Con la maschera si può dire: la vita è una rappresentazione teatrale

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Corso di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Con la maschera si può dire: la vita è una rappresentazione teatrale”

a cura di Marco Luchini

L’idea secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini di una rappresentazione teatrale non è affatto nuova. Già Shakespeare in A piacer vostro aveva fatto dire a uno dei suoi personaggi: “Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori.

Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona nella vita rappresenta diverse parti”. Affermazione questa, sicuramente condivisa da Luigi Pirandello, che di maschere se ne intendeva, dato che nella sua poetica l’uomo non ha una personalità, ma molteplici e i suoi personaggi possono essere contemporaneamente Uno, nessuno e centomila.

La “metafora drammaturgica” di Goffman

Chi più di altri è però riuscito a fornire una panoramica esaustiva ed assolutamente originale circa il tema della maschera è sicuramente Erving Goffman, nell’opera del 1956 La vita quotidiana come rappresentazione, dove viene sostenuto il punto di vista della “metafora drammaturgica”.Goffman propone numerosi spunti di riflessione sui parallelismi che legano la vita quotidiana, in particolare le interazioni faccia-a-faccia, all’ambito delle rappresentazioni teatrali.

Partendo dal presupposto di considerare la rappresentazione teatrale come un processo informativo, nel senso di un “dare forma” a qualcosa da parte di qualcuno (attori da palcoscenico) verso qualcun altro (pubblico), si possono fare tutta una serie di considerazioni. Innanzitutto, rispetto all’interazione diretta, il teatro pare essere, paradossalmente, esente da simulazioni volte ad ingannare. Questo perché il teatro gode di un particolare ancoraggio al principio di realtà, che è una differenza a livello di “frame” con le interazioni sociali quotidiane.

Il concetto di “frame” è la nozione cardine su cui poggia la teoria di Goffman. Con il termine l’autore intende designare la “cornice” entro la quale gli individui collocano le situazioni che li vedono protagonisti, di volta in volta affidandosi a schemi interpretativi differenti e collegati al mondo dell’esperienza reale da un margine variabile a seconda dei casi. In poche parole, si tratta del contesto, ossia dello sfondo su cui si collocano le situazioni, che diventa frame nel momento in cui prevale su tutti gli altri.

L’introduzione del “frame” è funzionale per la comprensione del fatto che nel momento in cui il pubblico degli spettatori entra a teatro e prende posto in platea, è comunque in grado di attuare un processo che inscrive tutto quanto quello che sta per accadere sul palcoscenico all’interno di una specifica “cornice” che sarà quella teatrale. Qualsiasi altra cornice verrà perciò esclusa. Saranno gli applausi finali, seguiti dalla chiamata sulla ribalta, a chiarire definitivamente che la rappresentazione teatrale è finita e che tutto ciò che accadrà da quel momento in poi dovrà essere contestualizzato nel frame dell’interazione sociale quotidiana (a sua volta suddividibile in frame secondari).

La differenza maggiore che intercorre fra le cornici interpretative dell’interazione sociale quotidiana e quelle attivate quando si assiste a una rappresentazione teatrale risiede anche nel fatto che quanto avviene a teatro è il risultato di una pianificazione studiata e fissata per iscritto su un copione appositamente creato. Al contrario, nell’ambito delle relazioni umane tipiche della quotidianità difficilmente si ha un tale livello di pianificazione, se non in minima misura.

Volendo riprendere i termini impiegati nell’ambito della teoria fattorelliana, anche nel caso del teatro si potrebbe parlare di manipolazione che ancora una volta, come abbiamo visto, non assume i caratteri della falsificazione, ma piuttosto della “fabbricazione benigna” proprio perché sostenuta volontariamente dal pubblico che vi assiste. Oggetti, scene ed interazioni rappresentate sul palcoscenico sono delle imitazioni di quanto avviene nella vita umana, o se vogliamo, sono la forma data a ciò di cui narra la rappresentazione: il pubblico ne è consapevole, in quanto capace d’inscrivere il tutto nella cornice teatrale.

In nessun momento il pubblico è convinto che quella sul palcoscenico sia la vita vera. In altre parole, assistere a una rappresentazione teatrale significa accettare d’iscrivere il flusso degli eventi in una specifica cornice, il cui punto cardine risiede nel fatto che attori, regista, drammaturgo e addetti ai lavori dispongono del medesimo bagaglio informativo di conoscenze riguardo a ciò che si apprestano a portare in scena. Quanto accadrà sul palcoscenico è predeterminato e conosciuto da tutti coloro che hanno partecipato all’allestimento dello spettacolo stesso. È proprio questo ciò che caratterizza il diverso tipo di ancoraggio alla realtà della rappresentazione teatrale.

Vita e dramma sono comunque legati. Ciò che va rivisto è il loro rapporto. Nel pensiero comune è la vita che precede il dramma. Goffman ritiene invece che è la rappresentazione teatrale ad essere presa a modello nel corso delle interazioni quotidiane.

Quando l’individuo interagisce con altri soggetti, esso si pone nei loro confronti come se fosse un attore su un palcoscenico: racconta ciò che gli è successo per stimolare risposte e coinvolgimento in chi ascolta, interpretando di volta in volta, ruoli differenti. Lo scopo di chi parla è dunque ottenere l’adesione ai fatti che racconta da parte di chi ascolta. In realtà, non è la sola finalità strumentale, ossia il raggiungimento di un determinato fine, a muovere il soggetto verso gli altri, c’è infatti da considerare anche il condizionamento di come si vuole apparire. Quando un individuo è in presenza di altri ha molte ragioni per cercare di controllare le impressioni che essi ricevono dalla situazione.

C’è una differenza fondamentale fra vita e dramma: la conversazione quotidiana (ma, più in generale, la vita nel “mondo reale”) non è finzione, il che implica un diverso grado di coinvolgimento e di attenzione ai rischi e alle incongruenze che di volta in volta presenta, non potendo ricorrere, come invece accade in teatro, a un copione già scritto. La molteplicità del “self” e la varietà dei gruppi sociali possono aiutare l’individuo a superare le piccole difficoltà insite nell’interazione quotidiana.

La molteplicità del “self”

Quando si parla di molteplicità del “self” ci si riferisce alla multivalenza degli individui, ossia alla loro capacità di scindersi in sottoentità distinte, ognuna delle quali dotata di specifici connettivi e apposite convenzioni, che rendano l’individuo stesso capace di muoversi nell’ambito di contesti comunicativi differenti (famiglia, amici, scuola, lavoro e così via).

Il concetto di molteplicità del “self” si pone all’incrocio delle relazioni che intercorrono tra ruoli, persone, competenze comunicative e contesto. Si prenda l’esempio di un incontro di lavoro: se si ragionasse nei soli termini della libertà individuale, ognuno dei partecipanti potrebbe, apparentemente, esprimersi liberamente. Ma dato che, come detto, l’interazione quotidiana segue il teatro, la situazione in questione richiede uno sviluppo parzialmente previsto e prevedibile. Alcuni tratti comunicativi, cosiddetti situazionali, sono richiesti dal contesto, dal motivo di lavoro che obbliga le persone presenti, attraverso leggi sociali che si presume siano, almeno superficialmente, conosciute dai partecipanti, ad attenersi a norme e consuetudini per partecipare alla riunione medesima.

Queste leggi sociali, che vanno dai registri linguistici usati alle buone maniere, dal vestiario alle norme comunicative gestuali, fino alle espressioni del volto da evitare (ad esempio l’occhiolino al direttore generale non sarebbe apprezzato probabilmente neanche tra amici), generano, come restrizioni strutturate all’agire individuale, in un cervello socialmente adulto ed allenato a simili situazioni, uno script, una struttura in cui tutto è libero, ma rigidamente inquadrato all’interno di un processo comunicativo rigoroso, che prevede alternative e non improvvisazioni, parole adatte e non in libertà.

La medesima funzione può essere chiaramente riconosciuta al copione nel caso della rappresentazione teatrale, pur non trattandosi propriamente della stessa cosa.

Ciò dovrebbe far comprendere come le realtà quotidiane degli individui siano create dall’intricato sistema di regole fisiche, biologiche, psicologiche e sociali, e dal modo in cui i soggetti riescono a comunicare contestualmente in modo appropriato, adeguato a come gli altri partecipanti all’interazione si attendono.

Quello che viene messo in pratica è sia un sapere sociale relativo alle regole conosciute, sia un sapere comunicativo che permette di adattare tutto il nostro repertorio, lo script, fatto di gesti, parole, espressioni, movimenti, alla gamma di attese psicosociali oltre che tecniche che il pubblico, cioè gli altri partecipanti all’interazione in quel momento, desidera percepire nella situazione considerata. Cerimoniale, rituale, lavorativa, di svago o casuale che sia.

Gruppi di “performance” e gruppi di “audience”

È assai improbabile che una rappresentazione teatrale coinvolga solamente due individui (un attore e uno spettatore). Probabilmente, partendo da questo tipo di osservazione, Goffman giunge a pensare la vita sociale in termini di gruppi sociali, distinguendoli in due grandi categorie: i gruppi di “performance” e i gruppi di “audience”. I primi sono assimilabili alla compagnia teatrale, mentre i secondi rappresentano il pubblico.

L’esempio citato da Goffman, quello dei camerieri di un hotel delle isole Shetland (luogo in cui ha svolto la sua ricerca), chiarisce questo aspetto centrale della sua teoria. Il gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico, ossia i clienti del ristorante dell’albergo, inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di “palcoscenico” (sala da pranzo), dove il pubblico è presente. Nello spazio di “retroscena” (cucina), nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso.

La vita sociale si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non “recitano”, e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione. Naturalmente, il comportamento nel retroscena contraddice il comportamento pubblico: una persona insicura, ad esempio, può assumere in pubblico un atteggiamento spavaldo, e mostrarsi invece vulnerabile nel retroscena (ad esempio in famiglia). La vita sociale si fonda dunque sulla demarcazione dei confini tra palcoscenico e retroscena. Questo significa che il gruppo di “audience” non deve e non può avere accesso alle situazioni di retroscena che contraddicono il comportamento pubblico del gruppo di “performance”.

