Suez E Panama: due canali a confronto

GREGORIO SAMBATARO – Laurea specialistica in “ Relazioni Internazionali”

Continuano le buone notizie : un altro “onorevole” fattorelliano che vogliamo segnalare a tutti gli amici del nostro Blog

Il prof Giuseppe RAGNETTI, assieme a tutto l’istituto Fattorello, è lieto di comunicare l’importante traguardo brillantemente raggiunto dal “nostro” Gregorio SAMBATARO

Gregorio ha felicemente concluso i suoi studi universitari, conseguendo la Laurea Specialistica in RELAZIONI INTERNAZIONALI – Facoltà di Scienze Politiche – Università La Sapienza – Roma

“SUEZ e PANAMA: due canali a confronto” è stato l’arduo tema della Tesi di laurea, di cui pubblichiamo l’introduzione e le conclusioni per tutti gli interessati alla …navigazione!

 

SUEZ E PANAMA: DUE CANALI A CONFRONTO

L’orizzonte marittimo si ritrae senza posa innanzi alla prora della nave:

colui che vuole dominare deve andare sempre avanti.
(André Vigarié. La circulation marittime, cap. 11)

INDICE

Introduzione

CAPITOLO 1
Cenni storici
1.1 Il Canale di Suez
1.2 La costruzione del Canale di Panama: dai francesi agli americani

CAPITOLO 2
Rotte commerciali e risparmi di tempo
2.1 Il transito nei Canali e lo scambio di merci: dalle origini fino alla crisi energetica del ’73
2.2 Dagli anni Settanta ai nostri giorni

CAPITOLO 3
L’avvenire dei Canali
3.1 XXI secolo: cosa succede se si chiudono i Canali
3.2 Le rotte concorrenti
3.3 La pirateria marittima
3.4 Progetti di ampliamento

Conclusioni

INDICE BIBLIOGRAFICO

 

Introduzione
Sin dall’antichità, una delle esigenze umane più pressanti, è stata quella di muoversi nello spazio nel più breve tempo possibile. Grazie alla costruzione del Canale di Suez e successivamente del Canale di Panama, l’uomo ha trasformato una traversata di parecchi giorni rispettivamente in 15 e 8 ore. Nel primo caso ciò è stato possibile realizzando un canale navigabile posto a livello del mare, nel secondo, grazie a un sistema di navigazione costituito da chiuse che consente alle imbarcazioni di navigare sopra il livello del mare.

Il presente lavoro vuole essere un’analisi delle rotte di Suez e Panama, due itinerari ancora oggi di primaria importanza per il traffico mercantile oceanico. Fin dalle loro origini questi due passaggi marittimi hanno assunto grande rilevanza geopolitica e, al tempo stesso, si sono dimostrati fondamentali per i trasporti ad alto valore aggiunto.

Il Canale di Suez, inaugurato nel 1869, mise in relazione due spazi marittimi come il Mediterraneo e i mari costieri dell’Africa e dell’Asia. Questi ultimi, già intensamente trafficati, necessitavano di un collegamento diretto e breve in luogo della circumnavigazione della massa continentale africana.

L’apertura di Panama andava a completare lo scacchiere delle rotte mercantili oceaniche che in tal modo poteva offrire due passaggi: uno a Ovest, tra gli Oceani Indiano e Atlantico, attraversando Mar Rosso e Mediterraneo, l’altro a Est, tra gli Oceani Indiano e Pacifico, attraversando il Mare dei Caraibi.

Questo studio mira a dimostrare come il transito attraverso i due Canali risulti conveniente per gli operatori del trasporto, nonostante la presenza di altre opzioni rappresentate sia da rotte marittime, che da itinerari terrestri. Inoltre, la chiusura di queste vie d’acqua, causando gravi rallentamenti negli scambi tra i Paesi, comporterebbe il ripensamento della moderna architettura del commercio internazionale e dei sui flussi.

Il metodo di indagine utilizzato nelle presente ricerca ha fatto riferimento a studiosi che in passato hanno trattato l’argomento. Meritano una menzione particolare: André Siegfried, fondatore della geopolitica interna, che ha analizzato il transito nei Canali di Suez e Panama dalle origini fino al secondo dopoguerra; André Vigarié, geografo francese, che ha approfondito il ruolo delle due rotte fino alla fine degli anni Sessanta; Adalberto Vallega, per le funzioni che hanno esercitato i Canali anche fino ai nostri giorni, nonché per il contributo sull’evoluzione della cantieristica navale fino alla seconda metà degli anni Novanta.

Tali studi, hanno costituito le fondamenta su cui impostare e ampliare il progetto di ricerca. Senza un’accurata conoscenza delle caratteristiche delle principali navi che solcano gli oceani, l’analisi non poteva essere portata a compimento. Altrettanto importante era una conoscenza approfondita di come avviene la navigazione marittima e di quali rotte vengono maggiormente battute dai mercantili impegnati nel trasporto di differenti tipi di merci.

La ricerca si è avvalsa dell’ausilio di quotidiani economici, delle principali riviste di geopolitica, come pure dell’ormai indispensabile strumento informatico. Per quanto riguarda la consultazione in rete, occorre ricordare i siti internet delle autorità che si occupano della gestione dei Canali cioè l’Autorità del Canale di Suez (SCA) e l’Autorità del Canale di Panama, rispettivamente per Suez e Panama.

Inoltre, le informazioni messe a disposizione dalle maggiori riviste marittime specializzate oltre che, dalle più grandi compagnie marittime.

Il presente lavoro inizia con un breve excursus storico che, partendo dalla costruzione dei due Canali, ne mette in luce le differenze dato che, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, le due vie di comunicazione hanno ben poco in comune, distinguendosi per dimensioni, accessibilità e metodo di attraversamento.

Il primo capitolo fornisce, inoltre, una disamina sul ruolo esercitato dagli Stati coinvolti nella realizzazione e successivamente nella gestione dei Canali, la Francia e l’Inghilterra nel caso di Suez, gli Stati Uniti in quello di Panama. Nel secondo capitolo viene descritto il trasferimento di merci che ha interessato i Canali e la nazionalità delle navi che maggiormente vi hanno transitato dall’apertura fino ai nostri giorni.

Si espone, inoltre, la distanza tra i porti più trafficati, nonché i risparmi di tempo consentiti dall’attraversamento dei Canali. Nel corso dell’esposizione si da conto anche dell’evoluzione che ha contraddistinto il trasporto marittimo. In particolare, vengono tracciati gli sviluppi della cantieristica navale, fornendo puntuali informazioni sulle caratteristiche delle navi adibite al trasporto sia di container, sia di rinfuse.

Il terzo capitolo evidenzia quale può essere l’avvenire di Panama e di Suez, analizzando le “sfide” che attendono le due vie di comunicazione all’alba del XXI secolo. Pertanto, si affronta il tema di un’eventuale chiusura dei Canali e di cosa essa potrebbe comportare. A tal proposito, vengono formulate delle ipotesi anche alla luce delle recente crisi politica egiziana e dei sui futuri sviluppi.

In tale contesto vengono altresì analizzate: le rotte alternative che si pongono in competizione con i Canali; il fenomeno della pirateria marittima che rischia di provocare tensioni e insicurezze nei trasporti marittimi.

In complesso, si tenta di dare una risposta al quesito che un numero sempre maggiore di esperti e analisti si pone e cioè se le rotte di Suez e Panama riusciranno a mantenere invariata la loro valenza geoeconomica anche in futuro.

Tale ricerca si conclude descrivendo i piani di ampliamento che hanno riguardato i due Canali dalla loro apertura fino ai nostri giorni. Anche sotto questo aspetto persistono differenze tra le due rotte. Il Canale di Suez è stato più volte oggetto di programmi di sviluppo con l’obiettivo di attrarre flussi di traffico serviti da navi di portata elevata.

La via marittima egiziana ha dunque dimostrato sempre una certa adattabilità alle mutevoli esigenze del commercio internazionale. Al contrario, il Canale di Panama non era mai stato ampliato fino al progetto attualmente in corso che sarà ultimato nel 2014 e che ne incrementerà l’accessibilità.

Pertanto nel caso di Panama è stata la cantieristica navale a doversi adattare alle dimensioni del Canale con la costruzione di unità naviganti di una certa stazza progettate per transitare lungo questa via.
Conclusioni
Al termine di questo studio può essere utile ricordarne brevemente i punti salienti. Nel corso dell’analisi, è stata evidenziata l’importanza che i Canali di Suez e Panama ricoprono nella navigazione marittima.

Inoltre, si sono poste in luce le notevoli differenze che contraddistinguono le due rotte e la circostanza che queste vie d’acqua hanno in comune soltanto una caratteristica: il fatto di mettere in relazione spazi marittimi come, l’Oceano Indiano e Atlantico nel caso di Suez e l’Oceano Atlantico e Pacifico nel caso di Panama, altrimenti separati dalla terraferma.

Il transito attraverso i due passaggi artificiali permettendo di bypassare le rotte attorno al Capo di Buona Speranza e Capo Horn, consente di risparmiare rispettivamente seimila e ottomila miglia nautiche. Alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX, ciò ha rappresentato una sorta di rivoluzione del trasporto marittimo.

