dalla società e le dinamiche personali richieste dal mio io che ha delle pretese, delle esigenze, vuole comunque realizzarsi.
La ricostruzione psicologica che è l’obiettivo primario che scaturisce dall’ascolto imprescindibile del singolo non può che mirare all’inserimento nel sociale. Credo che sia relativamente facile dare ascolto, al fine di recuperare l’uomo e metterlo poi in grado di accettare, di vivere nel sociale. D’altra parte, l’umanità è piena di persone che hanno trovato un proprio equilibrio, un proprio senso interiore che accettano il sociale come male inevitabile, come male minore, capiscono che l’uomo dal momento che è un animale sociale, dal momento che fin dalla nascita l’uomo cerca comunque di stare in mezzo agli altri esseri umani, di agire, i famosi rapporti sociali che si iniziano fin dai primi mesi di vita, è un fatto biologico, istintuale, l’uomo è un animale sociale, subisce il disagio sociale quando l’uomo psichico non è pronto, quando l’uomo psichico hai dei problemi irrisolti all’interno che non gli permettono di accettare le regole sociali. Se la mia autostima è molto bassa, ho un forte senso di inferiorità, mi sento inadeguato, è chiaro che vivo il sociale comunque come un attacco a me, perché se ho un io sotto i tacchi, è chiaro che il sociale diventa un elemento di grande disagio, perché vedrò tutti che sono lì pronti a criticare. Ci sono persone che non riescono ad entrare in un bar, a passeggiare tranquillamente per il corso, perché sono persone che vivono drammaticamente il giudizio degli altri. Una persona che entra in un ufficio con una serie di problemi personali irrisolti, ma questo non è un giudizio, è un dato di fatto, genitori di un certo tipo, un’infanzia di un certo tipo, un contesto di un certo tipo, poi producono l’uomo maturo che è quello che è, allora se io entro in un ufficio con una sensazione di forti limiti, forti inadeguatezze, che comunque qualcuno sarà lì a giudicarmi, allora è chiaro che il sociale mette a disagio. Abbiamo una sola maniera per non subire il condizionamento, il ricatto del sociale, dico una cosa scontata, è l’aver messo a posto i nostri conti. Quando noi mettiamo i conti in ordine, quando nella nostra contabilità c’è il massimo della trasparenza, può anche venire la Corte dei Conti, chi vuole, i miei conti sono chiari, non ho paura. Non temo il giudizio di chicchessia. Se il mio conto in qualche cosa non è chiaro, allora i nostri limiti diventano enormi. Io credo che sia un problema che vada affrontato passo passo, il primo obiettivo è fare assumere consapevolezza al ragazzo, ascoltare, condividere empaticamente, entrare dentro i problemi. Quando il ragazzo, la persona che ha problemi, assume consapevolezza, capisce che anche con le sue gambe può continuare a camminare, anche se serviranno cure di altro genere ed aiuti concreti al reinserimento, per non trovarsi chiuse le porte in faccia ovunque vada. Questo io credo sinceramente che sia un aspetto che vada molto migliorato.
La comunicazione nasce con l’uomo, dal momento che l’uomo non è solo e, già se ci sono due unità devono adottare un sistema per dirsi qualcosa, per comunicare. Per molti anni la comunicazione è stata molto immediata, probabilmente sarà stata fatta da suoni gutturali, da tutta una serie di comunicazioni non verbali, di gestualità, di espressioni. Questo è andato avanti per molto tempo, ma ad un certo momento della storia dell’uomo sono avvenute le cosiddette tre rivoluzioni che hanno fatto la storia della comunicazione. Nel IV millennio a. C. il popolo dei Sumeri attuò quella che viene definita la rivoluzione chirografica, cioè per la prima volta l’uomo ha sentito il bisogno di lasciare qualche traccia ed ha inventato la scrittura. Pensate, quando qualcuno riferì al sovrano dell’epoca di questa nuova tecnologia egli la prese molto male, sarebbe stata la fine del pensiero umano, perché l’uomo dovendosi affidare a delle tracce scritte, documenti scritti, non avrebbe avuto più modo di esercitare le proprie capacita intellettuali.