Prima di continuare il discorso sui gruppi è doveroso fare un’osservazione, sollecitata dallo stesso esempio di Goffman, circa la minore aderenza dell’interazione quotidiana al principio di realtà rispetto al teatro. Infatti, mentre nella rappresentazione teatrale l’evidente distinzione tra pubblico e attori (una convenzione rafforzata anche da una serie di segnali fisici, quali la distanza tra platea e palcoscenico, l’apertura e la chiusura del sipario, lo spegnimento delle luci e così via), permette d’incorniciare immediatamente la situazione nel “frame” teatrale, nell’interazione quotidiana, nello specifico quella del ristorante, la mancanza di convenzioni e segnali forti rende più complessa l’operazione di “framing”. Solo attraverso il ricorso alla “metafora drammaturgica” è possibile semplificare parzialmente l’operazione di ancoraggio alla realtà.

Collante interno ai due gruppi individuati da Goffman è la condivisione degli spazi di retroscena, ossia dei luoghi in cui vengono preparate le rappresentazioni pubbliche. Condividere il retroscena, però, significa soprattutto conoscere i “segreti distruttivi” del gruppo, cioè quei segreti che, portati all’esterno, renderebbero la rappresentazione poco credibile. Tornando perciò all’esempio dei camerieri, secondo quanto appena detto, appartengono al gruppo tutti coloro che sanno quello che i camerieri fanno nel retroscena della cucina. Se un cameriere si mettesse a raccontare al pubblico dei clienti i segreti del gruppo – il modo in cui preparano le portate, il modo in cui mangiano o in cui deridono i clienti – questo verrebbe distrutto, perché la sua rappresentazione apparirebbe come una falsificazione poco credibile.

I segreti del gruppo devono quindi rimanere al suo interno e per questo stesso motivo, il gruppo deve comprendere, per definizione, tutte le persone che sono a conoscenza di questi segreti. Per quanto ascrivibili a due sole categorie, il numero dei gruppi a cui un individuo può appartenere è pressoché illimitato (famiglia, gruppo d’amici, categoria professionale, associazione, circolo informale e così via). Ciò significa che l’individuo, a seconda delle situazioni, può appartenere, sia a gruppi di performance che a gruppi d’audience, può essere cioè sia promotore che recettore d’informazione, nel complesso reticolato del tessuto sociale. L’informazione finisce per configurarsi come una risorsa strategica e come criterio di differenziazione.

Oltre il senso del luogo

L’informazione a cui si fa qui riferimento è intesa nei termini di “informazione sociale”, ossia tutto ciò che gli individui sono in grado di conoscere sul comportamento e sulle azioni proprie e degli altri, attraverso l’apprendimento dagli atti comunicativi. È un tipo d’informazione che arriva in molti modi (parole, gesti, abbigliamento, ritmi di lavoro) e che è profondamente legata al comportamento sociale. Perciò anche lo scambio sociale più banale può essere considerato un sistema informativo, dal momento in cui si tratta di un modello di accesso alle informazioni sociali, un modello di accesso al comportamento di altre persone.

Partendo da questo assunto è possibile rintracciare il continuum, piuttosto che la dicotomia, che esiste tra l’interazione faccia-a-faccia e le interazioni mediate. Di conseguenza, saranno molto più numerose le analogie che le non differenze fra il flusso informativo tramite i media ed il flusso informativo negli ambienti fisici. Infatti, diretti o mediati che siano, i modelli di flusso informativo contribuiscono a definire la situazione ed i concetti di stile e di azione appropriati. Automaticamente, questo non significa che l’introduzione e la diffusione di nuovi mezzi di comunicazione non produca nessun tipo di cambiamento, anzi; ogni volta che un nuovo mezzo di comunicazione ha fatto la sua comparsa, è cominciata ad emergere tutta una gamma di nuove situazioni e di nuovi comportamenti sociali.

Di questo avviso è il sociologo americano Joshua Meyrowitz, autore dell’ultima grande teoria mediologica sulla televisione. Partendo dal superamento della teoria di Goffman, Meyrowitz sostiene che la televisione ha completamente rimosso le barriere tra palcoscenico e retroscena, rendendo visibili tutti gli anfratti più nascosti della società.

Oggi, attraverso la televisione (per non parlare della rete), è possibile conoscere il retroscena dei gruppi a cui non si appartiene: ad esempio, non è più necessario essere un medico per conoscere i segreti distruttivi della categoria dei medici, perché questi vengono mostrati a tutti dalla televisione.

Si può concordare o meno con il sociologo americano quando afferma che non esiste più identità tra luogo e informazione, come quando le notizie di retroscena circolavano, appunto, solo nel retroscena, perché la televisione ha illuminato (o eliminato) tutti i retroscena. È chiaro però che, non riconoscendo il carattere di mascheramento delle interazioni, di qualunque natura esse siano, è come se non si riconoscesse il carattere opinante dei soggetti coinvolti negli scambi informativi. Forse sarebbe più giusto ed opportuno riconoscere che la dinamica sociale dipende sempre più dal modo in cui vengono distribuite le risorse strategiche dell’informazione.

Conclusioni

Affrontare le interazioni ordinarie in termini di schemi interpretativi consente agli individui di connotarle come processi di framing, di cui si serviranno per incasellare e comprendere la realtà che li circonda. Le narrazioni di fatti si configurano come modelli di ancoraggio alla realtà che, con il tempo, si cristallizzano, sedimentandosi fra le risorse cognitive e culturali condivise dalle comunità sociali. In particolare, questo è ciò che accade quando oggetto d’interazione sono i fatti d’opinione proposti dai media. La narrazione consente di dare una risposta a due esigenze fondamentali che l’uomo manifesta durante le interazioni: da una parte serve a dare ordine e coerenza con i quali affrontiamo meglio il flusso di eventi che ci circonda; dall’altra, presentarsi come narratore ad altri soggetti, consente all’individuo di essere accettato con credibilità, simpatia, coinvolgimento da chi ascolta. Ancora una volta dunque, si manifesta l’inevitabile sovrapposizione tra vita e teatro, dato che la forma narrativa è quella prediletta anche dalle rappresentazioni teatrali. Configurare l’esistenza alla stregua del dramma teatrale e quindi, di conseguenza, operare un mascheramento delle informazioni sociali, consente di facilitare le procedure di ancoraggio alla realtà di chi ascolta. Questo perché, evidentemente, dato che la realtà non può essere predeterminata, risulta essere troppo complessa da comprendere così com’è. In fondo, è questo ciò che chiediamo quando ci ritroviamo nel ruolo di pubblico, gruppo di “audience”: sia che si tratti di una narrazione ordinaria, sia che si tratti di una narrazione mediata, colui che si fa promotore dell’informazione deve intervenire con una qualche forma di manipolazione.

Hippie, utopia di rivoluzione

Università di Urbino – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Esame di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Hippie, utopia di rivoluzione”

di Claudia Dondi

Stati Uniti d’America: siamo agli inizi degli anni Sessanta, anni dell’ “American Dream”, il sogno americano, anni in cui è vincente lo stereotipo della famiglia felice composta da due giovani, belli e puliti, con due bambini, altrettanto belli e puliti, che vivono in una villetta, con cane, gatto e giardino, televisore (sempre acceso) in salotto e macchinona nel garage. Per loro, ovviamente, un roseo futuro all’orizzonte. A svegliare tutti arriva il Vietnam: gli americani vanno in guerra.
Gli “hippie”, o i “flower children”, colgono l’artificiosità del modello proposto dalla società, si rendono conto che la felicità è contrabbandata e mascherata dal comfort, mettono a fuoco la monotonia del vivere quotidiano e svelano il più radicato tabù della società borghese: il sesso.

Si spogliano, non solo fisicamente, di tutti gli stereotipi e fondono la cultura insieme alla politica, insieme alla musica, insieme all’arte.

La loro filosofia si basa semplicemente sul rifiuto della società capitalistica e del benessere, sulla volontà di costruire un mondo fondato su alti valori, che non hanno nulla a che fare con i dollari e gli status symbol. Il movimento hippie,sorge sulla costa occidentale degli Stati Uniti all’ insegna del pacifismo, delle filosofie orientali e dei grandi raduni musicali.

Il nome di questo movimento deriva da un termine gergale nero, “hip” (o nella forma alternativa “hep”) che, apparso per la prima volta nei primi anni del 20° secolo, significa “consapevolezza dei fatti”, in pratica descrive “uno che la sa lunga”, “che ha mangiato la foglia”, che ha capito o pensa di aver compreso le brutture e le nefandezze della società e cerca ora un modo alternativo per non far più parte di questo meccanismo perverso, evitando di unirsi al coro dei più, considerati corrotti e spregiudicati. Hippie, “figli dei fiori”, il flower power contrapposto al potere delle armi, il rifiuto delle logiche economiche e politiche prevalenti.

Protestano contro la divisione del mondo in due parti,quello capitalista e quello comunista, il consumismo, il conformismo, le discriminazioni razziali, le tendenze imperialistiche della politica statunitense. In antitesi a tutto ciò esaltano il corpo e la libertà sessuale, l’unione con la natura, di cui i fiori diventano il simbolo, la libertà e la pace. Fanno uso sia di droghe leggere come Hashish e Marjuana, sia di allucinogeni come l’Lsd, poiché ritengono che gli effetti prodotti da queste sostanze liberino la psiche.

Sono alla ricerca di una soluzione esistenziale alternativa all’integrazione sociale, sfociata nella formazione di comunità basate sulla non violenza, in rapporto con la natura, l’abbandono al flusso delle cose, in base all’ideale dell’io-tutto preso a prestito dallo Zen. Alla ricerca della felicità terrena, in continuo viaggio, col classico furgoncino Volkswagen o in viaggio con la mente in un mondo virtuale, ma finalmente nuovo e puro, scevro da canoni e costrizioni.

La “rivolta” hippie segnò la storia dei nostri tempi, concorrendo ad una rivoluzione culturale che si affermò e si diffuse ben oltre il contesto territoriale e sociale in cui ebbe origine, modificando idee, ordinamenti sociali, costumi di vita ed influendo anche sugli orientamenti politici internazionali.