La navigazione a vapore, ad esempio, ha subìto un notevole impulso dopo la costruzione del Canale di Suez rimpiazzando il ruolo ricoperto fino a quel momento dalle imbarcazioni a vela.

A distanza di tempo dalla realizzazione la valenza strategica ed economica dei Canali di Suez e di Panama non accenna a diminuire. Lo dimostrano le statistiche sui transiti che anno dopo anno segnalano un trend positivo.

Al fine di eseguire una ricerca esaustiva, si è dato conto delle dinamiche e dei fattori che rischiano di deviare altrove i traffici mercantili. In primo luogo, sono state analizzate le rotte concorrenti rappresentate sia da nuovi itinerari marittimi sia da percorsi e condotte terrestri. In particolare, si è fatto riferimento alle rotte commerciali che si renderanno praticabili a causa dello scioglimento dei ghiacci nell’Emisfero Nord, nonché ai landbridge ferroviari e alle pipelines.

Queste alternative, ampliando lo spettro delle opzioni cui possono ricorrere gli operatori del trasporto, possono entrare in competizione con il servizio offerto dai Canali. Tuttavia, anche per le vie di comunicazione concorrenti subentrano delle complicazioni che le rendono meno attrattive.

Le rotte Artiche non sono pienamente accessibili alla navigazione commerciale per due motivi: sono transitabili per dodici mesi all’anno soltanto con l’assistenza di navi rompighiaccio; permangono numerose situazioni di incertezza sullo status giuridico del Polo Nord. I landbridge o “ponti terrestri” possono fare concorrenza ai Canali soltanto nei traffici containerizzati. Inoltre, il costo di questi ultimi servizi è lievitato a causa degli aumenti tariffari imposti dagli operatori ferroviari.

Per quanto concerne le pipelines, piuttosto che entrare in competizione con le rotte di Suez e Panama, svolgono una funzione complementare nel trasporto di idrocarburi.

In secondo luogo, è stato analizzato il fenomeno della pirateria marittima mettendo in luce i problemi che può provocare ai transiti navali nelle acque antistanti i Canali. Nel corso dell’indagine è emerso che i costi per la protezione dei traffici marittimi, pur costituendo un onere non indifferente per la comunità internazionale, siano comunque minori rispetto alla scelta di tragitti alternativi che comportano un allungamento del percorso.

Ciò è dimostrato dal fatto che le più grandi compagnie armatrici continuano a preferire le rotte di Suez e Panama. Inoltre, anche la maggior parte degli analisti è concorde nel sostenere che i danni inflitti dalla pirateria ai flussi commerciali non abbiano ripercussioni considerevoli sull’economia mondiale.

In terzo luogo sono stati descritti i progetti di ampliamento che hanno riguardato le due rotte. Il Canale di Suez è stato potenziato diverse volte nel corso degli anni, adattandosi ai cambiamenti intervenuti nel trasporto marittimo sempre più indirizzato all’utilizzo di navi di elevata portata.

Il caso si Panama è molto diverso. La sua accessibilità si è limitata a vettori con portata fino a 40 mila tonnellate di stazza lorda, per navi convenzionali, e fino a quasi 80 mila tpl per navi Panamax, cioè progettate per passare lungo questa rotta. In questo caso, è stata la navigazione commerciale a doversi adeguare alle dimensioni della via d’acqua.

Tuttavia, le tendenze evolutive dei traffici marittimi hanno determinato la necessità di incrementare la capacità del Canale che ha anche raggiunto una fase di saturazione in termini di numero di imbarcazioni che possono attraversalo in una determinata unità di tempo. Pertanto, nel 2006, la Repubblica di Panama ha approvato il referendum indetto dall’Autorità del Canale di Panama per il progetto di ampliamento del Canale, da realizzarsi nel periodo 2007-2014.

Tutto ciò evidenzia come le rotte di Suez e Panama hanno saputo fronteggiare problemi e dinamiche che rischiavano di affievolirne l’importanza.

Lo studio è stato arricchito dall’inserimento di uno scenario futuro volto a immaginare cosa succederebbe se chiudessero i Canali. Si tratta di semplici ipotesi che non hanno alcuna presunzione di esattezza visto l’elevato numero delle variabili in gioco che possono imprimere alla condizione attuale corsi improvvisi e svolte inaspettate.

Questo argomento ha preso le mosse dalle proteste popolari nel Nord Africa e nel Medio Oriente tutt’ora in corso e che hanno coinvolto anche l’Egitto, la cui situazione politica sembra essere legata alle elezioni parlamentari e presidenziali che avranno luogo nei prossimi mesi.

L’indagine, tuttavia, per quanto dettagliata e ben documentata, richiederebbe uno studio direttamente sui luoghi oggetto di ricerca. Si propone, inoltre, come spunto per un’eventuale ricerca futura che si ponga in linea di sostanziale continuità con il presente lavoro, lo studio degli altri choke points maggiormente coinvolti nel traffico navale mondiale .

In conclusione, si può affermare che i Canali di Suez e Panama rappresentano ancora oggi due rotte mercantili fondamentali per gli scambi di beni che avvengono ogni giorno tra gli spazi marittimi più disparati. La situazione commerciale delle aree localizzate nei pressi dei Canali può essere osservata a partire dalle statistiche e dai dati che riguardano le due vie d’acqua, una sorta di “cartina tornasole” della situazione economica internazionale.

Avviso ai Fattorelliani DOC – 2011

Bentornati a tutti ad una serena vita post-feriale!

Anche se ci vorrà tempo per recuperare appieno ed eliminare lo ”stress delle vacanze”, dobbiamo tuttavia essere operativi ed onorare i nostri impegni.

Il prof Ragnetti ha accolto di buon grado la vs proposta di effettuare un modulo di “formazione intensiva”. E allora il prof sarà a Santa Marinella dal pomeriggio di venerdì 23 fino alla sera di domenica 25 settembre, per affrontare interessanti argomenti di studio e di riflessione e condividere il piacere di stare insieme.

Vi preghiamo di segnalarci con la massima urgenza la vostra disponibilità e, se necessario, di richiederci qualsiasi chiarimento.

La partecipazione all’incontro è a titolo completamente gratuito, mentre sono a carico dei partecipanti le modeste spese di soggiorno presso la Casa per ferie Mater Gratiae

In attesa delle vostre risposte, un caro saluto a tutti voi ed un arrivederci a presto!

Cambia i pensieri e cambierai il mondo, cambia il linguaggio e cambierai i pensieri: rigore linguistico o torre di Babele ?

Università degli Studi “Carlo Bo” Urbino
Laurea Specialistica in Editoria Media e Giornalismo
Esame di “TECNICHE DI RELAZIONE”
Prof. Giuseppe Ragnetti
Elaborato scritto di: Valentina Volpini
Anno Accademico 2009-2010

CAMBIA I PENSIERI E CAMBIERAI IL MONDO, CAMBIA IL LINGUAGGIO E CAMBIERAI I PENSIERI: RIGORE LINGUISTICO O TORRE DI BABELE?

Partiamo da un concetto, quello di cultura. Esistono diverse accezioni di questo termine, a seconda che ci si riferisca al suo rapporto con la natura, con l’educazione, con la civiltà, con la società. Forse scegliere quest’ultima accezione può essere più utile ai fini di un discorso generale. Da un punto di vista sociologico la cultura viene definita come l’insieme della produzione spirituale e materiale di una certa entità sociale.

Ogni società ha una propria cultura, intesa come l’insieme dei modi di vita che contraddistinguono quella società o un gruppo sociale determinato, e che questi riconoscono come proprio e tramandano di generazione in generazione: valori, norme, usanze, credenze, istituzioni, prodotti artistici ecc. La condivisione di tali elementi è il risultato di un processo che si svolge gradualmente nel tempo, e si articola in un’ assimilazione di opinioni, che si cristallizzano e si stabilizzano.

E’ questa caratteristica a rendere difficile la modificazione della cultura di una società. Così come la cultura, anche la visione del mondo di un soggetto, è frutto di una sedimentazione, avvenuta gradualmente, cominciata nell’ambito familiare, proseguita attraverso l’educazione ricevuta e consolidatasi nel tempo. Difficilmente un soggetto rinuncia alla propria opinione, al proprio pensiero sul mondo.

E’ pur vero, che un individuo, nella realtà attuale, si trova immerso in una rete di rapporti di informazione, ed è soggetto quindi a un notevolissimo numero di formule d’opinione diverse che riceve da altrettanti soggetti promotori, valutando poi se adottare tali opinioni o rifiutarle.

Se agendo da soggetto recettore, l’individuo decide di adottare la formula d’opinione che ha ricevuto e quindi di dare la sua adesione d’opinione, dal punto di vista del soggetto promotore che ha messo in moto il rapporto d’informazione, si può parlare di comunicazione; se non c’è adesione d’opinione, la comunicazione non avviene.