Quindi, dal 4000 a.C. dobbiamo arrivare esattamente al 1546 per vedere un’altra dimensione. E’ un passaggio fondamentale nella storia dell’umanità, e la vera rivoluzione: la stampa con Gutemberg. Nel 15° secolo dopo che nei periodi precedenti la conoscenza era affidata ai testi manoscritti, ai famosi amanuensi, che lavoravano esclusivamente nei conventi, la chiesa si è trovata ad essere per anni, per secoli, la depositaria della conoscenza. Tutto ciò che si conosceva, lo scibile umano, era su questi testi scritti a mano spesso in un’unica copia, una sola edizione custodita gelosamente nelle biblioteche dei conventi e che naturalmente non erano di facile accesso, perché per poter consultare uno di questi ci voleva una serie di autorizzazioni, ma l’umanità era quella, la conoscenza non era ancora patrimonio condivisibile, anche perché alcune ipotesi parlano all’epoca di un livello di alfabetizzazione intorno al 3- 4%. Questo fatto provoca veramente una rivoluzione epocale, perché per la prima volta i libri si possono stampare in più edizioni uguali, e al tempo stesso porta uno sconquasso perché nè la Chiesa nè lo Stato accettano di buon grado questa rivoluzione. La Chiesa perché teme che con questo mezzo possano diffondersi facilmente le tesi luterane, tanto che la Chiesa per poter stampare un libro obbliga all’imprimatur che é una sorta di censura. E lo Stato, che ha il terrore che attraverso la stampa si diffondano le idee rivoluzionarie e comunque idee contro i suoi poteri, applica tasse pesantissime. Per stampare un libro i costi sono talmente elevati che alla fine del ‘600, 150 dopo la nascita della stampa, noi troviamo ancora giornali manoscritti, perché é l’unica maniera per non pagare le tasse, visto che un giornale scritto a mano non é stampa; d’altra parte i lettori non sono tantissimi, il giornale tira 100, 200, 300, copie, coprendo il fabbisogno del bacino di utenza ristretto all’ambito territoriale della città dove si stampa quel giornale.
E così, tra alti e bassi, si va avanti per altri 4-5 secoli. Prima siamo andati avanti per diverse migliaia di anni: la comunicazione spontanea, la comunicazione non verbale, i graffiti, i segni; poi siamo arrivati alla rivoluzione chirografica; dopo 5500 anni si arriva a Gutemberg; dopo appena 400 anni si arriva all’Ottocento, dove avviene la rivoluzione dei media elettrici e poi subito dopo dei media elettronici.
Una cosa da notare e che il tempo tra una rivoluzione e l’altra si accorcia sempre più. Nell’Ottocento sono stati scoperti tutti i mezzi moderni di comunicazione: il telegrafo, il telefono, la macchina fotografica, ma soprattutto la radio, il cinema e l’energia elettrica. Quest’ultima ha reso possibile la realizzazione tecnica di tutti questi mezzi e, a sua volta é stata frutto di studi e ricerche di personaggi che avevano potuto confrontarsi e conoscersi attraverso l’invenzione della stampa. Quindi, la stampa ha reso possibile la circolazione del sapere, delle conoscenze; poi l’arrivo della corrente elettrica ha consentito la realizzazione tecnica di questi mezzi. Nel Novecento poi l’elettronica e il computer hanno permesso il perfezionamento di tutto quello che era stato fatto, ma le idee, i meccanismi sono tutti figli dell’Ottocento. Per passare dall’elettricità all’elettronica sono serviti cento anni. Adesso per passare da un mezzo ad un altro bastano pochi mesi. L’uomo è riuscito ad eliminare due ostacoli che sembravano ineliminabili: il tempo e lo spazio. Pensate ai nostri nonni che dovevano comunicare con il fratello che era emigrato in Australia. Passavano mesi! Adesso si prende il telefonino e si comunica immediatamente con il nostro amico che si trova in Africa. La comunicazione istantanea. Quello che é interessante é che con tutti questi nuovi mezzi nessun mezzo di comunicazione é mai scomparso. Per cui per quanto riguarda i mezzi di comunicazione si ha una sorta di idea, un unicum globale, e ognuno conserva il suo ruolo, più o meno ridimensionato.