L’affermazione degli ideali pacifisti, dei metodi non violenti, dei diritti civili, di una concezione meno formalistica della famiglia, di una maggiore tolleranza nei confronti della diversità e delle scelte sessuali individuali, il contributo di creatività arrecato dagli hippies alle arti rappresentative e performative (teatro, cinema e pittura), alla musica, con la riscoperta della folk music, del blues e del jazz (e, soprattutto, con il grande raduno di Woodstock nel 1969, ancora oggi una pietra miliare nella storia del rock) deve far comprendere che hippie è tanto altro oltre a capelli lunghi e spinello…

Hippie, “figli dei fiori”, il flower power contrapposto al potere delle armi, il rifiuto delle logiche economiche e politiche prevalenti. Si diffonde l’amore, inteso come modo di porsi di fronte alle cose, alle persone, al sesso, alla vita. Raccolgono seguaci in tutto il mondo, milioni di giovani restano affascinati dall’approccio liberatorio verso la vita.

I portavoce sono le rockstar, icone di una musica e uno stile di vita immortale, vite bruciate troppo presto dalla droga e dagli eccessi. Da tutto il mondo, coloro che si sentono partecipi a queste idee, si radunano in modo spontaneo e inarrestabile. Sono musicisti, poeti, scrittori, insegnanti, a cui si uniscono pure nullafacenti, imbroglioni e semplici sognatori. La ‘rivoluzione dell’amore’ dilaga. Su questa onda di entusiasmi si approda senza soluzione di continuità al 1967, i cui primi mesi condussero inesorabilmente alla celebre “Summer of Love”, estate dell’amore.

Il 14 gennaio 1967 l’enorme raduno all’aperto di San Francisco rese popolare la cultura hippy in tutti gli Stati Uniti, richiamando 20.000 persone al Golden Gate Park. Il 26 marzo, Lou Reed, Edie Sedgwick e 10.000 hippie si raccolsero a Manhattan per il “Central Park Be-In on Easter Sunday”(invasione pacifica di Central Park durante il giorno di Pasqua). Il Monterey Pop Festival dal 16 al 18 giugno diffuse la musica rock della controcultura ad un vasto pubblico e segnò l’inizio della “Summer of Love”. La versione di Scott Mackenzie della canzone di John Phillips San Francisco, divenne un enorme successo negli Stati Uniti e in Europa.

3.5, Monterey International Pop Festival
June 16-17-18, 1967

Il testo, If you’re going to San Francisco, be sure to wear some flowers in your hair cioè “Se stai andando a San Francisco, assicurati di indossare dei fiori nei tuoi capelli”, convinse migliaia di giovani di tutto il mondo a recarsi a San Francisco, a volte portando fiori tra i capelli e distribuendoli ai passanti, guadagnandosi il nome di “Flower Children”.

Gruppi come i Grateful Dead, la Big Brother and the Holding Company con Janis Joplin e i Jefferson Airplane continuarono a vivere ad Haight, il quartiere dove si stabilì la maggiorparte dei giovani convenuti all’evento. Per quanto riguarda questo periodo della storia, il 7 luglio 1967 la rivista Time si presentò con una copertina intitolata “Gli Hippy: La filosofia di una subcultura”.

L’articolo descriveva le linee guida del codice hippy: “Fai le tue cose, ovunque devi farle e ogni volta che vuoi. Ritirati. Lascia la società esattamente come l’hai conosciuta. Lascia tutto. Fai sballare qualsiasi persona normale con cui vieni in contatto. Fagli scoprire, se non la droga, almeno la bellezza, l’amore, l’onestà, il divertimento”. Si stima che circa 100.000 persone si siano recate a San Francisco nell’estate del 1967. I mezzi di informazione li seguirono, rivolgendo i riflettori sul distretto di Haight-Ashbury e rendendo popolari i costumi hippie.

Con questa maggiore attenzione, gli hippy trovarono sostegno per i loro ideali di amore e di pace, ma furono anche criticati per le loro lotta contro il lavoro e pro-droga, e per la loro etica permissiva. Timori riguardo alla cultura hippy, in particolare per quanto riguarda l’abuso di droga e l’assenza di moralità, alimentarono le ansie morali della fine del decennio. Si verificò una incessante copertura mediatica che portò i Diggers di san Francisco a dichiarare la “morte” degli hippy con una cerimonia-spettacolo. Il 6 ottobre 1967 tutte le comuni hippie situate nel circondario di San Francisco si radunano in città. Una moltitudine di ragazzi e ragazze vestiti a lutto si avvia in un lungo e silenzioso corteo che percorre le vie principali.

Ai bordi delle strade percorse dalla singolare processione altri ragazzi distribuiscono volantini che spiegano ai passanti come tutte le comuni abbiano deciso di celebrare “la morte degli hippie”. Il movimento hippie fa il funerale a se stesso per protestare contro lo sfruttamento commerciale della sua immagine, delle sue idee e della sua stessa esistenza. «Questo mondo non ci piace. Siamo nati per cambiarlo e il consumismo ha scoperto che anche la nostra voglia di cambiamento può diventare merce. Per questo il movimento è morto e oggi lo accompagnamo nel suo ultimo viaggio». Basta guardarsi intorno per capire quali siano i fenomeni cui fanno riferimento i ragazzi delle comuni. Le vetrine di San Francisco, i bar, i ritrovi, tutto è stato colorato da fiori.

La scritta “Peace and love” campeggia su un numero impressionante di oggetti e capi di vestiario in vendita. A partire dall’aprile di quell’anno la Greyhound, la più famosa compagnia statunitense di pullman, ha addirittura inaugurato un singolare giro turistico tra le varie comuni hippie di S. Francisco. «Adesso basta, non si possono vendere le idee». Un movimento culturale ed esistenziale nato dalla ribellione al consumismo sta diventando esso stesso oggetto di consumo. Secondo il poeta epigono Stormi Chambless, l’effige di un hippie venne seppellita nel Golden Gate Park a dimostrazione della fine del suo regno. Al di là del gesto simbolico, il funerale segnerà davvero la fine di una fase nella storia degli hippies. Il Flower Power, come lo definiscono i media, non ce la fa; non conquista il Potere, forse perché non era quello che interessava, non era quello che volevano i “figli dei fiori”.

O, forse, perché parole come Pace e Amore cominciavano ad essere una minaccia per l’America, impegnata nelle guerre contro Vietnam e Cambogia, in rapporti tesi con l’Unione sovietica, con conflitti razziali interni e con presidenti e predicatori assassinati. Il trasgressivo slogan dei Figli dei fiori è stato: Fate l’amore, non fate la guerra. Ma la storia e gli eventi lo capovolsero in Non fate l’amore, fate la guerra. Purtroppo, così fu. Il movimento si spezzerà in due tronconi. Uno, sull’onda del “flower power”, finirà per rifugiarsi sempre più in una sorta di individualismo di massa finalizzato alla felicità interiore e lontano dalle questioni sociali.

L’altra scoprirà la politica e affiancherà l’impegno alle esperienze di vita comunitaria finendo poi per confluire nelle grandi battaglie pacifiste e per i diritti civili che di lì a poco infiammeranno gli States.

Conclusioni

Per dirla con il Professor Fattorello, voglia perdonare il tono confidenziale che uso in quanto condivido appieno la Sua teoria, il movimento hippie si disgrega, anzi, decide spontaneamente di autodisgregarsi, a seguito di un attacco strenuo e feroce da parte dei media.

I soggetti promotori dell’informazione si discostano eccessivamente da quel che costituisce “il punto x)” del processo di informazione. E’ risaputo ovviamente che “il fatto, l’ideologia o il personaggio di cui si parla resta fuori dal processo” ma in questo caso, è mia opinione pensare che la “O” di questo particolare processo informativo si sia scorporata completamente dalla x) portando ad un travisamento della stessa. La “O”, che non è altro che la rappresentazione che il soggetto promotore dell’informazione propone al soggetto recettore della stessa, è stata snaturata delle sue parti essenziali.

Probabilmente a causa dell’opinione pubblica dell’epoca – la quale tendeva a non “guardare di buon occhio” le idee e le innovazioni di una subcultura come quella hippie – i testi e le immagini che sono parse più opportune agli informatori dell’epoca sono state proprio quelle che più contrastavano una delicata filosofia come quella hippie. Delicata in quanto, ponendosi come a – politica, non si basava, rispetto all’opinione comune di quegli anni, su fondamenta logiche e storiche abbastanza solide, in anni in cui qualunque minimo e timido tentativo di emergere dalle idee di massa veniva immediatamente sottoposto a tentativi di classificazione in categorie pre – esistenti.

La cultura hippie dopo essere stata fraintesa è stata travisata al fine di poter essere strumentalizzata in una scontata macchina per fare soldi a causa probabilmente della necessità di catalogare quello che invece non vuole e non può essere catalogato ed opinato, qualcosa che si poneva come rottura dei canoni e delle categorie, qualcosa che rappresentava tutto e il contrario di tutto e che ovviamente ci poneva di fronte alla nostra innata paura dell’ignoto.

Il RadioGiornale analizzato con la formula di Fattorello

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea Specialistica in Editoria Media Giornalismo – TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il RadioGiornale analizzato con la formula di Fattorello”

a cura di Chiara Vannoni

STORIA DELLA RADIO IN ITALIA

La storia del giornalismo radiofonico nel nostro Paese ha dovuto far fronte, ai suoi esordi, alla concorrenza con il consolidato giornalismo della carta stampata, per poi dover combattere con quello televisivo a partire dagli anni Cinquanta. Inoltre, per alcuni decenni, il giornalismo radiofonico in Italia coincide con il “giornalismo di Stato”. Nei suoi primi anni di vita la radio diventa uno strumento fondamentale per la diffusione delle cronache di guerra. In particolare, con l’impresa bellica in Etiopia, nel 1935, le cronache di regime sono una delle realizzazioni più efficaci dell’informazione radiofonica di questo periodo.

A ciò si affiancano altre rubriche, come la cronaca sportiva e la radiocronaca. Il 10 febbraio 1935 si inaugura il servizio radiofonico in collegamento con l’Estremo Oriente. Dopo l’entrata in guerra, il 10 giugno 1940 tutta la programmazione radiofonica viene utilizzata per far passare le parole d’ordine del regime.