Affinché avvenga la comunicazione, affinché cioè il rapporto di informazione vada a buon fine, bisogna considerare il condizionamento reciproco degli elementi di tale rapporto.

x) M
Sp Sr
O

Il fatto, la notizia, l’evento, il motivo per cui viene iniziato un rapporto di informazione (x), condiziona innanzi tutto le scelte del soggetto promotore (Sp). Egli sceglie il mezzo (M) con cui comunicare e configura il messaggio in base al soggetto recettore (Sr). Il mezzo impone al Sp di rispettare le proprie caratteristiche tecniche e al Sr di possedere certe facoltà per gestire tale mezzo. Inoltre la formula d’opinione (O) è messa in forma in un certo modo dal Sp, e condiziona la scelta del mezzo con cui essere comunicata.

Infine il Sr obbliga il Sp a conoscere le sue facoltà e ad adeguare di conseguenza la formula d’opinione e il mezzo. Un Sp quindi, nel mettere in atto un rapporto d’informazione, deve tener ben presente che il suo obiettivo è ottenere un’adesione d’opinione e che per riuscirci, non può prescindere dai condizionamenti interni.

Dunque è fondamentale il modo in cui viene portato avanti il rapporto comunicativo. Da ciò deriva che l’idea che un contenuto possa essere comunicato così come è nella mente del soggetto promotore è un’illusione; la formula d’opinione va adattata al recettore, affinché egli, prima di poter valutare se aderire o meno, possa comprenderla.

Uscendo per un attimo dalla teoria, possiamo verificare tale concetto in due ambiti importanti della vita sociale, entrambi appartenenti alla sfera del contingente, cioè alla sfera della tempestività, dell’immediatezza, dell’istantanea adesione d’opinione: l’informazione giornalistica e la propaganda politica. Nel primo caso, il problema si verifica nella difficoltà che molti lettori hanno nel comprendere il contenuto di un articolo, perché espresso con un linguaggio troppo complesso, spesso di tipo elitario che sfugge quindi all’universale comprensione dei lettori.

Un sintomo di tale disagio è ad esempio il fatto che molti dichiarano di preferire la free press al quotidiano acquistato, non solo per la gratuità ma soprattutto per il dispendio di energie che richiederebbe leggere un articolo su tale giornale. Nel caso della propaganda, il problema si riscontra nella diversa efficacia che la comunicazione politica ha nel momento del risultato elettorale. Infatti è innegabile che nella contemporaneità, la chiave per un risultato politico soddisfacente per un candidato o un partito, sta nell’efficacia della comunicazione.

Non si tratta, come si potrebbe pensare, di una questione di diffusione della propaganda attraverso i mezzi di comunicazione sociale, specialmente la televisione, ma spesso di una questione di linguaggio. Spesso i politici cadono in un grossolano errore, che è quello di non farsi capire dal proprio elettorato, al quale stanno chiedendo un’adesione d’opinione, da esprimere con l’istituto del voto.

Il promotore, nei processi contingenti, ha un tempo limitato per realizzare il suo scopo, per questo la sua formula d’opinione deve essere dotata di una notevole carica sociale, deve possedere un fattore di conformità, cioè la forza di raggiungere il recettore nella sua sensibilità, adeguandosi alla sua curiosità e ai suoi desideri. Appare dunque chiaro come il soggetto recettore debba avere un ruolo preminente nel rapporto di informazione. Una formula d’opinione, soprattutto in un rapporto da uno a molti, deve avere una caratteristica fondamentale, l’universale comprensibilità.

In questo senso risulta importante l’attenzione posta al linguaggio utilizzato, perché come detto in precedenza, il mezzo deve essere adeguato al recettore. Trascurare l’importanza di tali elementi comporta una situazione fallimentare.

Possiamo descriverla attingendo alla tradizione biblica. Come racconta l’Antico Testamento, dopo il diluvio universale i discendenti di Noè, stabilitisi nella regione del Sennaar, in Babilonia, vollero innalzare una torre tanto alta da raggiungere il cielo. Il Signore, adirato per la loro presunzione, li punì facendo parlare a ognuno un idioma diverso; prima la lingua era una sola, dopo quell’episodio gli uomini non si capirono più.

Contestualizzando, possiamo dire che se un promotore ha la presunzione di comunicare la propria idea, il proprio pensiero, utilizzando un linguaggio adatto alla propria soggettività, senza tener conto di chi riceverà tale messa in forma, realizza una situazione di incomunicabilità, una Babele, in cui ognuno porta avanti la propria opinione, senza che gli altri membri della comunità possano comprenderla.

All’estremo opposto, tuttavia, non bisogna pensare che si possa verificare automaticamente una totale e completa adesione all’opinione del promotore.

Questo sarebbe un caso limite, difficile da ottenere. Potrebbe essere la pretesa di un’impostazione ideologica, ma neanche nel caso di una pianificazione rigorosa del rapporto d’informazione, anche dal punto di vista del linguaggio, si può avere la certezza dell’adesione d’opinione del recettore. Egli infatti resta sempre e in ogni caso un soggetto opinante e assolutamente indipendente e insensibile a qualsiasi speranza di condizionamento da parte del promotore.

Come in molte altre cose, dunque, possiamo dire che la verità è a metà strada. Possiamo cioè dire che nella normalità, un rapporto d’informazione, correttamente pianificato rispettando tutti gli elementi in gioco, diventa un rapporto comunicativo se il Sr recepisce, attraverso il filtro della propria soggettività, la formula d’opinione trasmessa, vi aderisce, se ne appropria, e la comunica a sua volta, in qualità di Sp, ad altri Sr.

Questa considerazione permette di porre l’accento sulla reale condizione in cui si trovano i soggetti nella loro esperienza quotidiana. Non sono riparati all’interno di una bolla d’aria che li protegge, tutt’altro, ciascuno di noi è costantemente immerso in una rete fittissima di rapporti di informazione, contingenti e non, che costantemente trasmettono formule d’opinione diverse a ognuno di noi.

Possiamo riformulare dicendo che riceviamo e trasmettiamo visioni del mondo soggettive e frutto della nostra personale esperienza e acculturazione.

Allo stesso tempo, in quanto soggetti appartenenti a un gruppo o a una data società, possediamo una serie di opinioni cristallizzate e di valori che abbiamo ricevuto e assimilato attraverso rapporti di informazione non contingenti.

Possediamo una data cultura, che ci appartiene e che in generale condividiamo con gli altri membri della società. Possiamo vedere i vari gruppi-società, come un grande soggetto collettivo con una propria formula d’opinione, la propria cultura.

Come il singolo, anche il soggetto collettivo, difficilmente rinuncia alla propria personale visione del mondo e alla propria cultura, perché entrambe appartengono alla sfera del non contingente, sono il risultato di un processo graduale e lento, cristallizzato e consolidato. In questo senso possiamo facilmente comprendere l’estrema difficoltà, se non l’impossibilità, di cambiare tali visioni, tali pensieri sul mondo.

Tuttavia si potrebbe forse contrapporre a tale concetto un fatto che probabilmente molti di noi hanno spesso considerato inevitabile e cioè che ci siano dei comportamenti, diciamo pure delle idee, delle opinioni, delle mode, che attecchiscono fortemente nella società e si diffondono a largo spettro. Si tratta di formule d’opinione ben trasmesse? Oppure la responsabilità è la grande diffusione attraverso i mezzi di comunicazione?

A tal proposito bisogna mettere in gioco un altro elemento, che ha una fortissima rilevanza in tale fenomeno e cioè il conformismo sociale di ciascuno di noi, quel bisogno di essere simile a un gruppo per non correre il rischio di una esclusione dal gruppo stesso.

Tale fattore ha a che fare con le personali attitudini, con le proprie esigenze e sicuramente va considerato nella pianificazione di un rapporto di messa in forma, ma non ha a che fare con lo strumento, che resta sempre un tramite tra i due soggetti del rapporto ma non determina il risultato del rapporto.

A cosa serve tale considerazione? A sottolineare la diversa collocazione del discorso sulla cultura. In questo caso il fattore rilevante è l’aspetto non contingente, la dimensione temporale, riflessiva potremmo dire, che di sicuro non appartiene ai fenomeni definiti di informazione pubblicistica, il giornale, la propaganda, la pubblicità, nei quali invece è il conformismo ad avere possibilità d’azione.

Nel caso dei Pensieri sul mondo, della cultura come patrimonio, dei valori, andiamo a toccare non più la superficie del lago, ma la dimensione profonda, quasi nucleare, evidentemente difficile da raggiungere e solleticare.

Di conseguenza il sogno, se così vogliamo chiamarlo, o meglio il tortuoso cammino verso una modificazione dei pensieri e di conseguenza delle visioni del mondo, e quindi, per estensione del mondo stesso, non può prescindere da una lentissima e costante trasmissione di nuovi valori e credenze.