La cosa paradossale in tutto ciò è che siamo riusciti a superare i due limiti fondamentali del tempo e dello spazio, anche se in essi risiede la causa principale del nostro malessere che è proprio la mancanza di tempo, il correre tutti i giorni con questo ritmo frenetico e stressante. E uno strano destino: abbiamo fatto di tutto per eliminare questi due elementi, e adesso la mancanza di spazio e tempo sono i principali fattori di disagio, di sofferenza.
Di fronte ad uno stesso stimolo si possono vedere due cose diverse, e ognuno può giurare di aver visto quello che dice di vedere. Voi avete la vostra verità, avete la vostra visione, avete tutto quello che vi deriva dalla preparazione teorica, dagli studi che avete fatto, però alla fine siete tutti convinti che siete voi i detentori della verità, della metodologia giusta, dell’approccio giusto, ed è sempre l’altro che ha dei problemi. L’incontro-scontro avviene proprio su questa diversa visione del mondo, e si arriva ad un punto tale di esasperazione di questo concetto che si considerano persone come problematiche, marginali fino al massimo grado, folli, semplicemente perché non vedono le vostre stesse cose. Ma é solo una logica diversa dalla nostra, una visione diversa dalla nostra. Siamo talmente in difficoltà ad accettare la diversità che l’umanità ha costruito tutta una serie di ghetti, ad es. i manicomi ecc. Tutto questo era in funzione di una visione diversa dalla nostra. Per esempio, per noi é assurdo uscire nudi quando piove. Se vedessimo una persona nuda uscire mentre piove avremmo solo una definizione: é un pazzo. E se i pazzi fossimo noi che ci impediamo di godere della cosa più naturale del mondo, l’acqua? L’acqua é fresca, purifica, rigenera, noi siamo acqua. Vedete come é difficile esprimere giudizi sui nostri giovani, sulle persone problematiche, sulle persone in difficoltà che vengono da noi? Sono persone in buona fede. Se rimaniamo su queste posizioni, il contrasto é insanabile, non si va avanti.
Se nella vita di tutti i giorni questo é un male incurabile, nella vita di professionisti che si occupano di un settore particolare come il vostro e che ha bisogno di avere una relazione quotidiana con persone chiamiamole problematiche, é chiaro che non potete ignorare i meccanismi mentali che presiedono ai pensieri di quelle persone e ai vostri pensieri, perché altrimenti torniamo al discorso secondo cui voi siete i detentori della verità, del metodo, del come si fa, cioè assumete il ruolo del professore che sale in cattedra e che lascia il tempo che trova. Se non ci sarà mai quest’aggancio, ognuno resterà nella sua posizione. Le persone avranno la sensazione di non essere considerate, ascoltate per la serietà dei loro problemi, voi avrete la sensazione che con tutta la buona volontà, la vostra coscienza, con tutta la vostra padronanza tecnica dei problemi troverete delle persone che non sono assolutamente disponibili a seguirvi sulla buona strada, a fare tesoro del vostro immenso sapere. Ma questo non avviene solo nella vita professionale, avviene nella vita di tutti i giorni, tra amici, parenti, e non parliamo della vita di coppia.
Tutto questo lungo discorso é per introdurre il discorso della percezione. La percezione potremmo definirla come l’elaborazione automatica, inconsapevole e incondizionata degli stimoli sensoriali. In realtà, noi entriamo in contatto con tutto quello che é all’esterno di noi attraverso i nostri cinque organi di senso. Questi organi di senso sono molto svalutati rispetto alle loro funzioni primarie. In realtà, sono passaggi imprescindibili per tutta la nostra conoscenza. Tutto quello che é nel cervello é passato attraverso i nostri organi di senso, che hanno una funzione di raccolta e di trasmissione di una massa enorme di stimoli. Tutti questi stimoli assumono un significato diverso in ognuno di noi e a prescindere da noi. Le mie parole non significano niente, le mie parole assumono il significato dentro il vostro cervello. Siete voi che date vita alle mie parole, siete voi che date vita alla mia figura, siete voi che date vita a tutta una serie di stimoli attraverso il gusto, il tatto, l’olfatto. Non esiste stimolo che provochi la stessa percezione in persone diverse, oppure stimoli diversi possono provocare la stessa percezione, anche se la fonte é diversa. E questo deve farci riflettere molto.