All’inizio del ’43, in seguito alla divisione del Paese in due parti, accanto alle strutture radiofoniche che seguono il regime al Nord, nasce il servizio radiofonico dell’Italia liberata: Radio Bari, Radio Napoli, Radio Roma e la RAI, nata dopo la liberazione di Roma. La radio, quindi, diventa il campo di battaglia di due voci dissonanti: una che persevera nella propaganda fascista, l’altra che contribuisce alla caduta del regime. L’ascolto clandestino di massa delle emittenti alleate e nemiche fu una delle cause più evidenti della caduta dello spirito pubblico in Italia nei mesi che precedono la caduta del fascismo.

Dalla fine della guerra all’avvento della TV, la radiofonia in Italia subisce un’enorme trasformazione. Nei primi anni ’70 la radio sembra attraversare un periodo di stasi. La riforma della RAI nel 1975, che sancisce il pluralismo dell’emittenza radio-televisiva, mette fine per la prima volta al tradizionale centralismo dell’azienda e apre la strada al rinnovamento. Ma un nuovo ostacolo sembra frapporsi sulla sua strada. Con l’ondata della libertà d’antenna, emergono in pochi anni centinaia di stazioni e il modo di ascoltare e fare radio ancora una volta si modifica.

Sempre maggiore importanza assume la determinazione dei palinsesti per la riqualificazione e la conquista del pubblico. Nascono le tre reti e le tre testate radiofoniche: Radiouno, Radiodue, Radiotre con i rispettivi GR1, GR2, GR3.

Negli anni ottanta, in una situazione normativa tutt’altro che semplice e definita, con il diffondersi delle radio private l’ascolto della RAI nel suo insieme conosce un effettivo declino. I network privati crescono sorprendentemente e affinano sempre più le proprie capacità tecniche.

La radio degli anni ’90 ha scritto un nuovo capitolo della sua storia, mostrandosi più che mai adatta al connubio con la crescente rete Internet. Il Giornale Radio RAI è su Internet dal 19 febbraio 1996, prima testata giornalistica RAI in rete. Obiettivo primario è fornire un prodotto giornalistico nuovo, utilizzando Internet come fonte di informazione e come strumento di ricerca e di approfondimento delle notizie trasmesse attraverso la radio.

LA FORMULA FATTORELLIANA

Analizzerò la formulazione di un notiziario Radio secondo la Tecnica Sociale Fattorelliana, la quale spiega con una semplice e altrettanto esaustiva formula quali siano le correlazioni tra i vari fattori che operano in ogni processo di informazione.

Esiste un Soggetto Promotore, il quale interpreta secondo la propria visione soggettiva un fatto, un’informazione, che chiameremo “X”. Questa X nel nostro caso è il notiziario, un ‘pacchetto’ contenente notizie, interviste, approfondimenti e servizi. Infatti seppure la costruzione del GR segua uno schema logico, l’ordine delle notizie e la scrittura sono estremamente soggette a chi le compie, secondo appunto la visione soggettiva del giornalista.

Il Soggetto Promotore trasmette l’informazione usando un mezzo che nel nostro caso è il canale delle onde radio, per comunicare questo messaggio ad un Soggetto Recettore, ovvero chi è in ascolto. Inoltre il Soggetto Promotore elabora l’informazione usando un modo di raccontare l’accaduto, che può essere dato sia da una forma di scrittura che da una particolare intonazione che da più o meno senso alle parole che si stanno leggendo. Questo elemento si chiama “Formula d’Opinione” e varia a seconda del destinatario al quale va il messaggio. Infatti il Soggetto Promotore non può avere la presunzione di scrivere come se stesse stilando un diario personale, o leggere senza particolare intonazione e che un pubblico indistinto debba riuscire a capire ciò che scrive.

A seconda del Soggetto Recettore la Formula d’Opinione e il Mezzo varieranno.

In questo modo le due parti coinvolte nel processo di informazione assumono una pari dignità. Il Soggetto Promotore racconta, il Soggetto Recettore riceve il rapporto d’informazione nei modi e con i mezzi che a questo si adattano maggiormente. Come detto in precedenza, molto importante è l’uso di termini appropriati ma al tempo stesso facilmente conoscibili da un vasto numero di persone. Perchè non bisogna dimenticare che la radio arriva ad ogni genere di personalità senza distinzione di classe sociale e sopratutto cultura.

Per comprendere correttamente i contenuti il Soggetto Recettore rielabora a sua volta l’informazione ricevuta appunto secondo la sua percezione della realtà. Questo diviene così Soggetto Promotore instaurando un nuovo rapporto d’informazione verso altri Soggetti Recettori con Mezzi e modalità (M ed O) consoni a questi ultimi, e così via. In questo modo si costruisce la rete dell’informazione rispetto a un determinato fatto e per un determinato gruppo di persone tra loro legati da rapporti d’informazione.

Da ciò deriva il nome di Tecnica Sociale dell’Informazione.

Teatro e Vita – da semplici spettatori a soggetti di uno spettacolo

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Esame di TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Teatro e Vita – da semplici spettatori a soggetti di uno spettacolo”

a cura di Cora Spalvieri

“Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! e come possiamo intenderci, signore, se nelle parole che io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo come egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci, non ci intendiamo mai!” (Pirandello L., Sei personaggi in cerca di autore)

Vita nel teatro. Persone che con le loro capacità ci affascinano recitando una parte. Ci mostrano una realtà che sappiamo non essere realtà, ma pura finzione. Una rappresentazione su un palcoscenico fatta da attori con in mano un copione. Battute imparate a memoria, recitate più o meno bene dinanzi a noi,  gente che spesso per loro non ha nemmeno un volto né identità. Ma deve essere per forza così? 

Teatro nella vita. Noi uomini che ogni giorno indossiamo una maschera e recitiamo una parte diversa per gli altri, il nostro pubblico, che a sua volta recita una parte diversa per noi, il loro pubblico. Stabiliamo relazioni sulla base di queste finzioni e inganniamo il nostro pubblico mostrando una realtà che è pura falsità. 

IL PUBBLICO PARTECIPANTE

Teatro e vita,  palcoscenico e platea, attori e pubblico. Binomi indissolubili all’interno di questo mondo che è la finzione teatrale. Da una parte protagonisti che lanciano dei messaggi, dall’altra uomini che ascoltano delle storie. Tra queste due entità la quarta parete.

La quarta parete fa parte della sospensione del dubbio, cioè nella volontà, da parte del lettore o dello spettatore, di sospendere le proprie facoltà critiche allo scopo di ignorare le incongruenze secondarie e godere di un’opera di fantasia. È quella parete immaginaria, inventata dal teatro naturalista, che separa gli attori dal pubblico, costretto quasi a “spiare” quanto avviene in scena. Il pubblico, in questa ottica, accetta implicitamente la quarta parete senza tenerla direttamente in considerazione, potendo così godere della finzione della rappresentazione come se stesse osservando eventi reali. Insomma questa parete, anche se immaginaria, separa attori e uditori, lo spettacolo dagli spettatori.

Ma nessuno dovrebbe essere marchiato del ruolo di protagonista attivo, e nessun altro di quello di recettore passivo. I ruoli si scambiano, si interagisce. Solo così si stimola il proprio pubblico ad ascoltare. 

Pirandello parla pertanto di infrangere la quarta parete, abbandonare la convenzione di separatezza  per il coinvolgimento fisico o emozionale del pubblico. Se tutto il mondo infatti è un enorme teatro non ha senso isolare il palcoscenico dal resto del teatro e della platea. Quest’ultima non deve essere più passiva,  poiché rispecchia la propria vita in quella rappresentata dagli attori sulla scena. Il pubblico viene così coinvolto non solo emotivamente, ma viene sollecitato anche a fornire risposte utili a completare o integrare il dramma. Ciascuno spettatore viene invitato a risolvere da solo i problemi lasciati insoluti dall’autore e dalla rappresentazione che di fatto diventa mille, diecimila, centomila quanti sono i fruitori.

Accade quindi che il palcoscenico pirandelliano diventi arena di scontro fra diverse realtà, tutte fortemente fondate e credibili. Il personaggio di Pirandello, diversamente da quello tradizionale che chiede allo spettatore unicamente di identificarsi in lui, apre un continuo e  incessante dibattito con il pubblico, stimolandolo ad una riflessione critica, ad un consenso e a volte dissenso sulle tesi che si dibattono attraverso l’azione scenica.

Lo spettatore è chiamato a “partecipare” in modo nuovo, a “entrare in scena” anche lui.

Esempio tipico è “Ciascuno a suo modo”, opera dello stesso Pirandello, dove si incastrano tre diversi piani prospettici: quello della vita reale, quello della rappresentazione scenica, e quello degli spettatori. 

Questa scelta di Pirandello significa intenzione di abolire la separazione tra arte (teatro) e vita (pubblico) e di mescolarle continuamente.

È vero che l’immaginaria linea di separazione tra attore e spettatore permette al pubblico di inserire ciò che vede nella cornice interpretativa della finzione, ossia della narrazione di eventi immaginari, ma è pur vero che l’attore non ha a che fare con un pubblico immobile e senza pensieri, lì seduto a recepire ogni messaggio già modellato e preparato ad hoc per lui, ma ha dinanzi un pubblico con un’anima e con una visione del mondo, un pubblico capace di interpretare la realtà secondo una sua propria visione.

Ecco allora un teatro che accoglie un continuo dibattito di idee, che abolisce il confine tra scena e platea, un teatro in cui lo spettatore è al centro, mentre lo spettacolo lo circonda.

È questo un teatro dove viene esorcizzata la passività del pubblico, cosicché lo spettatore, non più chiamato a ricevere un messaggio preconfezionato, diventi soggetto attivo inserito in un processo di creazione collettivo. 

Teatro dunque visto come evento e non come riproduzione di eventi; un avvenimento vissuto realmente da una collettività, attraverso una partecipazione tanto profonda all’evento teatrale da divenire vera e propria esperienza reale, quasi “una rappresentazione che si nega come rappresentazione, un teatro dove tutti sono attori”.