L’applicazione implicita della tecnica sociale nell’Antropologia

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

Corso di laurea in Editoria, Media e Giornalismo

ESAME DI TECNICHE DI RELAZIONE
PROF. GIUSEPPE RAGNETTI

Stud. MARTINA CELEGATO
Anno acc. 2009/2010

L’APPLICAZIONE IMPLICITA DELLA TECNICA SOCIALE NELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE

1. La nascita dell’antropologia culturale

L’antropologia (come dice la stessa etimologia greca della parola ànthropos = “uomo” e lògos = nel senso di “studio”) è attualmente una disciplina sociale che si configura all’interno del grande insieme delle scienze umane in due grandi ramificazioni: da un lato quella culturale che più si concentra nello studio delle reti sociali, dei comportamenti, degli usi e costumi, degli schemi di parentela, delle leggi e istituzioni politiche, dell’ideologia, delle religioni e credenze, degli schemi di comportamento nella produzione e nel consumo dei beni e negli scambi e nelle altre espressioni culturali; dall’altro lato quella fisica o biologica, per così dire più “antica”, che studia l’evoluzione delle caratteristiche fisiche degli esseri umani, la genetica delle popolazioni e le basi biologiche dei comportamenti della specie umana e dei suoi parenti più stretti, le grandi scimmie (primatologia).

Con l’avvento dell’Illuminismo iniziarono gli studi sistematici della specie umana, studi che diedero vita alla cosiddetta corrente fisica o biologica dell’antropologia che quindi in questo periodo si caratterizza più come vera e propria scienza che come disciplina sociale.

Questo periodo, per così dire “fisico” dell’antropologia sarà un grosso limite per lo sviluppo della disciplina soprattutto perché verrà ripreso nel XX secolo, precisamente in Italia.

Non è comunque un caso che l’antropologia si sviluppi proprio durante questo periodo. Questo infatti è il periodo delle grandi colonizzazioni, i periodo in cui i grandi stati europei si stanziano in zone quali l’India, l’Africa e le Americhe. Ma questo è anche il periodo in cui le teorie evoluzioniste di Darwin, dopo un breve periodo di titubanza, vedono il loro massimo splendore e vengono applicate non solo al campo della biologia ma anche a quello umano e sociale.

L’antropologia culturale, come oggi la intendiamo noi, nasce ufficialmente nel ‘800, principalmente in Gran Bretagna per mano di Edward Tylor e Lewis Henry Morgan, e apporta grandi variazioni alla cosiddetta antropologia fisica anche se ne mantiene ancora alcune caratteristiche.

Questa antropologia, giustamente nei manuali definita etnologia, è ancora fortemente caratterizzata da una relazione indiretta e interposta dell’antropologo con le società considerate “altre”: infatti non era l’antropologo che si occupava di analizzare direttamente queste società, ma al contrario questo veniva fatto da un etnografo (spesso semplici mozzi di navi che si dirigevano in terre lontane) il cui compito era quello di raccogliere più informazioni possibili osservando questi popoli e dialogando con chi ne era venuto a contatto.

Questi taccuini venivano poi recapitati al cosiddetto antropologo che rielaborava le informazioni riportate. Questo dava quindi alla disciplina un taglio fortemente autoritario e semplicistico nel senso che ovviamente l’antropologo non poteva cogliere le sottili sfaccettature delle nuove realtà sociali, ma, per forza di cose doveva limitarsi a un giudizio fermo e distaccato.

Non bisogna comunque dimenticare che un importante fattore politico in influenzava queste ricerche cioè quello del colonialismo, che si doveva tutelare al fine di tutelare altresì il proprio lavoro. Quindi nonostante queste ricerche dal punto di vista della disciplina abbiano un valore abbastanza limitato o quasi nullo, all’interno del loro contesto storico-sociale rappresentano una forma di innovazione che non può passare inosservata.

Già con l’avvento del Romanticismo la visione di queste società “altre” viene valorizzato dal punto di vista della formazione sociale, anche se il forte limite di questa tradizione, sebbene totalmente opposto a quello precedente, è quello di creare il mito del selvaggio, dell’opposizione natura-cultura, che se da un lato è importante per rimuovere il senso di superiorità proprio dell’Occidentale e della sua tradizione sociale, da un lato ne limita le ricerche più strutturali e mirate.

Nel XX secolo gli antropologi per la maggior parte rifiutarono la concezione secondo la quale tutte le società umane dovrebbero passare attraverso tutti gli stadi di sviluppo nello stesso ordine, quindi la teoria Darwiniana applicata alla società, e dalle ceneri di questa tradizione nacquero le due più grandi teorie antropologiche destinate a stravolgere la storia e le modalità della stessa: lo strutturalismo francese di Claude Levi-Strauss e il funzionalismo inglese della Scuola di Manchester e di Bronislaw Malinowski.
Con queste due correnti culturali infatti nasce la concezione dell’antropologia ancorata alla realtà che no può essere descritta per così dire “a distanza” ma deve essere guardata e testata.

Tutti questi antropologi infatti scrivono i loro testi e traggono le loro conclusioni solo ed esclusivamente dopo aver passato un periodo più o meno lungo a contatto diretto con le società considerate “altre” ( Levi- Strauss nei Tropici e nell’Amazzonia, Malinowski nelle Isole Trobriand….).

Proprio grazie alla “discesa in campo” diretta degli antropologi nasce quella che oggi è considerata la caratteristica principale e peculiare della ricerca antropologica: l’osservazione partecipante. Questa tecnica di ricerca è fondata sull’osservazione appunto delle società, delle tradizioni e delle relazioni con l’antropologo che si pone a diretto contatto con esse, chiedendo informazioni, interagendo con i soggetti e a volte provando sulla sua stessa pelle alcune esperienze più difficili da descrivere.

2. il passaggio dell’antropologia da informazione non contingente riconosciuta a informazione contingente

Come già detto tracciando brevemente la storia dell’antropologia nel paragrafo precedente essa è nata come una ramificazione principalmente della sociologia e più in generale delle discipline sociali.

Come tale l’antropologia intesa, come del resto tutte le discipline sociali alla loro nascita, si può dire quindi venga definita come una disciplina non contingente, statica, da insegnare così come si propone sulle basi etnografiche e porta insita in sé stessa tutte le caratteristiche dell’informazione non contingente cioè:

• La materia, cioè le ricerche e le informazioni etnografiche sono cristallizzate;

• Non ha limiti di tempo, le ricerche necessitano di tempi lunghi sia di stesura che di rielaborazione;

• Le novità non sono frequenti e comunque non manomettono le caratteristiche principali del corpus di teorie;

• Il promotore delle teorie è comunque un antropologo o etnografo ben qualificato con una certa fama all’interno del suo ambito scientifico e politico di appartenenza;

• Il recettore di tali informazioni è solitamente un soggetto qualificato alla ricezione di tali nozioni, l’etnografia non è soggetta a divulgazione popolare;

• Il contenuto è specifico e non generalizzabile (l’analisi di determinate popolazioni no è espandibile ad altre)

• Si basa sull’esistenza di determinati processi logici razionali e valori già esistenti all’interno della comunità scientifica,

• Vi sono degli strumenti e delle tecniche che vengono utilizzate solo ed esclusivamente per queste ricerche e per la conferma di queste teorie,

• È bilaterale nel senso che le teorie possono essere ampliate o approfondite con nuove ricerche senza però variarne il senso principale.

Come si può facilmente dedurre con le nuove scoperte sociali da parte di tutte le discipline che si occupano di tale argomento un’impostazione così rigida e precostituita non è certamente accettabile, infatti dalle impostazioni di Bronislaw Malinowski in poi l’antropologia, assumendo consapevolezza dei suoi limiti e delle sue insite potenzialità, si pone in un’ottica meno storicistica e più contingente, coordinandosi ( e non subordinandosi) alle altre discipline sociali, quindi ponendosi i un’ottica più contingente.

Quindi vi è un passaggio formale da informazione non contingente riconosciuta a informazione contingente:

• La materia, cioè gli studi e le ricerche sono i continua variazione cioè possono cambiare di volta in volta, approfondendo peculiari caratteristiche;

• Vi sono dei limiti di tempo dettati dall’ambiente accademico e soprattutto dalla consapevolezza della sempre più rapida dissoluzione delle società che si studiano;

• Vi sono frequenti novità, dovute soprattutto al fatto che le realtà sociali e culturali subiscono profonde e costanti variazioni;

• I promotori delle teorie non sono solo antropologi affermati ma nella maggior parte dei casi ricercatori o seguaci di determinate teorie;

• I ricettori oltre ad essere qualificati in materia sono anche i comuni studenti di qualsiasi facoltà umanistica (non è un caso infatti che vi sia un corso di antropologia culturale in pressoché tutte le lauree che confluiscono sotto la facoltà di lettere e filosofia);

• Si tenda di far in modo che il contenuto sia sempre più generalizzabile e applicabile a più società possibili;

• Qualsiasi teoria già esistente può essere confutata e rielaborata per una maggiore comprensione del fenomeno sociale;

• Sebbene vengano mantenuti gli strumenti “storici” della ricerca non si escludono totalmente altre tipologie di ricerca;

• Può essere un processo unilaterale, anche se in linea di massima si mantiene bilaterale.