Il cervello é l’unico organo che comincia a funzionare man mano che si forma. In maniera impropria, per esigenze didattiche, noi dobbiamo però ipotizzare un momento zero, che in realtà non esiste. Cosa succede? Noi riceviamo uno stimolo A che a seconda dell’apparato sensoriale coinvolto, può essere un rumore, una luce, il tatto, l’olfatto, il gusto ecc., attraverso i centri nervosi deputati a portare questo segnale dal nostro senso che l’ha ricevuto fino al cervello. Il nostro cervello é una specie di scacchiera, formata da mille celle di memoria che ancora sono pulite, vuote, disponibili ad essere riempite; lo stimolo A entra, viene elaborato e viene messo in una casella. Questo é il meccanismo dell’apprendimento, qualcosa che era fuori di voi arriva attraverso gli organi di senso, come una unità fisica, l’organo di senso lo manda alla zona del cervello deputata ad elaborare, e apprende. La casella sarà adesso riempita dallo stimolo A, ho appreso lo stimolo A. Naturalmente questo discorso vale per lo stimolo B, per lo stimolo C, possiamo andare avanti all’infinito. Quindi, ogni nuovo stimolo che si presenta per la prima volta alla mia conoscenza, alla mia percezione genera un contatto, una trasmissione. Man mano io riempio le caselle. La cosa che fa più piacere all’essere umano é l’apprendimento, perché l’apprendimento significa assumere il dominio sulle cose, la capacità di avere il controllo sulle cose. L’apprendimento è la cosa più gratificante proprio in termini di fisiologia del piacere. Quando poi arriva un secondo stimolo A, non é la prima volta che appare, é già appresa, allora noi facciamo un’operazione di riconoscimento, capiamo che quella cosa era già nostra. E’ forte il dispendio energetico che il nostro cervello mette in atto nella fase sia dell’apprendimento sia del riconoscimento, per cui personalità definite chiuse, poco disponibili ad impegnarsi in questa azione di apprendimento, sono in realtà persone che gestiscono al lumicino le loro scarse risorse energetiche. Il nostro cervello ha, quindi, sempre un problema di bilancio energetico, ed è sempre attento a non spendere più di quanto possiede, anche se le stesse scorte possono finire ed è necessario ripristinarle.
Non sempre la seconda A é identica alla prima A; comincio a fare quelle che vengono definite le reti associative. Introduco la B, come altro stimolo, e questa B la collego con la A, questa é la prima dei miliardi e miliardi di reti associative che farete nella vita, cioè quando due stimoli avvengono in contemporanea, in uno stesso contesto, io posso incamerarli in maniera separata però é inevitabile che faccia un’associazione fra questi stimoli, per cui uno dei due mi richiamerà puntualmente l’altro. Il nostro cervello da un elemento, attiva tutta una serie di collegamenti che mi permettono di riprodurre una situazione molto complessa senza dover ripassare ogni volta attraverso tutta una serie di nuovi apprendimenti o di nuovi riconoscimenti, per cui da un particolare risalgo alla complessità. E’ dunque un processo necessario per il nostro cervello, é un problema di risparmio energetico. E anche vero, però, che è un processo estremamente pericoloso se non abbiamo un livello di consapevolezza sufficientemente alto, perché può portare ad equivoci enormi. Le reti associative sono da un certo punto di vista quanto di più deleterio il nostro cervello possa mettere in atto. Le reti associative portano a processi del tipo: se è successo questo deve succedere anche quest’altro, perché quella prima volta che io ho incamerato questi stimoli, allo stimolo A è succeduto lo stimolo B. E’ difficilissimo smontare le reti associative, gli schemi mentali.