Partendo da queste considerazioni il teatro non può continuare ad essere visto come un mero contenitore culturale, il teatro è vita, è pubblico. Attore e spettatore devono essere legati da una particolare relazione, simultanea e diretta. Senza pubblico non c’è teatro.

Per troppo tempo il pubblico è stato ignorato, e ancora oggi spesso è considerato come uno spettatore passivo, senza pensieri e capace solo di assistere ad uno spettacolo. Non siamo ancora fuori dal “teatro della quarta parete”, ma bisogna cercare di sfondare questo muro. Perché seduti in platea ci sono pensieri, idee e opinioni, soggetti recettori di messaggi che vogliono potersi esprimere. 

LA VITA E’ UNA CONTINUA RECITA

L’idea secondo cui la vita sociale può essere intesa nei termini di una rappresentazione teatrale non è affatto nuova. Erving Goffman, nell’opera del 1956 “La vita quotidiana come rappresentazione”, sostiene il punto di vista della “metafora drammaturgica” proponendo numerosi spunti di riflessione sui parallelismi che legano la vita quotidiana, in particolare le interazioni faccia-a-faccia, all’ambito delle rappresentazioni teatrali.

Partendo dal presupposto di considerare la rappresentazione teatrale come un processo informativo, nel senso di un “dare forma” a qualcosa da parte di qualcuno (attori da palcoscenico) verso qualcun altro (pubblico), si possono fare tutta una serie di considerazioni.

Innanzitutto, rispetto all’interazione diretta, il teatro pare essere, paradossalmente, esente da simulazioni volte ad ingannare. Questo perché il teatro gode di un particolare ancoraggio al principio di realtà, che è una differenza a livello di “frame” con le interazioni sociali quotidiane. L’introduzione del “frame” è funzionale per la comprensione del fatto che nel momento in cui il pubblico degli spettatori entra a teatro e prende posto in platea, è comunque in grado di attuare un processo che inscrive tutto quanto quello che sta per accadere sul palcoscenico all’interno di una specifica “cornice” che sarà quella teatrale. Qualsiasi altra cornice verrà perciò esclusa. Saranno gli applausi finali, seguiti dalla chiamata sulla ribalta, a chiarire definitivamente che la rappresentazione teatrale è finita e che tutto ciò che accadrà da quel momento in poi dovrà essere contestualizzato nel frame dell’interazione sociale quotidiana.

Nell’impianto teorico di Goffman riguardo la vita comune, veniamo a trovare attori, palcoscenici, pubblico, quel che manca è un copione fisso. L’idea di Goffman  è che i gruppi sociali si dividano in due categorie: i gruppi di “performance” e i gruppi di “audience”. Infatti è  improbabile che una rappresentazione teatrale coinvolga solamente due individui (un attore e uno spettatore), pertanto, partendo da questo tipo di osservazione, Goffman giunge a pensare la vita in termini di gruppi sociali, distinguendoli appunto nelle categorie già citate: gruppi di “performance” e gruppi di “audience”. I primi sono assimilabili alla compagnia teatrale, mentre i secondi rappresentano il pubblico. La vita per Goffman è quindi una rappresentazione che i gruppi sociali mettono in scena di fronte ad altri gruppi. Per chiarire meglio il concetto Goffman cita l’esempio dei camerieri in un hotel delle isole Shetland (dove aveva svolto la sua ricerca).  Il  gruppo di performance dei camerieri, di fronte al proprio pubblico, i clienti del ristorante, inscena una rappresentazione, mostrandosi deferente, rispettoso, discreto, e così via. Questo accade in uno spazio di palcoscenico, la sala da pranzo, dove il pubblico è presente. Nello spazio di retroscena invece, nascosto al pubblico, i camerieri hanno un comportamento del tutto diverso, molto più informale e irrispettoso. La vita sociale, quindi, si divide in spazi di palcoscenico e di retroscena, cioè in spazi privati, in cui gli individui non “recitano”, e spazi pubblici in cui inscenano invece una precisa rappresentazione.

Prima di continuare il discorso sui gruppi è doveroso fare un’osservazione, sollecitata dallo stesso esempio di Goffman, circa la minore aderenza dell’interazione quotidiana al principio di realtà rispetto al teatro. Infatti, mentre nella rappresentazione teatrale l’evidente distinzione tra pubblico e attori, permette d’incorniciare immediatamente la situazione nel “frame” teatrale, nell’interazione quotidiana, nello specifico quella del ristorante, la mancanza di convenzioni e segnali forti rende più complessa l’operazione di “framing”.

Torniamo ai gruppi. Il loro collante interno è la condivisione degli spazi di retroscena, ossia dei luoghi in cui vengono preparate le rappresentazioni pubbliche. Condividere il retroscena, però, significa soprattutto conoscere i “segreti distruttivi” del gruppo, cioè quei segreti che, portati all’esterno, renderebbero la rappresentazione poco credibile. Tornando perciò all’esempio dei camerieri, secondo quanto appena detto, appartengono al gruppo tutti coloro che sanno quello che i camerieri fanno nel retroscena della cucina. Se un cameriere si mettesse a raccontare al pubblico dei clienti i segreti del gruppo, quest’ultimo verrebbe distrutto, perché la sua rappresentazione apparirebbe come una falsificazione poco credibile.I segreti del gruppo devono quindi rimanere al suo interno e per questo stesso motivo, il gruppo deve comprendere, per definizione, tutte le persone che sono a conoscenza di questi segreti. 

Per quanto ascrivibili a due sole categorie, il numero dei gruppi a cui un individuo può appartenere è pressoché illimitato (famiglia, gruppo d’amici, categoria professionale, associazione, circolo informale e così via). Ciò significa che l’individuo, a seconda delle situazioni, può appartenere, sia a gruppi di performance che a gruppi d’audience, può essere cioè sia promotore che recettore d’informazione, nel complesso reticolato del tessuto sociale. L’informazione finisce per configurarsi come una risorsa strategica e come criterio di differenziazione. 

Da quanto visto Goffman sembra prendere in considerazione tutti gli elementi della recita: un attore (un uomo comune) svolge la sua parte in un’ambientazione teatrale (qualsiasi luogo nel quale ha bisogno di inscenare una nuova realtà, o identità) che si compone di un palcoscenico e di un retroscena. In questa interazione i vari elementi del gioco s’influenzano e sostengono reciprocamente, infatti l’attore è osservato da un pubblico, ma al contempo egli è un pubblico per la “parte recitata” dai suoi stessi spettatori. Sì, perché nelle interazioni, o rappresentazioni che dir si voglia, i partecipanti possono essere simultaneamente attori e pubblico. Gli attori di solito tentano di far prevalere quelle immagini di loro stessi che li pongono favorevolmente in luce, ed incoraggiano gli altri soggetti, in vario modo, ad accettare la loro definizione della situazione inscenata.

CONCLUSIONI

Dal teatro alle interazioni sociali, dal palcoscenico agli uomini, comunicare è mettere in relazione. 

E mettere in relazione vuol dire che vi sono due o più soggetti che tra di loro scambiano parole, idee, significati.

Come già visto la differenza maggiore che intercorre fra le cornici interpretative dell’interazione sociale quotidiana e quelle attivate quando si assiste a una rappresentazione teatrale risiede nel fatto che quanto avviene a teatro è il risultato di una pianificazione studiata e fissata per iscritto su un copione appositamente creato, è una falsificazione benigna della realtà, o meglio si parla di finzione. Al contrario, nell’ambito delle relazioni umane tipiche della quotidianità difficilmente si ha un tale livello di pianificazione, se non in minima misura, e non sempre siamo in grado di capire in quale frame interpretativo dobbiamo inserire ciò che viviamo, vediamo o ascoltiamo. 

Ma comunicare è essere attivi in questo processo di scambio continuo che è la vita, sia quella della finzione teatrale che quella nella vita reale. 

Gli interlocutori di una comunicazione hanno pari dignità.

È quello che Fattorello ci dice con la sua Teoria della tecnica sociale dell’informazione: il soggetto recettore del messaggio non deve più essere considerato mero soggetto passivo nei fenomeni  dell’informazione, ma soggetto che interagisce con tutti gli elementi del rapporto, al fine di migliorare sempre più le possibilità di dialogo tra promotore e recettore. 

Soggetto promotore e soggetto recettore sono quindi entrambi soggetti opinanti, soggetti che percepiscono il mondo in mille modi differenti  ed espongono agli altri la propria percezione e così: la percezione alimenta l’esperienza, l’esperienza condiziona la percezione.

Soggetto promotore e soggetto recettore nell’informazione contingente: un rapporto in evoluzione

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI “CARLO BO” – URBINO – Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Tecniche di Relazione – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Soggetto promotore e soggetto recettore nell’informazione contingente: un rapporto in evoluzione”

a cura di Claudia Pasulo

Se oggi studiando la teoria di Francesco Fattorello riconosciamo la portata rivoluzionaria delle sue idee, è perché quando esse cominciarono a circolare, ovvero dal 1947 in poi, ancora prevalevano una serie di pregiudizi secondo i quali i mezzi di informazione potevano subdolamente manipolare le coscienze degli individui.

Quando Fattorello elaborava la sua teoria infatti, alcuni dei concetti che oggi abbiamo accettato, come quello di comunicazione negoziata, o di interpretazione, o di decodifica aberrante, non erano ancora stati formulati dagli studiosi di comunicazione. Motivo per cui il valore innovativo della Tecnica Sociale dell’Informazione, può essere adeguatamente colto soltanto se contestualizzato all’interno di una cornice culturale e sociologica che all’epoca era ancora molto lontana dal cogliere le dinamiche comunicative nella loro complessità, e in cui di fatto il destinatario era concepito come terminale passivo, indifeso e acritico del processo informativo. Da più parti si propendeva per un’idea di comunicazione a senso unico (dai mezzi di comunicazione ai destinatari), in cui il pubblico era considerato vittima di un apparato mediatico onnipotente.