In linea di massima si può dire che questi siano stati i maggiori cambiamenti riguardo alla disciplina antropologica anche se mi sento di sottolineare che, essendo una disciplina accademica, e in quanto tale fonte di insegnamento e apprendimento, alcune caratteristiche dell’informazione non contingente si mantengono, soprattutto nello studio della storia antropologica, ed è giusto che sia così, per non perdere l’autorevolezza che le è stata attribuita con tante difficoltà.

3. il rapporto “studioso-studiato” e le sue evoluzioni

Fino ad adesso ho volutamente trascurato il rapporto diretto dell’etnografo e successivamente dell’antropologo con le popolazioni e le culture che si pone ad analizzare.

Come prima infatti vi sono delle sostanziali differenze tra il primo periodo più etnografico e quello più spiccatamente antropologico. Nel periodo etnografico infatti si può vedere come, sia per l’influenza dell’evoluzionismo sia per una sorta di superiorità sociale insita nell’europeismo in sé, l’etnografo, e poi l’antropologo che rielabora le informazioni, si pongano con un certo distacco nei confronti delle popolazioni che si vanno a valutare.

“Il selvaggio”, sostantivo che viene spesso attribuito a queste popolazioni, viene visto come una sorta di cavia, di target da colpire, di soggetto senza capacità pensanti o volontà, atteggiamento questo che limita fortemente lo sviluppo di una disciplina sociale in senso lato, che ne minimizza gli sforzi e che soprattutto semplifica l’articolazione inevitabilmente. Il non-capire il soggetto con il quale si vuole fondare una teoria, il non-capire le motivazioni di determinate usanze o riti, li semplifica con mere descrizioni.

Nella seconda fase, cioè quella antropologica e soprattutto quella più contemporanea, al contrario, la considerazione del soggetto analizzato, il suo studio e soprattutto le sue esigenze sono state messe al centro di discussioni che sono tuttora vivaci e molto sentite all’interno della comunità accademica mondiale.

Attraverso le modalità dell’osservazione partecipante infatti quello che prima era catalogato come “selvaggio” ora viene considerato come “uomo”, “essere pensante” e le sue esigenze come tali vengono percepite e approfondite. Proprio con il metodo di indagine infatti i soggetti studiati vengono direttamente a contatto con gli studiosi, i quali tentano di capirne caratteristiche e necessità, per poter portare avanti una ricerca ricca di presupposti teorici come di conoscenze pratiche.

Si può quindi dire che proprio in questa fase vi è una comunicazione fattorellianamente intesa, con soggetto promotore e soggetto recettore che collaborano e formano un corpus di opinioni fondato e ricco.

Conclusioni

Nonostante la storia dell’antropologia sia ovviamente più ampia e articolata spero che le semplificazioni e la sintesi qui riportate siano abbastanza esaurienti da far capire l’importanza delle evoluzioni che sono avvenute al suo interno. La comprensione di tali cambiamenti è di vitale importanza per un approccio creativo e non solo passivo allo studio della disciplina stessa.

Il cambiamento radicale avvenuto ovviamente non è solo per la disciplina antropologica, ma coinvolge tutte le discipline sociali e la teoria della Tecnica sociale dell’informazione mi ha aiutato a palesare le sostanziali variazioni avvenute e che ancora stanno avvenendo. Inoltre mi ha aiutato a vedere come sia di primaria importanza la comprensione del recettore, o del soggetto “studiato” per poter dare il giusto ruolo a colui senza il quale non avrebbe senso parlare di “ricerca”.

Riferimenti Bibliografici
Fattorello, F. “ Teoria della tecnica sociale dell’informazione”, QuattroVenti, Urbino, 2005
Ragnetti, G. “Opinioni sull’opinione”, QuattroVenti, Urbino, 2006
Fabietti, U. “Storia dell’antropologia”, Zanichelli, Bologna, 2005 [2001]
Clifford, J. e Marcus G. E. (a cura di), Scrivere le culture: poetiche e politiche dell’antropologia, Meltemi, Roma, 1997 [1986].
Fabietti, U., Antropologia culturale: l’esperienza e l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 1999

“La Chimera dell’obiettività giornalistica”

 

Laurea specialistica in Editoria Media e Giornalismo – Università “Carlo Bo” Urbino

Esame di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe RAGNETTI

SOFIA ALBERTO presenta :

 

LA CHIMERA DELL’ OBIETTIVITA’ GIORNALISTICA

Si è soliti rivendicare nell’ambito degli studi sui mass media la pretesa di perseguire la ricerca dell’ “obiettività”, in particolare nel campo dell’informazione giornalistica. Si tratta di una tendenza radicata principalmente nelle scuole americane di giornalismo dove si porta avanti una netta distinzione tra news (fatti) e views (commenti), in nome dell’imparzialità e della trasparenza nel riferire le notizie.

In Italia invece il perseguimento dell’obiettività è indirizzo rivolto dal Parlamento all’azienda radiotelevisiva di stato (RAI), tanto che è stata istituita anche nel 1975 la Commissione di indirizzo e vigilanza dei servizi radiotelevisivi, organo bicamerale, teso appunto a controllare che i principi di imparzialità e obiettività, definiti “inderogabili”, siano appunto rispettati.

L’obiettività sta inoltre alla base della deontologia professionale del giornalista stesso.
Appare però necessario domandarsi se, effettivamente, sia possibile essere obiettivi.

Il fraintendimento nasce da un presupposto fondamentale : la notizia non è l’evento, ma la relazione di tale evento.
Informare significa infatti “dare forma” ad un fatto, “vestirlo”: il giornalista dà forma a ciò che intende trasmettere al proprio recettore ai fini del consenso.

Già l’americano Ivy Lee affermava negli anni ’20 come la trasformazione di un fatto in notizia sia il risultato di una selezione degli eventi della realtà. Nessuno era in grado secondo lo studioso di presentare la totalità dei fatti relativi ad un dato (s)oggetto.

Ciò che era possibile era solo offrire una visione personale, un’interpretazione dei fatti, influenzata da un insieme di fattori, background culturale e appartenenza sociale in primis.

Anche Fracassi affermava come il soggetto osservatore non sia in grado di riferire senza interferire: la notizia è una rappresentazione della realtà e come tale è sempre frutto d’incontro tra ciò che accade e colui che decide di raccontarlo.

La comunicazione quindi è relativa a proprietà non intrinseche all’oggetto di cui si parla, ma che dipendono dall’osservazione. Secondo tale teoria possiamo affermare come in realtà si parli di de-formazione e non di informazione, data dal punto di vista dell’osservatore nel momento in cui questi decide di descrivere la realtà.

Allo stesso modo l’informazione giornalistica non rispecchia, dunque, la realtà quanto, piuttosto, valorizza frammenti di realtà, che appaiono interessanti in base alle contestualizzazioni di natura culturale, politica, economica e sociale.
La regola aurea del giornalismo anglosassone era quella per cui la notizia appariva come “sacra”, mentre il commento facoltativo, oltre alla già citata separazione tra fatti ed opinioni.

Il mito di stampo positivista relativo alla possibilità di descrivere la “realtà in sé” appare però fin dagli studi di Karl Popper solo una chimera. A cadere è di conseguenza anche il costrutto giornalistico della priorità nella scala gerarchica dei fatti rispetto alle opinioni.

L’osservazione può essere infatti definita come un processo di esplorazione della realtà, che presuppone la selezione e l’interpretazione del soggetto osservante. Il costruttivismo poi illustra come sia impossibile affermare l’esistenza di una realtà oggettiva: ogni descrizione è inevitabilmente interpretazione, nel senso che il suo significato viene – almeno parzialmente – determinato dal background storico-culturale che i soggetti, i giornalisti nella fattispecie, possiedono.

A tali studi si aggiungeranno le riflessione dell’ Interazionismo Simbolico che giudica la realtà come una costruzione sociale.
preferiva parlare di paradigma. Nel momento in cui ci confrontiamo con persone dotate di schemi concettuali molto diversi dai nostri e che “leggono” la realtà in modo profondamente diverso da come la vediamo noi “occidentali del XXI secolo”, appare chiaro come non esista un’unica realtà, bensì un insieme di realtà, ognuna influenzata dalle diverse pratiche di osservazione.

E’ una concezione tipica del post-moderno, che tende ad eliminare e rifiutare ogni verità ed ordine precostituito e che valorizza invece il relativismo culturale, principio basilare per la democrazia, considerando che le visione totalizzanti sono tipiche dei regimi e delle dittature o, in generale, delle ideologie acritiche.

Partendo dal presupposto per cui non esiste una visione unica di realtà, allo stesso modo appare impensabile perseguire nel giornalismo la ricerca dell’obiettività.

Il giornalista non è obiettivo, e non perché non vuole, ma semplicemente perché non può; però ha un obiettivo: ottenere il consenso del recettore, perché senza consenso non c’è comunicazione.
L’uomo, sia esso uno scienziato, uno storico, un giornalista, non può uscire dalla propria soggettività: pertanto, coloro che credono di essere obiettivi, esprimono solo la loro verità.