Vorrei fare un’ulteriore riflessione sulle reti associative e sugli schemi mentali. I nostri comportamenti, le nostre scelte di vita, soprattutto il nostro giudizio sull’altro sono figli dei nostri schemi mentali, delle nostre reti associative. Provate ad immaginare un momento della vostra giornata in cui voi non esprimete un giudizio, tutto è giudizio. In questa rete di continui giudizi che tutti gli esseri umani danno tra loro, qual’ é il discrimine su cui ci basiamo, l’elemento in base al quale noi giudichiamo qualcosa o qualcuno? Sono, appunto, gli schemi mentali. Questi sono meccanismi imprescindibili, non dipendono da noi. Dipende da noi assumere consapevolezza del perché proviamo certe emozioni, certe sensazioni che poi diventano sentimenti che ci legano. Assumere consapevolezza è alla nostra portata, modificare queste cose é molto difficile, ma ci si può anche arrivare. Ma dal nostro punto di vista perché é interessante conoscere questi meccanismi? Perché nel nostro lavoro ci relazioniamo con persone “problematiche”, che hanno delle difficoltà, e, a quel punto, i nostri schemi mentali non possono più essere l’elemento con cui io intendo relazionarmi con queste persone che hanno schemi mentali diversi dai miei, come avviene sempre anche nei rapporti tra persone “normali”, a maggior ragione sono nettamente diversi con persone che proprio in quanto problematiche hanno schemi mentali ulteriormente problematici. La possibilità di incontro con i nostri interlocutori, con i nostri utenti consiste in questo sforzo enorme di non imporre i nostri schemi mentali, ma di cercare di capire che cosa c’è alla base degli schemi mentali di queste persone. Capite allora che accanto al primo ingrediente, l’arte dell’ascolto, è altrettanto necessaria l’assenza di qualsiasi giudizio su qualsiasi cosa voi ascoltiate. Il vostro compito non è giudicare tutto quello che ascoltate. E questo vale per tutti i tipi di relazioni. La capacità di ascolto e la totale assenza di giudizi deve essere un patrimonio imprescindibile di chi fa questo lavoro, e bisogna essere cos1 bravi che l’altro deve essere certo che non lo stiate giudicando, perché questo é il motivo fondamentale del perché lui verrà a chiedervi un aiuto, un consiglio, perché se si sentisse nuovamente giudicato ripeterebbe in automatico quegli schemi mentali che lo hanno portato alla situazione di disagio, schemi mentali che sono partiti da lontano, dai primi momenti di vita, dall’infanzia, da quando comunque tutti davano un giudizio.
Tutta questo lungo discorso mirava a farvi capire che c’é modo e modo di fare il nostro lavoro, si può fare il nostro lavoro come semplici genitori con direttive che ci vengono impartite da persone più o meno consapevoli ecc. le quali tuttavia hanno solo un’esigenza, che vengano coperti certi posti, l’organico, e questo e un sistema, oppure andare alla ricerca di senso, del perché siamo qui, del perché facciamo questo lavoro.
Vediamo come funzionano i nostri pensieri. Ci arrivano gli stimoli, e il primo impatto, il primo stadio da superare è quello che viene definito come filtro. Il filtro è un’esigenza di cui il cervello non può fare a meno per difendersi da quei 300.000 stimoli al secondo da cui è bombardato, quindi il primo obiettivo del cervello è impedire alla stragrande maggioranza degli stimoli esterni di entrare. E come funziona? Il filtro, che ha delle capacita notevoli, è dotato di una capacità organizzativa, é un filtro intelligente e fortemente selettivo, fa entrare soltanto quegli stimoli che sono coerenti con l’attività intellettuale che é in corso in quel momento.
Cominciamo ad entrare in quest’ottica. Ormai l’avete capito tutti, non possiamo dare giudizi perché se diamo giudizi sbilanciamo fortemente il rapporto e togliamo pari opportunità al nostro interlocutore di poter portare nel rapporto la sua personalità. Quindi, chi fa il vostro lavoro, chi è in qualche maniera al servizio degli altri, non può avere un atteggiamento pregiudiziale, con la convinzione che comunque io ho la verità in mano, comunque io so come si fa, comunque sono qui per insegnare a te come fare le cose. Questa è la fonte dei dissapori fra le persone, di incomprensione, dell’insuccesso terapeutico dell’incontro, che invece ha una sua ragion d’essere, al di là delle pasticchette somministrate dallo specialista. L’incontro con l’assistente sociale, con chi si occupa di problemi sociali, deve avere già una funzione terapeutica di per sé, per il fatto stesso che sono venuto a parlare con te, mi hai ricevuto, mi hai dato la possibilità di parlare con te. Quindi andate all’incontro abbastanza liberi, svuotati delle vostre caselle di reti associative, ma non della conoscenza: la conoscenza deve esserci, ma cercate di evitare i collegamenti precostituiti.