Gli studi enunciazionali, la semiologia, i cultural studies, che pure avrebbero contribuito a rivalutare il ruolo del destinatario restituendogli finalmente un minimo di dignità e spessore intellettuale e a riconoscere altresì l’importanza cruciale del contesto sociale, erano ancora di là da venire quando Fattorello parlava ai suoi studenti di soggetto promotore e soggetto recettore come termini di un rapporto informativo simmetrico, in cui il soggetto recettore era in grado di aderire o rifiutare quanto proposto dal soggetto promotore. Questa assunzione, che forse oggi può apparire scontata, era impensabile in un periodo in cui gli studiosi erano intenti a scagliare anatemi disperati contro un sistema mediale pericolosissimo e malvagio che minacciava la massa sprovveduta con i suoi poteri di persuasione occulti.

La relazione tra soggetto promotore e soggetto recettore costituisce a mio parere l’aspetto più interessante della teoria, soprattutto perché gli attuali mezzi di comunicazione consentono molto più dei tradizionali mass media di massimizzare il loro rapporto, esplicitando compiutamente il ruolo del recettore quale soggetto interpretante e in un secondo momento promotore dell’informazione stessa. Mi spiego meglio: il processo previsto dalla teoria di Fattorello, nonostante si applichi a qualunque processo informativo, trova in pratiche comunicative quali i forum e i social network, nelle realtà web 2.0, nelle edizioni online dei tradizionali quotidiani e, per farla breve, in tutte quelle forme di comunicazione in cui assistiamo alla continua produzione di contenuti da parte degli utenti-recettori, una visibile rappresentazione.

L’obiettivo di questa tesina sarà pertanto quello di illustrare la teoria di Fattorello nei suoi aspetti fondamentali, concentrandoci in particolare sul carattere bilaterale e continuo del processo informativo, utilizzando a titolo esemplificativo proprio le nuove pratiche di socialità interattive che si sviluppano su internet.

La tecnica sociale dell’informazione: uno sguardo d’insieme

Secondo Fattorello tutte le volte che parliamo, raccontiamo, esponiamo un pensiero, quello che in realtà stiamo facendo è cercare di accreditare la nostra opinione, con l’intenzione, che ne siamo consapevoli o meno, di convincere il nostro interlocutore della sua giustezza. Tuttavia l’opinione, a differenza della credenza, non può essere considerata assolutamente giusta, poiché il suo oggetto è sempre qualcosa di oscuro e inafferrabile, qualcosa di inconoscibile o non ancora conosciuto (il futuro ad esempio), o ancora qualcosa che si presta a diverse valutazioni a seconda dei punti di vista, motivo per cui le opinioni su un medesimo argomento sono sempre diverse e contraddittorie. Se l’opinione potesse essere verificata allora diventerebbe conoscenza e quindi patrimonio della cultura condivisa. Al contrario l’opinione è un qualcosa di estremamente provvisorio e mutevole, poiché non poggia su un sapere consolidato e verificabile, ma è piuttosto un nostro modo di osservare un dato problema, in un dato momento, da un determinato (e dunque limitato) punto di vista. Da questa premessa deriva il carattere effimero e soggettivo di qualunque opinione, nonché la sua impossibilità di essere durevole nel tempo. Come spiega Lippman inoltre, la realtà è estremamente complessa perché gli uomini possano averne una conoscenza esaustiva e profonda; piuttosto, essi colgono della realtà solo alcuni frammenti, frammenti con i quali vanno a costruire le proprie rappresentazioni stereotipate e soggettive del mondo che li circonda. Da qui derivano le innumerevoli interpretazioni (opinioni) che possono essere date circa un medesimo oggetto.

La Tecnica Sociale fattorelliana è tecnica dell’ informazione e non della comunicazione proprio perché parte da questi presupposti. Il termine informazione infatti, sottende un processo preliminare di messa in forma della realtà, la quale una volta in-formata viene trasmessa al soggetto recettore. In altri termini, qualunque sia l’oggetto di discussione, non è l’oggetto in quanto tale che viene inserito nel processo informativo ma solo una sua particolare forma o interpretazione, quale è stata data dal soggetto promotore. Il soggetto promotore filtra infatti la realtà attraverso quelli che sono i suoi interessi, i suoi valori e soprattutto le attitudini che sono il risultato della sua acculturazione. Qui occorre fare alcune precisazioni. Soggetto promotore e soggetto recettore sono soggetti sociali nella misura in cui sono il risultato non soltanto dell’educazione che hanno ricevuto, o degli strumenti culturali di cui dispongono, ma anche di tutte le varie esperienze che li hanno formati, dei valori a cui sono stati socializzati dai gruppi di riferimento (famiglia, amici), delle idee e delle credenze che hanno interiorizzato e che, come spiega Stoetzel, «si frappongono come un prisma tra l’individuo e la sua visione delle cose». Le attitudini si vengono formando gradualmente sotto l’impulso di tutti questi stimoli squisitamente sociali, ai quali gli individui sono sottoposti sin dall’infanzia e dai quali ereditano le proprie visioni del mondo. Ecco perché la tecnica dell’informazione è tecnica sociale, perché ciò che erroneamente crediamo essere un nostro personalissimo modo di pensare, è in realtà un prodotto differito di tutti le pressioni ambientali a cui siamo stati sottoposti lungo l’arco di una vita. L’attitudine è un po’ la sintesi di tutto quello che abbiamo assimilato. E l’attitudine è ciò da cui derivano, anche se non in maniera deterministica, tutte le nostre opinioni.

Il processo informativo è dunque un processo complesso, che vede protagonisti due soggetti in ugual misura opinanti: l’uno, il soggetto promotore, che innesca il processo trasmettendo la sua opinione su ciò che è oggetto d’informazione, l’altro, il soggetto recettore, destinatario dell’opinione, che a sua volta la interpreta filtrandola attraverso valori e attitudini che gli sono propri. Da questo punto di vista diciamo che il rapporto tra i due termini del processo è paritario. Perché il soggetto recettore può rifiutare l’opinione proposta dal promotore, oppure può aderirvi se conforme alle sue attitudini e allora ci sarà comunicazione. Il recettore potrà in un secondo momento esprimere la propria opinione e diventare così promotore presso altri recettori, i quali diverranno poi promotori, e così via. Di conseguenza il recettore non è mai un bersaglio passivo, ma decide se concedere la propria adesione o meno attraverso una serie di passaggi preliminari. La primissima fase è quella del contatto che si realizza attraverso un determinato mezzo. La seconda è quella dell’interesse, che è già una fase discriminante perché il recettore potrebbe considerare irrilevante, sulla base dei suoi interessi e delle sue attitudini, l’argomento di cui si parla, nel qual caso il processo verrebbe interrotto. La fase successiva è quella dell’attenzione, cui segue la valutazione. La valutazione è una fase cruciale perché è quella in cui il recettore stabilisce l’effettiva coerenza tra l’opinione propostagli e il sistema di credenze e valori al quale fa riferimento, ed è a partire da questa valutazione che egli deciderà se concedere la propria adesione d’opinione o meno.

Bisogna tuttavia considerare che quando si opina su qualcosa vengono chiamati in causa anche quelli che vengono definiti fattori di conformità. I fattori di conformità agiscono nel senso di rendere per l’appunto conformi le opinioni. Essi hanno una carica sociale tale da risultare in qualche modo coercitivi, limitando di conseguenza la libertà del soggetto di dissociarsi da una data opinione. Fattori di conformità sono la ragione, i valori condivisi, l’opinione della maggioranza (conformismo sociale) e infine gli stereotipi. Sebbene dunque le opinioni siano soggettive (e non private) i fattori di conformità possono in qualche modo alterare l’autenticità di un opinione.

Riassumendo, la formula del processo informativo viene così schematizzata da Fattorello:

x)

                                 M

Sp                                                             Sr

                                 O

dove x è ciò di cui si parla, l’argomento oggetto di opinione, che come abbiamo detto rimane fuori dal rapporto d’informazione ma ne è il presupposto; Sp ed Sr sono rispettivamente il promotore e il recettore; O è la forma che Sp ha dato ad x, ovvero la sua interpretazione, l’opinione; e infine M è il mezzo attraverso cui si stabilisce il rapporto d’informazione.

Ora, vorrei soffermarmi proprio sul mezzo. Abbiamo detto che il rapporto che lega i due termini è bilaterale, dal momento che il recettore ha piena facoltà di interagire con il promotore discutendo l’opinione e rivestendo in un secondo momento egli stesso il ruolo di promotore. Tuttavia, lo strumento attraverso cui avviene il contatto tra Sp ed Sr può in qualche misura limitare la reciprocità tra i due termini, rendendo in tal modo il rapporto sbilanciato a favore del promotore. Questo è quello che avviene con i mezzi di comunicazione di massa. Infatti come sappiamo, i contenuti di tv, radio e giornali vengono confezionati da un ristretto gruppo di persone e rivolti a un vasto pubblico di recettori, il pubblico di massa. Non vi è interazione e non vi è feedback. I recettori possono naturalmente rifiutare di aderire alle opinioni proposte, tuttavia non possono obiettare o confutare quanto viene loro detto, almeno non immediatamente. Questo limite è proprio dell’informazione contingente, informazione tempestiva il cui oggetto è l’attualità e in cui il rapporto tra Sp ed Sr è di breve durata. Ragion per cui l’adesione, quando vi sia, è immediata e superficiale. La brevità del rapporto di informazione contingente, nonché le peculiarità del mezzo (tv, radio, stampa), riducono la bilateralità entro il limite di tempo in cui il rapporto si attua. Vale a dire che il recettore potrà sempre pubblicare una rettifica sul giornale, ad esempio, ma la sua opinione verrà comunque pubblicata il giorno seguente, cosicché la sua informazione rintraccerà un pubblico di recettori ben diverso da quello del giorno prima. Tuttavia, se è vero che il rapporto informativo contingente realizzato attraverso i tradizionali mezzi dell’informazione pubblicistica privilegia il ruolo del promotore a scapito del recettore, la rivoluzione operata nell’attuale panorama mediale dai cosiddetti new media sembra poter superare alcuni limiti intrinseci dei media di vecchia generazione, arricchendo lo scambio informativo e valorizzando proprio l’opinione del recettore. Vediamo come.