Certo occorre non cadere nel nichilismo: relativismo significa ammettere la validità del pluralismo dei punti di vista e quindi dei differenti “modi di leggere il reale”. Occorre dunque distinguere tra giudizi di valore non ammessi (arbitrari) e giudizi di valore ammessi, cioè quelli che hanno un riscontro di coerenza nell’esperienza e che rendono conto dei valori presenti all’interno di quella data esperienza.

Il fenomeno dell’informazione, secondo la teoria della tecnica sociale dell’informazione di Francesco Fattorello, è il risultato di un processo del quale possiamo distinguere due fasi:

  • il rapporto tra il soggetto promotore e la forma che egli dà a ciò che è oggetto di informazione;
  • il rapporto tra il soggetto recettore e questa stessa forma che riceve per mezzo di uno strumento, ovvero l’adesione di opinione del recettore (consenso) alla “forma” che il promotore gli ha trasmesso.

Secondo questo modello, pertanto, non c’è posto per l’obiettività all’interno del rapporto di informazione. Ponendo al centro del processo di informazione i due soggetti con le stesse capacità opinanti, e considerando questo fenomeno come il risultato di due interpretazioni soggettive, possiamo affermare che l’obiettività, come pura e semplice aderenza ai fatti, come mera corrispondenza tra le notizie date dai mezzi d’informazione ed una supposta realtà esterna, non esiste. Anzi, si potrebbe sostenere che se l’obiettività esistesse si negherebbe l’informazione, dato che questa appare come l’incontro di due soggettività, di due formule di opinione.

Il giornalista che pretende di rincorrere l’obiettività mette invece in moto lo stesso meccanismo di fidelizzazione rispetto alle idee, credenze e convinzioni politiche, sociali, religiose. Non basta quindi nemmeno apprendere le diverse interpretazioni su un determinato fatto, in quanto ciò significa darne una visione, non obiettiva, ma pluralistica.

Il modello di Fattorello ci spiega il perché la descrizione di un fatto ci appaia obiettiva rispetto ad un’altra: la presunta “obiettività” sta nel fatto che il resoconto considerato “obiettivo”, ma che in realtà è di carattere soggettivo, in quanto coincide con la nostra opinione personale sul fatto.

Per questo è possibile concludere affermando come tutto il giornalismo sia in realtà parziale, non solo i quotidiani politici. E questo non significa affermare che il giornalismo non abbia alcuna funzione o sia specchio di una visione distorta o erronea della realtà.

Occorre infatti assumere come principio inderogabile il carattere relativo e costruzionistico della realtà. Solo così sarà possibile “informarsi” senza l’illusione di “possedere” la verità : ovviamente dipenderà dai singoli interessi/background/convinzioni socio-politiche e culturali, assumere come “propria” una determinata visione, ma partendo però dal presupposto che si legge solo una delle tante possibili ricostruzioni di un determinato evento e che sia comunque opportuno leggere diverse interpretazioni dello stesso fatto, non per ricercare una verità che appare probabilmente irraggiungibile, ma al fine di possedere delle alternative, valide o meno, di giudizio.

Ogni ricostruzione – o quasi – potrà così possedere i requisiti di veridicità, in quanto grazie all’ onestà intellettuale di chi scrive, il lettore saprà a priori che il fatto è stato costruito secondo la visione più obiettiva possibile, ovvero la propria!

SOFIA ALBERTO – Editoria, Media e Giornalismo, Anno 2009 – 2010

Testo di riferimento:
Francesco Fattorello, Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione, a cura di Giuseppe Ragnetti
Edizione QuattroVenti, Urbino 2005

La tesi del Fattorello

..ma chi l’ha detto che le BUONE NOTIZIE non fanno notizia?!?

Il prof. Giuseppe Ragnetti, Direttore dell’Istituto Fattorello ha il piacere di condividere con gli amici del nostro BLOG nella sezione “Le Tesine” la gioia di Daniela e Nicoletta per l’importante traguardo raggiunto. Entrambe fattorelliane doc, si sono brillantemente laureate all’Università la Sapienza di Roma.

DANIELA PATTA :

Laurea in “Economia, Finanza e Diritto per la gestione delle Imprese”

NICOLETTA BORIELLO :

Laurea Specialistica in “Ingegneria per l’ambiente e il Territorio”

L’Istituto Fattorello e il prof Ragnetti, ringraziano per i….ringraziamenti e per le parole di stima e apprezzamento che Nicoletta e Daniela hanno voluto riservare nella loro Tesi di Laurea, alla nostra piccola-grande Scuola di comunicazione. Per i cultori delle rispettive discipline e per i più curiosi, pubblichiamo una sintesi dei due apprezzati lavori, che troverete nella sezione ” Le TESINE”.

……e allora NON C’E’ DUE SENZA TRE!!!

Anche le buone notizie a volte ritornano…e dopo la Laurea di Daniela e Nicoletta , siamo lieto di comunicare “Urbi et Orbi” la felicissima conclusione del suo percorso di studi di un’altra appassionata fattorelliana.

LIDIA AVELLA, dopo aver inanellato ottimi risultati in tutti gli esami sostenuti, si è laureata in SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

Con la valutazione di: 110/110 e LODE

Titolo della Tesi: “Spettacolarizzazione e personalizzazione della Comunicazione politica.

Il ruolo dei media nell’affermazione della politica spettacolo.”

Relatore: Prof. Giuseppe Ragnetti

Siamo particolarmente orgogliosi del lavoro di Lidia Avella che è riuscita a presentare e sviluppare egregiamente alcuni aspetti salienti dell’impostazione teorica fattorelliana, sotto l’esperta guida del nostro Direttore, prof .Ragnetti, docente di “Tecniche relazionali e comunicative” al Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione.

E sempre per i più curiosi e per tutti gli interessati alle nostre discipline di studi, volentieri pubblichiamo sul nostro Blog “Le Tesine”, l’introduzione e le riflessioni conclusive della suddetta.

Spettacolarizzazione e personalizzazione della Comunicazione politica: riflessioni

Lidia Avella

SPETTACOLARIZZAZIONE E PERSONALIZZAZIONE DELLA COMUNICAZIONE POLITICA: RIFLESSIONI

Introduzione

La politica oggi ha ormai completamente cambiato la sua natura. Da luogo del dialogo, del confronto tra idee, dell’esposizione argomentata si è trasformata in spazio del consumo.

La comunicazione di massa ha imposto agli attori politici e al pubblico dei cittadini lo scenario dello spettacolo. Il ruolo della leadership è stato amplificato e la maggior parte delle élite politiche è selezionata con criteri che non hanno più nulla a che fare con le logiche politiche.

Tutto è iniziato nel XX secolo, quando si è avviato il processo di mediatizzazione della società e quindi parallelamente della politica.

Il ruolo primario di agenzia di socializzazione viene svolto dai media e non più dalle tradizionali agenzie come la famiglia, la scuola, la chiesa e il partito.

La politica dunque muta, diventando anche pettegolezzo, scandalo, spettacolo. Si arriva al punto in cui i media quotidianamente si comportano da intermediari fra il personaggio politico e il cittadino, interpretando ciò che l’opinione pubblica vuole sapere allo scopo di poter valutare l’idoneità di una persona a ricoprire cariche pubbliche.

La comunicazione politica allora non è più riferita solo al rapporto tra istituzioni, partiti, movimenti e cittadini, ma crea e veicola anche idee, conoscenze, gusti e stili di vita.

I media col passare del tempo, quindi, hanno prodotto una profonda modifica dei caratteri tradizionali della politica e dei partiti. I nuovi luoghi della deliberazione e della rappresentanza sono oggi esclusivamente gli stessi media. È ormai solo nel contesto mediale che le istituzioni, le forze politiche, i leader e i candidati comunicano tra di loro e con i cittadini-spettatori. I media rappresentano oggi la ribalta della scena politica.

In questo scenario i tre attori dello spazio pubblico, sistema dei media, sistema politico e cittadino elettore, sono così in una relazione asimmetrica e piramidale con al vertice proprio il sistema mediale.

Con la mia tesi mi propongo di analizzare in modo più profondo tutti questi cambiamenti che nella politica e nella sua comunicazione si sono avuti negli ultimi anni. In particolare ho osservato il peso dei media in questo percorso, cioè come il sistema mediale abbia accompagnato la trasformazione della politica fino allo stato attuale. Ho cercato di fare una sorta di punto della situazione, provando quindi a capire come la comunicazione politica sia cambiata e come si presenta oggi, ma soprattutto se questo cambiamento così decisivo abbia fatto bene o meno alla politica.

L’idea dell’argomento da affrontare è arrivata con la lettura del testo di Mazzoleni e Sfardini “La politica pop”. I due autori in questo libro approfondiscono la questione del mutamento della comunicazione politica in Italia e spiegano come questo sia un fenomeno nato in realtà ben oltre i nostri confini. Fanno chiarezza sulle nuove tipologie di programmi che appartengono ai neonati generi dell’infotainment e del politainment e le caratteristiche di ognuno.