Una volta che il filtro ha deciso di fare entrare uno stimolo, valuta, perché è intelligente, quindi la manda nella sfera della consapevolezza, dopo di che ci ragiona, e la consapevolezza provoca la risposta, cioè l’azione. E’ quello che accade nel nostro cervello.
Abbiamo visto gli stimoli, il filtro, la memoria a lungo termine; qui aggiungiamo un altro elemento che é quello della risposta inconsapevole. Talvolta é talmente urgente la risposta, che non si ha il tempo di decidere se mandare in consapevolezza o mandare in memoria a lungo termine e poi utilizzare successivamente. I tempi sono brevissimi. Vado in macchina e mi attraversa la strada un bambino, non ho assolutamente il tempo di dire: “Dunque. questo stimolo mi pare che ce l’ho in memoria a lungo termine, quando un bambino attraversa bisogna frenare, rallentare.”. Non ho il tempo di andare in consapevolezza ne tanto meno di pescare in memoria, non posso ragionarci per dare una risposta consapevole. E’ una risposta inconsapevole. Anche questo e un meccanismo che ci fa risparmiare una quantità enorme di energia, oltre che fornirci delle risposte immediate. Pensate che noi non riusciamo assolutamente a realizzare più di 5-6 azioni consapevoli contemporaneamente. E’ una fatica tremenda. Però c’é un meccanismo che la nostra mente mette in atto: le cose di cui già siamo padroni le facciamo in automatico, senza pensarci consapevolmente. Pensate a quanta energia si risparmia! A volte però ci sono delle situazioni in cui questo può diventare pericoloso rispondere in automatico. Pensate le scene di panico, che cosa sono? Sono dei meccanismi di risposta in automatico al di fuori di qualsiasi consapevolezza che poi possono provocare conseguenze molto serie.
Credo che tutti abbiate capito che quel filtro non é un’unita anatomica costante, uguale per tutti come possono essere gli occhi, il naso, la bocca; é un’unità psicologica, un meccanismo messo in atto per tutti quei motivi che abbiamo visto poc’anzi, che essendo psicologico non può non essere legato al singolo, che è un processo estremamente variabile, mutevole, soggettivo, per cui se noi vogliamo riconoscere a noi stessi questo tipo di attività mentale, cioè la capacita di portare a livello di consapevolezza, di mettere in memoria giudicando che non mi servono adesso, di tirarli fuori quando mi servono, cioè se vogliamo riconoscere a noi la dignità di uomini pensanti, uomini intelligenti, non possiamo negare agli altri esseri umani questa stessa capacità. Se accettiamo che le persone hanno pari dignità nell’espletare il loro pensiero attraverso il linguaggio, che poi è l’unica possibilità che l’uomo ha per dare vita ai pensieri, allora comprendiamo perché , ancora una volta, l’arte dell’ascolto é importante, perché attraverso le parole, attraverso il linguaggio noi possiamo capire i pensieri. Il pensiero in sé per sé non esiste. Quando esiste il pensiero? Quando lo traduco nel linguaggio che é un codice condiviso che permette agli altri di capire il mio pensiero. I pensieri non esistono se non li traduco in parole. Allora, l’arte dell’ascolto é l’unica maniera possibile per capire i pensieri, cioè ascoltando le parole, comunicazione verbale, e ascoltando tutta la comunicazione non verbale, simbolica, che é l’altra forma di linguaggio.
I pensieri sono il risultato di tutto ciò che le persone hanno messo dentro durante la loro vita. Attenzione, mettere dentro non significa soltanto un atto di volontarietà, ma significa prima di tutto a livello sociale, ognuno di noi è figlio di tutto ciò che é successo dal momento in cui siamo venuti al mondo, stiamo parlando di un fenomeno che sociologicamente si chiama acculturazione, che significa esattamente tutto ciò che ci ha socializzato. Noi oggi siamo animali sociali in base a tutto ciò che ha preceduto. Tutto questo fa sì che sulla base di questi ingredienti acquistiamo una mentalità, come si dice, una personalità, una visione dei problemi del mondo che é mia e non può essere di altri. E il trionfo della soggettività che a sua volta dipende da tutto ciò che ha alimentato questa soggettività.