Potere al recettore digitale

Quando parliamo di web 2.0 ci riferiamo a tutte quelle pratiche comunicative che si sono sviluppate con il passaggio da un web di prima generazione (non a caso detto 1.0), a una nuova filosofia di concepire la rete e il rapporto tra produttori di contenuti e consumatori. La filosofia del web 2.0 infatti, che si è sviluppata in maniera progressiva e graduale, parte da un presupposto molto semplice: gli utenti sono in grado di aggiungere valore con la propria partecipazione. Se un tempo la rete offriva una relazione tra promotori e recettori a senso unico, non dissimile quindi da quella dei media di massa, il nuovo approccio alla rete segna il passaggio ad un’epoca in cui gli utenti di internet diventano sempre di più protagonisti del processo informativo. Gli utenti fruiscono dei contenuti, rispondono con altri contenuti, scambiano opinioni, caricano video, canzoni, leggono i commenti, discutono, in altre parole arricchiscono lo scambio informativo creando un’agorà in cui ogni utente, con le proprie opinioni e i propri interessi, ha facoltà di esprimersi tempestivamente e in tempo reale. L’esempio più significativo in questo senso è senza dubbio costituito dai social network. Tuttavia i siti che offrono questa possibilità sono ormai innumerevoli.

Antesignano della pratica dell’authoring, intesa come possibilità di creare e immettere contenuti, è stato Wikipedia nel 2001. Wikipedia è un’enciclopedia online pubblicata in 266 lingue i cui contenuti vengono sviluppati in collaborazione dagli utenti. I wiki infatti sono siti o pagine web che possono essere modificati direttamente dai propri utilizzatori.

Anche i blog consentono un elevato grado di partecipazione ed uno scambio informativo simmetrico. La pratica del web blogging risale ufficialmente al 1997, anche se la proliferazione dei blog più svariati in rete è un fenomeno più recente. Un blog è una sorta di diario digitale. L’utente (promotore) che pubblica un blog lo aggiorna continuamente, producendo nuovi contenuti, condividendo con quanti si trovino a passare dalla sua pagina i propri pensieri, la musica e i video preferiti e in definitiva, qualunque cosa gli passi per la testa. Fin qui niente di strano. Ciò che però differenzia sostanzialmente il blog dai tradizionali siti personali, è che laddove questi avevano una struttura chiusa e non consentivano quindi ai visitatori-recettori alcun tipo di interazione, i blog configurano un rapporto del tutto inedito con il pubblico che assume un ruolo fondamentale: può commentare i post esprimendo le proprie opinioni e quindi dar vita a un dialogo che genera ovviamente valore aggiunto. I post vengono commentati, i commenti generano altri commenti e così via. L’essenza del web blogging è tutta nello scambio, di idee, di opinioni. Tant’è che le potenzialità di questo nuova pratica non sono sfuggite all’attenzione dei quotidiani online. All’epoca del web 1.0, per le versioni digitali delle testate online, interattività significava soprattutto scambio di idee attraverso posta elettronica e forum. Il forum consentiva ai lettori di un quotidiano di scambiare le proprie opinioni in un’area a loro riservata, di conseguenza l’intrusione dei lettori nel prodotto giornalistico era tutto sommato limitata. L’avvento della filosofia 2.0 ha aperto la strada a nuove forme partecipative che alcuni dei quotidiani più avveduti hanno immediatamente saputo sfruttare. La prima di queste è stata per l’appunto il blog. Repubblica.it è stata fra le prime testate a trasformare in blog le rubriche presenti sul proprio sito, consentendo ai lettori di commentare i post pubblicati. Altre testate si sono spinte oltre: Gazzetta.it ha dato vita a Gazzettaspace, un social network sportivo che consente ai lettori di aprire una propria pagina personale, all’interno della quale pubblicare le proprie opinioni, commentare gli articoli dei redattori e caricare ogni tipo di contenuto multimediale.

Ma il Corrieredellasera.it è stato ancora più temerario. Forte della consapevolezza ormai acquisita che l’apporto dei lettori, se opportunamente valorizzato, può costituire davvero una risorsa garantendo contenuti aggiuntivi, Corrieredellasera.it ha consentito ai lettori, a differenza di Repubblica.it, di commentare direttamente gli articoli. In altre parole basta effettuare la registrazione, cliccare su una qualsiasi delle notizie presenti in copertina (home page), leggere l’articolo per intero e pubblicare il proprio commento subito sotto il testo, nello spazio Commentalanotizia – condividi le tue opinioni su Corriere.it. In tal modo il prodotto editoriale si apre al confronto con i lettori, che non sono più relegati ad esprimersi in via del tutto eccezionale negli spazi a loro dedicati come blog e rubriche. Il recettore dell’informazione contingente, tradizionalmente sacrificato a non poter direttamente confutare, smentire, dissentire pubblicamente da quanto letto, oggi, grazie alle potenzialità spiegate dalla rete, può a tutti gli effetti essere un soggetto dell’informazione al pari del soggetto promotore: può pubblicare la propria opinione, ma soprattutto, può farlo in maniera tempestiva, come vogliono le regole dell’informazione contingente.

Questa rapida panoramica dimostra come l’uso di uno strumento come internet, possa, se correttamente utilizzato, attenuare o addirittura abbattere molti dei limiti propri dell’informazione pubblicistica, limiti che di fatto vincolano soprattutto il soggetto recettore. Gli esempi forniti dalle testate online testimoniano non soltanto che, qualora ve ne fosse ancora il dubbio, i recettori sono tutt’altro che soggetti passivi, ma anche che l’informazione contingente può, attraverso le nuove tecnologie, facilitare uno scambio informativo più equilibrato, costruttivo ma soprattutto democratico.

Terza pagina dei Giornali: Cultura impossibile ?

Laurea specialistica Editoria Media Giornalismo – UNIVERSITA’ DI URBINO – Professor Giuseppe Ragnetti – Materia d’insegnamento: Tecniche relazionali e comunicative

“Terza pagina dei Giornali: Cultura impossibile ?”

Elaborato di Tommaso Bertelli

In questo breve elaborato cercherò di rispondere alla domanda del titolo, se sia quindi possibile trovare cultura tra le pagine dei giornali; quotidiani, settimanali o mensili fa poca differenza.

Dopo una breve storia della terza pagina, affronterò l’analisi dei concetti di informazione contingente e informazione non contingente alla luce della Teoria della tecnica sociale dell’informazione di Francesco Fattorello , traendo poi alcune considerazioni finali

1. Breve storia della “terza pagina”.

Fin dalla metà dell’Ottocento e dalla nascita dei quotidiani nazionali il panorama giornalistico italiano si è contraddistinto per una netta distinzione tra giornali (fogli politico-informativi) e gazzette (di taglio più letterario o scientifico). Con la nascita della terza pagina questa marcata differenza viene ad assottigliarsi, fino a scomparire quasi con il passare degli anni. Questa particolare sezione trova la sua ragion d’essere in relazione ad un approccio molto superficiale e limitato del pubblico italiano alla lettura di libri, rispetto alla consuetudine più diffusa di accostarsi al quotidiano; essa deve pertanto integrare e sopperire a un vuoto culturale e letterario.

La terza pagina, chiamata così perché posta dopo le prime due, dedicate alle notizie di politica e cronaca, compare per la prima volta il 10 gennaio 1901 su Il Giornale d’Italia, storico quotidiano nazionale, diretto da Alberto Bergamini. Questi raccolse in un unico spazio i quattro articoli di cronaca e di critica sulla prima assoluta della Francesca da Rimini, di Gabriele D’Annunzio interpretata da Eleonora Duse. L’intuizione e lo scopo di Bergamini è, quindi, quello di aver dato vita ad una pagina che fondesse l’aspetto tecnico-giornalistico con quello artistico-letterario, cercando di dare in questo modo risalto alle mille sfaccettature della vita culturale e sociale del nostro paese. Questo spiega la varietà e la ricchezza della pagina che contiene recensioni teatrali e letterarie, articoli scientifici, interviste, pubblicazioni di stralci di nuovi romanzi inediti, cronaca sportiva, il tutto alleggerito da articoli di varietà e di mondanità.

Nonostante una prima fredda accoglienza da parte del pubblico dei lettori italiani, la notorietà non tardò ad arrivare per la nuova “creatura” di Bergamini, che venne poco a poco copiata ed introdotta negli altri grandi quotidiani nazionali. Fu la terza pagina del Corriere della Sera a diventare, in poco tempo, la più famosa e ambita: il direttore Luigi Albertini impose l’esclusiva di firma ai suoi collaboratori, tra i quali spiccano i nomi di Gabriele D’Annunzio, Luigi Pirandello e Grazia Deledda.

Per molti storici del giornalismo è il 21 aprile 1956 la data della morte della Terza: quel giorno, infatti, compare nelle edicole Il Giorno, quotidiano milanese di Enrico Mattei e diretto da Gaetano Baldacci. È il primo giornale nazionale a non avere la terza pagina, scelta adottata anche da la Repubblica vent’anni dopo, che la sostituirà con una sezione culturale di due pagine al centro del giornale.

La Stampa la abolirà nel 1989, mentre sarà Paolo Mieli nel 1992 a farla scomparire dalle pagine del Corriere della Sera.

Al giorno d’oggi la terza pagina propriamente detta non esiste più, mentre proliferano sui maggiori quotidiani nazionali sezioni culturali più o meno ampie, anche a cadenza settimanale come la Domenica di Repubblica o il domenicale de Il sole 24 ore.

2. Ci può essere una cultura contingente ? Risponde Francesco Fattorello

Il quotidiano è, per antonomasia, il luogo deputato all’informazione contingente, dato il suo carattere di immediatezza, tempestività e attualità, che, quindi, esclude dalla sua trattazione ciò che era presente prima e quello che sarà presente dopo. È invece solo l’informazione non contingente che può, con i suoi tempi e metodi più lenti, con la sua base di razionalità e adesione non emotiva, dare spazio alla cultura, se con questo termine “intendiamo un insieme di ingredienti in grado di mutare i nostri schemi mentali ed aprirci alla complessità e immensità del “fuori’” .