Prendendo spunto da alcuni argomenti del libro, ho voluto approfondirne altri con la ricerca e lo studio di ulteriori testi e affidandomi al web. La mia guida scientifica e teorica è stato il testo di Mazzoleni “La comunicazione politica”, mentre confesso di aver riso e di essermi a volte stupita leggendo “Il teatrone della politica” di Ceccarelli.

La lettura dei primi libri mi ha permesso di capire cosa approfondire e quanto sarebbe stato utile inserire nella mia tesi esempi concreti.

Così il mio lavoro ha preso forma, ho analizzato le domande a cui volevo dare una risposta e ho fissato i miei obbiettivi.
Ho cominciato con l’affrontare i concetti di base nel primo capitolo, in cui spiego il fenomeno della mediatizzazione, ovvero i cambiamenti che l’avvento e l’affermazione dei media hanno portato nella comunicazione, e in quella politica in modo particolare. Ho citato autori come Altheide e Snow, che ben spiegano come sia stata per lo più la logica politica ad adeguarsi a quella dei media, e non viceversa.

Ho approfondito con maggiore attenzione il ruolo della televisione in questo processo di cambiamento della comunicazione politica, poiché tra i vari vecchi e nuovi media è il mezzo di comunicazione principale nel nostro Paese, il punto di riferimento informativo per i cittadini italiani. La televisione ha cambiato molto il mondo politico, tanto che ormai la politica dell’era televisiva è molto diversa rispetto a quella del passato.

Ho analizzato poi i principali effetti della mediatizzazione, distinti in effetti mediatici, che riguardano gli aspetti mediali della comunicazione politica (effetto di tematizzazione, effetto di spettacolarizzazione ed effetto di frammentazione del discorso politico) ed effetti politici, che riguardano più propriamente il sistema politico (effetto di personalizzazione, effetto di leaderizzazione, effetto di selezione delle élite politiche).

In questa descrizione ho rivolto la mia attenzione specialmente alla spettacolarizzazione e personalizzazione del discorso politico, che rappresentano il fulcro della mia tesi, essendo gli effetti che attirano oggi maggiormente l’attenzione degli addetti ai lavori e non solo.

La spettacolarizzazione della politica è fonte continua di critiche e sdegno da parte dei cittadini, così come la sua personalizzazione ha portato effetti rilevanti nel modo di comunicare la politica stessa.

Ho proposto infine una descrizione del principale esempio di questo cambiamento della politica italiana, da molti considerato l’artefice dei mutamenti avvenuti nel nostro scenario politico: Silvio Berlusconi.

Ho voluto sottolineare come il Cavaliere sia il culmine dei cambiamenti analizzati, come la sua comunicazione abbia saputo, per l’Italia, precorrere i tempi, come essendo un buon conoscitore del mondo dello spettacolo sia stato il primo ad adattare alle sue logiche anche il discorso politico, riuscendo evidentemente nell’intento e accaparrandosi il favore di molti elettori. Ho raccontato dunque alcune delle principali trovate da lui messe in atto e alcuni aspetti del suo marketing politico.

Nel secondo capitolo ho cercato di mettere ordine tra i concetti che si usano parlando di questa svolta popolare della politica, appunto spettacolarizzata e personalizzata. Ho introdotto così i termini infotainment, politainment e soft news, elencando le varianti di questi nuovi generi di informazione-intrattenimento e proponendo alcuni esempi di programmi del palinsesto italiano che appartengono all’uno o all’altro genere.

Ho poi descritto e analizzato il programma che è a mio parere il miglior esempio di come si affronti oggi la politica in TV, ovvero Porta a Porta di Bruno Vespa. Dopo aver descritto il programma, spiegato i suoi punti forti e le critiche rivolte alla trasmissione e al suo conduttore, ho raccontato alcuni rilevanti episodi andati in onda che mescolano bene politica e spettacolo.

Infine il terzo ed ultimo capitolo è dedicato ad un argomento che molto mi ha appassionata.

Quello che ho cercato di capire è se tutti questi cambiamenti avvenuti nella comunicazione politica abbiano modificato la partecipazione dei cittadini alle questioni di interesse pubblico.

Ho aperto il capitolo parlando di quanto sia solo un’utopia oggi l’ideale del cittadino ben informato, che conosce in modo profondo la politica e vi partecipa attivamente. Ho spiegato come il modo di informarsi sia cambiato e come l’informazione non possa più prescindere dai media.

Ho poi descritto le due opposte posizioni degli studiosi rispetto alla questione. Ovvero quella degli ottimisti, sostenitori della teoria del circolo virtuoso, che considerano i media, pur con alcuni limiti, capaci di informare i cittadini, e non solo. Infatti i media eserciterebbero anche un effetto di mobilitazione poiché stimolano l’interesse e la curiosità dei cittadini nei confronti della politica.

La tesi opposta è quella del video malaise, sostenuta invece dai pessimisti. Questa ritiene che i mass media non aiutino la conoscenza, anzi al contrario sono addirittura strumenti di cattiva informazione. In particolare le accuse sono rivolte alla televisione, che ha reso il cittadino spettatore passivo della politica.

Secondo questa tesi la politica “pop” non fa altro che aumentare la sfiducia e lo sdegno del cittadino verso il mondo politico, visto sempre più come un teatro fatto di personaggi, di litigi e risse, di apparenza e di poca sostanza.

Ho poi analizzato un punto di vista intermedio, ovvero quello della teoria del cittadino vigile.

Si parla cioè di un cittadino che seppur distratto dalle proprio cose, non appassionato alla politica e spesso non ben informato, è attento e vigile, appunto, sulle questioni che lo toccano da vicino ed è capace di attivarsi su quelle questioni che per lui contano. Insomma nonostante il cittadino si dedichi in gran parte alla visione di programmi politici leggeri e scanzonati, secondo questo orientamento, può ancora essere pienamente “cittadino”.

Ho proposto infine un ultimo spunto di riflessione sulle qualità civiche che secondo alcuni avrebbe la comunicazione politica così cambiata. Grazie all’infotainment, al politainment e alle soft news, la politica oggi è addirittura più vicina ai cittadini, poiché non appartiene più ad un mondo lontano e separato, ma entra sempre con più facilità nella loro vita quotidiana.

Così anche i programmi di puro intrattenimento come i reality show possono svolgere una funzione pubblica, rappresentando e insegnando aspetti della cittadinanza contemporanea a vasti ed eterogenei pubblici. E le soft news, dal canto loro, riescono a far arrivare le informazioni su problemi politici importanti anche a pubblici poco inclini a seguire i TG o i programmi di approfondimento.

Arrivo quindi alle mie conclusioni, in cui tiro le somme del mio lavoro e esprimo le mie considerazioni e riflessioni, guardando soprattutto alla Teoria della Tecnica sociale dell’informazione di Francesco Fattorello.

Conclusione

Appare evidente dal mio lavoro che la politica e la sua comunicazione abbiano subito rilevanti cambiamenti e questo, come detto, è un fenomeno che caratterizza in maniera piuttosto omogenea tutto il mondo occidentale.

Dopo i discorsi affrontati nei precedenti capitoli, voglio dare spazio ad un’ultima importante riflessione, partendo dal contesto italiano, ma che vale in generale per i temi trattati.

Da quando in Italia nel 1994 Berlusconi è entrato nel mondo politico il mutamento ha avuto inizio. È cambiato innanzitutto il concetto di elettore, che pian piano è stato uniformato a quello di consumatore, con importanti conseguenze.

Berlusconi per primo ha infatti impostato il suo movimento politico su una serie di valori e contenuti che ha presentato agli elettori come merce da acquistare. Agendo come un’azienda, il neonato movimento propone il proprio prodotto esaltandone i vantaggi, rispetto alla concorrenza, per gli elettori e per il sistema generale.

La strategia di Berlusconi è stata chiara fin dall’inizio. Ha organizzato il suo partito utilizzando principalmente le strutture aziendali dedicate alla vendita di spazi pubblicitari che già usava per le sue reti televisive e affidandosi a politiche di marketing mirate, che provenivano chiaramente dal mondo aziendale.

Questa strategia del Cavaliere ha iniziato il cambiamento della politica italiana di cui abbiamo discusso, visto che dal momento del suo arrivo sulla scena politica e dalla sua successiva vittoria elettorale, tutte le altre parti politiche hanno dovuto fare i conti con un tipo di strategia totalmente diversa rispetto al passato. E soprattutto vi si sono dovute adattare.

Quindi anche la controparte ha cominciato a confrontarsi in modo diverso con gli elettori e quindi a considerarli come potenziali clienti, come consumatori. Si è giunti così al punto estremo: la politica è diventata una merce da vendere e i partiti-aziende riempiono di vantaggi il proprio prodotto tentando di convincere i consumatori-elettori ad acquistarlo.

Partiamo da queste considerazioni e analizziamo il fenomeno tenendo presente la Teoria della tecnica sociale dell’informazione di Francesco Fattorello per capire soprattutto quali siano gli effetti sulla politica.

La teoria parte dal presupposto che ci siano due tipi informazione, quella contingente e quella non contingente. Ognuna delle quali ha propri mezzi per essere comunicata, diversi tra loro e adatti a differenti scopi.