Noi abbiamo bisogno di costruire la nostra visione del mondo che é indispensabile per muoverci nel territorio sconosciuto della vita in funzione dell’uso che ne dobbiamo fare. Guai se confondessi la mia mappa mentale con la realtà del mondo. La mappa mentale é la punta dell’iceberg, però sotto che cosa c’é? Ognuno di noi giudica il mondo secondo la mappa mentale e arriva a ritenere che il mondo sia la propria visione del mondo. Nei nostri meccanismi del pensiero si verifica quello che possiamo chiamare circolo vizioso che però subito dopo deve diventare circolo virtuoso. Che cosa succede? Che la percezione, cioè tutti gli stimoli sensoriali che sono arrivati al mio cervello con tutti i limiti del filtro, e sono stati elaborati da me, sono stati trasformati in qualcosa che ha assunto il sapore della conoscenza una volta incasellati, che hanno assunto un significato nel mio cervello; tutta questa percezione alimenta la mia esperienza, cioè io vivo oggi il mondo – l’esperienza significa il vivere, l’esserci – sulla base dei miei schemi percettivi, tutto quello che oggi mi fa vivere la vita in un certo modo, però ecco il circolo ancora vizioso, l’esperienza, il mio pregresso alimenta la percezione di oggi, per cui gli schemi mentali che la mia esperienza ha costruito oggi mi fanno vivere il mondo in una certa maniera.
Se vogliamo crescere, dare un senso alla vita, e quindi non vogliamo impedirci questa possibilità meravigliosa di sperimentare cose nuove senza fine, dobbiamo acquistare un paio di forbici e tagliare ciò che ci condiziona; tutto il nostro passato produce la nostra esperienza, cioè noi siamo tutto quello che abbiamo dentro, e impossibile per noi non essere quello che siamo, però dobbiamo crescere. Debbo cioè essere aperto a ricevere nuovi stimoli ed arricchire la mia esperienza, perché altrimenti la mia esperienza sarebbe bloccata, io non ho fatto un passo avanti, e l’umanità sarebbe rimasta immutabile, se io non avessi individuato i limiti della mia educazione, del mio vissuto, i limiti dei miei genitori. Queste riflessioni possono veramente cambiarci la vita.
Quello che vi raccomando, perché é molto importante, sforzatevi, di comunicare anche dal punto di vista formale nel migliore dei modi, cioè migliorate la vostra comunicazione, imparate a parlare meglio possibile, esercitatevi anche ascoltando il registratore. Oggi le persone che hanno più successo sono le persone che sanno comunicare bene. Oggi i manager passano l’80-90% del loro tempo a relazionarsi, mediare, quindi diventa un ingrediente indispensabile la capacità di esprimersi sia dal punto di vista lessicale, una certa ricchezza di vocaboli, non usare un aggettivo per definire mille situazioni diverse, ma soprattutto le modalità, il modo di porsi, la gestualità. E poi cercare di migliorarsi ascoltando persone che parlano un italiano decente, quindi un buon film non dialettale, ma in italiano, una rappresentazione teatrale, cercando di capire le modalità di comunicazione, la gestione dello spazio, la gestualità. E poi leggete libri, il più possibile. Più ingredienti avrete più piatti complessi ed elaborati sarete in grado di creare. Non sottovalutate affatto questo aspetto. Una persona che è capace di porsi bene ha più successo, quello che più conta sono i modi. Lo sforzo per migliorare la propria comunicazione é un investimento veramente utile.
CONCLUSIONI
Il mio obiettivo é stato quello di darvi degli stimoli, dei dubbi, crearvi qualche incertezza su certezze pregresse, normali, giuste. Se ci siamo riusciti, se qualche problemino ve l’ho sollevato, bene, obiettivo raggiunto.