L’informazione contingente è quella legata al presente e all’attualità. È l’informazione che soddisfa l’urgenza, la tempestività, è pensata per l’oggi, e si esaurisce nella quotidianità. Si avvale di stereotipi per ottenere una rapida e tempestiva adesione di opinione, ovvero condivisione del messaggio che si vuole trasmettere.

L’informazione contingente è tipicamente l’informazione giornalistica, quindi sia scritta che radio-televisiva. Ma anche più in generale si fa riferimento all’informazione pubblicistica, compresa quindi la pubblicità.

L’informazione non contingente al contrario non ha esigenze di tempestività e di urgenza.

Si preoccupa di rispettare i valori che sono volti a formare attitudini profonde. È un’informazione praticata per il domani e soprattutto da vita ad opinioni cristallizzate e largamente condivise, al contrario dell’informazione contingente che da vita ad opinioni anch’esse contingenti.

L’informazione non contingente è quella che richiede tempo, come il processo del maestro che insegna ai suoi allievi opinioni accettate attraverso un processo storico da un gruppo, da una società, di cui sono diventate patrimonio nazionale.

La politica così come nasce appartiene sicuramente all’informazione non contingente, poiché è un processo lungo, trasmette valori profondi e socializza la comunità.

Oggi però si tende a trattare la politica come qualcosa di contingente, e soprattutto si usano i mezzi dell’informazione contingente per la comunicazione politica, cadendo ovviamente in errore. Si cerca cioè di trasmettere valori, nello specifico valori politici, nei modi e con i mezzi con cui invece si trasmettono le opinioni contingenti. Così si tende a trasformare la politica semplicemente in un prodotto, da utilizzare e da cercare solo quando serve.

In sintesi, quindi, oggi la comunicazione politica è cambiata, parla esattamente la lingua della pubblicità ed usa i suoi stessi mezzi. Di conseguenza è cambiata anche la politica, che è stata trasformata in un prodotto, comparabile con altri. Tra i prodotti proposti il cittadino sceglie il proprio preferito, cioè quello che più soddisfa le proprie esigenze, non più secondo una condivisione di valori profondi, come in passato, ma in base ad opinioni contingenti, legate al momento.

Allora, si può parlare di politica con i mezzi dell’informazione contingente? Si, si può e oggi lo si fa. Ma chiaramente questo ha delle conseguenze. E la principale delle conseguenze è l’impoverimento della politica, divenuta una merce al pari di altre.

L’importanza delle relazioni interpersonali

Fra tutte le attività che ci vengono richieste, l’interrelazione con le persone significative è la più ardua: le persone costituiscono decisamente il compito più difficile che dobbiamo affrontare.
Sullivan

L’IMPORTANZA DELLE RELAZIONI INTERPERSONALI

di Daniela Patta

Prefazione

L’ispirazione del presente lavoro nasce dalle esperienze intraprese in questi anni accademici: l’esperienza in AIESEC l’associazione per la quale sono stata amministratore nell’anno 2009/2010 e il corso di Metodologie dell’Informazione e della Comunicazione effettuato presso l’Istituto Fattorello.

Queste esperienze hanno evidenziato un comune denominatore: l’importanza delle relazioni interpersonali e il valore che risiede nelle connessioni tra le persone.

In modo particolare, AIESEC, mi ha permesso di sperimentare cosa significa lavorare in team, condividere obiettivi, emozioni, successi e insuccessi, di comprendere il valore del network personale e professionale e della condivisione di conoscenza tra vecchi e nuovi membri sempre attraverso un rapporto alla pari.

Di ogni esperienza, di ogni obiettivo raggiunto, quello che rimane sono le persone e tutto ciò che esse creano attraverso la relazione.

Il corso di Metodologie dell’Informazione e della Comunicazione mi ha dato modo di scoprire gli ingredienti di una relazione di successo non solo sul piano personale ma anche professionale.

Il filo conduttore di questo elaborato è rappresentato dal concetto di capitale sociale definito da Nahapiet e Ghoshal (1998) “as the sum of the actual and potential resources embedded within, available through, and derived from the network of relationships possessed by individual or social unit”.

Lo scopo del lavoro è stato quello di indagare l’aspetto umano dell’impresa, rappresentato da persone e relazioni, valutarne in maniera qualitativa l’importanza e studiarne gli effetti sul processo di creazione del valore.

In particolare ho cercato di dimostrare come le interazioni tra gli individui, sia formali sia informali, opportunamente guidate dall’occhio attento e vigile dell’organo di governo, possano creare valore nell’ organizzazione in termini di nuova conoscenza e innovazione.

Il punto di partenza è rappresentato dalla critica ai modelli costruiti dalle teorie classiche e neoclassiche, che astraggono le relazioni sociali e le loro strutture dall’azione economica. L’azione economica risulta essere “embedded” ovvero radicata nelle relazioni sociali (Granovetter, 1985).

L’analisi prosegue nel dilemma legami forti – legami deboli: cosa caratterizza le due tipologie di legame e quale di queste ci consente meglio di creare valore nella nostra organizzazione?

Nel secondo capitolo,il focus è sulla interazione fra le due forme di capitale: il capitale sociale (inteso come funzione delle relazioni che le persone attivano) nelle sue dimensioni strutturale, relazionale, cognitiva e il capitale intellettuale nelle sue componenti capitale strutturale, capitale umano, capitale relazionale.

Ripercorrendo la letteratura esistente sul tema, ho cercato di rispondere a tali quesiti:

Quali sono le componenti del capitale intellettuale?

Quale influenza hanno le dimensioni del capitale sociale sul capitale intellettuale?

Quali azioni potrebbero essere suggerite al management per favorire la creazione di capitale sociale?

Nel terzo capitolo vengono affrontati due livelli di analisi: il primo riferisce all’influenza del capitale sociale sulle condizioni che permettono lo scambio/combinazione di conoscenza secondo il paradigma socially-intellectual, il secondo riferisce allo sviluppo della conoscenza organizzativa come conversione secondo il paradigma intellectual-social.

Il capitolo si conclude, mostrando come la knowledge governance, può supportare la gestione dei rapporti intra e intersistemici. Si è cercato quindi di rispondere a due domande:

Che influenza hanno i processi sociali nel rendere accessibili le risorse, nel motivare allo scambio/combinazione delle risorse, nell’anticipare il valore della combinazione e sulla capacità di combinazione delle risorse?

E sulla capacità di integrazione e assorbimento?

Come si sviluppa la conoscenza organizzativa?

Che influenza hanno i rapporti sociali nella conversione della conoscenza?

Sono quesiti che al giorno d’oggi, le aziende si devono porre e a cui devono dare le proprie risposte. Riuscire ad implementare una gestione strategica dell’interazione fra le due forme di capitale può tradursi in una competenza firm-specific, difficilmente imitabile dai competitors proprio per la difficoltà di replicare i contenuti su cui si basano le relazioni mediate da risorse altrettante uniche: le risorse umane.

La chiave di svolta, è tutta nella gestione strategica delle relazioni in coerenza con l’obiettivo che ci si è prefissati. Non c’è una risposta che vada bene erga omnes. L’organo di governo, seguendo un approccio sistemico alla gestione d’impresa, selezionerà volta per volta quali tra le relazioni possibili attivare, come mantenere, sviluppare o eliminare quelle già attivate per mantenere viva la consonanza/risonanza con il contesto

Il Fattorello informa

AVVISO AI NAVIGANTI……

Attenzione! Lunedì 17 gennaio ore 18.00-21.00

Ultimo incontro al Fattorello per gli iscritti dell’anno 2010

Definiremo ed illustreremo modalità e contenuti dei lavori da presentare e discutere in sede d’esame per il conseguimento dell’attestato finale.

Si raccomanda presenza e puntualità .

Dal prof. Ragnetti cari saluti a tutti ed un forte incitamento a continuare con grinta e determinazione il percorso intrapreso.

Cortometraggio “Piccole cose di valore non quantificabile”

Il Corto “Piccole cose di valore non quantificabile”

di Paolo Genovese e Luca Miniero, 9min, 2002

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Trama del film PICCOLE COSE DI VALORE NON QUANTIFICABILE:

Una notte, in una stazione dei carabinieri, un brigadiere raccoglie l’insolita denuncia di una ragazza a cui hanno rubato i sogni.
REGIA: Paolo Genovese, Luca Miniero
SCENEGGIATURA: Fabrizia Sacchi, Gianni Ferreri
ATTORI: Gianni Ferreri, Fabrizia Sacchi Ruoli ed Interpreti
FOTOGRAFIA: Arnaldo Catinari
MONTAGGIO: Paola Freddi
MUSICHE: Francesco Lanzillotta
PRODUZIONE: ZEBRA PRODUCTION
DISTRIBUZIONE: EMME PER PABLO
PAESE: Italia 1999
GENERE: Cortometraggio
DURATA: 10 Min
FORMATO: Colore 35 MM

Vale la pena vederlo…

 

La tesina di ELENA MONTI… “Piccole cose di valore non quantificabile”