Vorrei affrontare brevemente il discorso della famiglia. Approfondirlo richiederebbe un corso di sei mesi. Può l’ambiente patogeno avere capacita terapeutiche? Voi che lavorate in questo settore cos1 problematico, così delicato, mille volte avete pensato, vi é stato consigliato, siete ricorsi alla famiglia come ambiente ideale da utilizzare per il recupero, l’inserimento, ecc. Questo é un discorso molto complesso, ma se voi aveste il tempo di analizzare e ascoltare i motivi di disagio primari che hanno poi accumulato una serie di problemi che man mano si sono consolidati, vi renderete conto che é come una costruzione, la prima pietra, poi un’altra pietra, poi un’altra ancora, alla fine abbiamo un macigno, una piramide enorme su cui é molto difficile intervenire. Se aveste la possibilità di capire, di indagare qual’ é stata la prima pietra nove volte su dieci scoprireste che la prima pietra é stato un rapporto difficile nell’ambito familiare. A quel punto dopo che con grande fatica, magari il sistema, le circostanze sono riuscite a smantellare questa piramide problematica, ci vuole un bel coraggio a rimandare la persona in quell’ambito dove dal giorno dopo si comincerà a ricostruire quella piramide.
Cioè, qualche volta il risultato é assolutamente il contrario alle aspettative . La famiglia non ha assolutamente possibilità terapeutiche, non perché non lo voglia, ma perché è un meccanismo tale che si regge, con un equilibrio comunque problematico, cioè i problemi dell’uno vanno ad incastrarsi in una certa maniera e compensano i problemi dell’altro, per cui è la famiglia a chiedere questa situazione e si ha il sistema, si ha l’equilibrio, la compensazione e la patologia spesso é un meccanismo di compensazione. Per cui, ognuno con i suoi limiti diventa essenziale al mantenimento dell’equilibrio. Ed é tremendo alle volte il ritorno in famiglia del soggetto problematico guarito. La famiglia lo rifiuta: a parole, razionalmente, lo accoglie a braccia aperte, ma questo ritorno metterà di nuovo in crisi la famiglia, perché il ragazzo che ritorna guarito non é più quello di prima che aveva contribuito con la sua malattia, con il suo disagio, a creare quell’equilibrio indispensabile per la famiglia.
In termini di comunicazione questo lo potete constatare quotidianamente anche nell’ambito della vostra famiglia: ci sono dei ruoli che sono funzionali, già attribuiti, codificati, e guai se un giorno uno dovesse cambiarli. Paradossalmente, la famiglia molto spesso è il principale agente patogeno. Ci sono illustri esponenti della psichiatria che individuano nelle relazioni disturbate all’interno della famiglia l’evidenziarsi, l’apparire della schizofrenia. Questa personalità che si sdoppia in risposta ad un’esigenza specifica dell’agente patogeno familiare. Allora capite quanto é necessario andare con i piedi di piombo nell’attribuire questo ruolo salvifico alla famiglia.
L’intervento non può essere fatto sul singolo, ma è necessario vedere, verificare nell’ascolto. Dobbiamo conoscere bene che cos’è che nella famiglia ha provocato certi problemi, e questo si può fare soltanto dialogando, ascoltando, e cogliendo anche con i segnali non verbali quello che le persone non riescono a dire a parole. Poi dobbiamo capire i rapporti, e quindi l’ideale sarebbe entrare nella famiglia, anche se non è facile. E’ indispensabile conoscere i membri della famiglia, capire le dinamiche interne a questo gruppo, dove sta il punto critico, un anello debole, che molto spesso, anzi quasi sempre, viene mascherato, ignorato a livello di consapevolezza, però l’osservatore esterno lo coglie, lo capisce, vede subito qual’ é questa problematicità, e allora l’intervento é un intervento mirato, sappiamo dove possiamo intervenire.
La famiglia va conosciuta fino in fondo per ogni situazione problematica, la famiglia si conosce soltanto avendo questa predisposizione, questa volontà di ascoltare: per ascolto non intendo solo l’ascolto auditivo, ma conoscere, interrogarsi mille volte, farsi venire mille dubbi, se mandando la persona problematica, rimandandola, reinserendola in famiglia possa essere la soluzione migliore. Interrogatevi sempre sulle soluzioni alternative. Abbiamo salvato molti giovani impegnandoli in attività intellettuali dislocate (ad es. facendoli iscrivere all’università) che li hanno distolti dal problema dominante.
N.B. Il testo di cui sopra è stato rielaborato dagli appunti presi da alcuni partecipanti durante il Corso.