Alla luce di quanto detto, la cultura è il risultato di un lungo processo di sedimentazione d’opinioni e convinzioni che un individuo ha appreso ed interiorizzato attraverso tempi dilatati e via via cristallizzatesi. Non è quindi possibile che questo percorso possa attuarsi con un mezzo di diffusione delle informazioni che oggi apporta elementi di novità pronti ad integrare o, addirittura, smentire quelli di ieri.

L’informazione contingente dà sì la possibilità all’individuo di sensibilizzarsi sui temi d’attualità sociale, sul mondo che lo circonda, ma sarà poi solo con il tempo, attraverso media diversi dal quotidiano o dai periodici di breve durata, che svilupperà quel senso di “analisi” che lo porterà ad avere una cultura.

Secondo Francesco Fattorello la differenza tra le due categorie di informazione è data, oltre che dal tipo di materia trattata, anche dai soggetti: il promotore e il recettore. Nel primo caso, quello della contingenza, il promotore può non avere una qualificazione specifica e il recettore è generico; nel secondo caso, quello della non contingenza invece, il promotore è un soggetto qualificato così come lo è, di norma, anche il recettore . Ne deriva, quindi, la possibilità da parte del recettore nel processo non contingente di affermare tutta la propria reazione di opinione, instaurando così un rapporto bilaterale con il soggetto promotore, cosa che invece non si verifica nel caso dell’informazione contingente, dove il rapporto, nonostante sia tra due soggetti opinanti posti sullo stesso livello, è inevitabilmente a senso unico.

3. Sintesi e considerazioni finali.

Enrico Faqui loda il significato “sociale” della terza pagina affermando che favorì “non solamente la diffusione generale della cultura, ma operò in modo benefico sulla stessa arte dello scrivere liberandola da un’eccessiva fedeltà alle norme tradizionali e classiche” , mentre, ritornando al concetto di tempestività, è stato lo stesso Benedetto Croce a dire come le opere periodiche non debbano essere incluse nella storia delle opere letterarie, adducendo come principale motivazione proprio la tempestività, “il fatto che si trovino ad apparire in motivi pratici, non per servire l’arte e la bellezza” . Questa considerazione, per quanto fondata e autorevole, non è da me pienamente condivisibile per quanto riguarda l’oggetto di analisi di questo elaborato: la terza pagina.

Al tempo presente, infatti, le terze pagine e, in linea generale, le rubriche culturali dei periodici non hanno più le stesse caratteristiche delle loro antesignane dell’inizio del Novecento. Sulle pagine di oggi non si trovano, come succedeva allora, articoli di grandi firme, scrittori o filosofi, o romanzi a puntate, non hanno quindi quella pretesa alta di letteratura che Croce contestava. Oggi le sezioni “cultura” del Corriere della Sera o la Repubblica, L’Espresso o Panorama, riportano eventi culturali, mostre, spettacoli teatrali e non si spingono più in là di una recensione sull’ultimo film uscito nei cinema o sul best-seller appena pubblicato. Non hanno nessuna pretesa di fare cultura, ma vogliono solo rendere presente al lettore che una cultura c’è (forse).


  1. F.Fattorello, Teoria della tecnica sociale dell’informazione, a cura di Giuseppe Ragnetti. QuattoVenti, Urbino 2005.
  2. F.Fattorello, op. cit., pag. 149
  3. F.Fattorello, op. cit., pag. 130
  4. E.Faqui, Giornalismo e letteratura, Mursia, Milano 1969, pag. 16
  5. F.Fattorello, op. cit., pag. 112-113

Il Potere effimero della Pubblicità

Laurea specialistica in Editoria Media Giornalismo – Insegnamento di TECNICHE DI RELAZIONE – Prof. Giuseppe Ragnetti

“Il Potere effimero della Pubblicità”

a cura di Alessio Santarelli

Jacques Séguéla: “la pubblicità non sceglie per nessuno, permette solo di scegliere meglio”

Una delle maggiori preoccupazioni delle aziende che fanno ricorso alla pubblicità per reclamizzare i propri prodotti o servizi, è verificare se questa funzioni o meno. In poche parole una pubblicità per essere definita efficace deve far aumentare il numero di vendita del prodotto o servizio di cui si occupa, quindi deve persuadere il proprio pubblico, spingendolo all’acquisto.

I fautori della teoria forte della pubblicità sono convinti della sua grande potenza persuasiva.

Secondo questi la pubblicità infatti:

  • influisce in modo incisivo sugli atteggiamenti e sui comportamenti dei consumatori 
  • riesce a manipolare, senza che il consumatore ne sia consapevole, la sua volontà 
  • considera il consumatore passivo e sostanzialmente stupido 
  • è in grado di incidere sia sulle vendite di singole marche sia sulla vendita di interi settori merceologici 
  • si ispira ad una strategia d’attacco per essere più efficace 

Insomma, questa teoria si ricollegherebbe a quelle sulla comunicazione che tra gli anni ’50 e ’70 sostenevano lo strapotere dei media (effetti potenti, lineari e forti) e di conseguenza un pubblico senza scampo, privo di qualsiasi mezzo di difesa.

Questa tesi è però ormai insostenibile. La teoria sostenuta dal Professor Fattorello, ha da tempo smentito gran parte dei presupposti su cui si basavano le cosiddette teorie dei poteri forti. La seguente formula idiografica ci aiuterà a capire meglio di cosa stiamo parlando:

x)

                              M

Sp                                                     Sr

                              O

Sp è il soggetto promotore dell’informazione, Sr il soggetto recettore, M il mezzo o strumento tramite il quale Sp trasmette O a Sr e O è l’interpretazione che Sp ha dato della realtà, cioè la forma data all’oggetto dell’informazione. La x sta ad indicare invece l’oggetto dell’informazione, ciò di cui si parla e quindi il motivo per cui si mette in atto il rapporto di informazione. Come si può notare questo resta fuori dal rapporto stesso. 

Una delle principali innovazioni apportate dalla teoria fattorelliana è quella di aver “restituito” pari dignità al soggetto recettore con il soggetto promotore. In poche parole Sr, che nel caso della pubblicità è rappresentato dal pubblico al quale la reclame è indirizzata, è comunque dotato delle stesse facoltà opinanti di cui dispone Sp, e quindi si tratta di un soggetto tutt’altro che  totalmente condizionabile e succube del messaggio promozionale.

E’ anche per questo che la misurazione dell’effetto che consegue dall’applicazione dei processi d’informazione contingente, quale è la pubblicità, risulta essere se non del tutto impossibile, quanto meno assai difficile. Non si può prescindere dal dato di fatto che esistono innumerevoli variabili non calcolabili che intervengono tra il momento di messa in circolazione della rèclame e il momento in cui il consumatore acquista finalmente il prodotto pubblicizzato: tra queste, come abbiamo detto, c’è la soggettività di ogni singolo individuo che lo porta ad avere diverse e autonome facoltà opinanti.

Quindi anche quando Sr è rappresentato da un gruppo, o meglio ancora da una vera e propria massa, sarebbe del tutto sbagliato pensare ad un annullamento della personalità umana, nonché alla rinuncia ad ogni facoltà opinante che comporterebbe un conformismo totale.  

Oltre ad avere le stesse facoltà opinanti del promotore, il soggetto recettore deve essere socializzato allo stesso ambito culturale di Sp.

Questa corrispondenza culturale è necessaria e indispensabile affinché il rapporto di informazione abbia l’effetto voluto, cioè che il contenuto venga ricevuto e capito senza difficoltà o distorsioni. Perché questo accada, Sp deve conoscere i fattori di acculturazione del recettore, in modo tale da potersi adeguare a lui sempre mantenendo come scopo quello di ottenere una conforme adesione di opinione.

Proprio per questo, le aziende che investono nei vari messaggi pubblicitari, fanno un largo uso di ogni tipo di ricerca di mercato prima durante e dopo la realizzazione di  una rèclame, nel tentativo di conoscere il proprio soggetto recettore, e in seguito di verificare se l’effetto ottenuto è conforme a quello che si desiderava.

Le aziende ormai adottano questa strategia per fare identificare i consumatori con l’immagine che esse diffondono di se stesse.

L’idea di adattare di volta in volta in volta l’immagine delle proprie campagne al destinatario del messaggio ha come scopo quello di influenzare maggiormente il consumatore attraverso un linguaggio più consono ai suoi schemi di pensiero, di ottenere un maggiore consenso da parte sua e, di conseguenza, un maggiore successo di vendita di prodotti.

Adottare un linguaggio vicino, simile a quello utilizzato all’interno del pubblico di riferimento cerca di ridurre l’atteggiamento difensivo nei confronti del messaggio pubblicitario tenuto dal consumatore contemporaneo, in contrasto con la sensazione di venire bersagliato a tutti i livelli che ormai lo attanaglia.

Un caso esemplare è quello di Apple, nota azienda produttrice di sistemi e supporti informatici, che da anni ormai si propone come marca giovanile, creativa e libera. I prodotti Apple propongono una nuova idea di un informatica e computing snella e semplice all’uso, sia sul versante tecnico e tecnologico, che su quello visivo e di design che consta di linee snelle, essenziali e colori neutri e rassicuranti.

L’obiettivo è quello di adeguarsi alla porzione di audience rappresentata dai giovani che hanno nuova e più moderna visione dell’informatica, come mezzo per esprimersi liberamente e creativamente.

Le aziende che adottano questo sistema fondano la loro strategia anche su una profonda e radicale differenziazione dalle marche concorrenti, meccanismo che innesca un forte sentimento di appartenenza e coesione tra coloro che ne utilizzano i prodotti.

Questo comporta un cambiamento nella natura del soggetto – oggetto della pubblicità che da recettore si fa promotore dei valori della marca nei confronti di nuovi soggetti recettori, innescando una catena di processi di informazione che può svilupparsi in maniera orizzontale e lineare oppure che può espandersi a raggiera.

           M                       M                       M

Sp                Sr – Sp              Sr-Sp                Sr

           O                         O                       O

L’effetto sugli individui può essere infatti condizionato proprio dal sentimento di appartenenza al medesimo gruppo. Chi ascolta un discorso pubblico dà non solo la propria adesione di opinione favorevole i meno a quanto ascolta o utilizza ma, sia pure inconsapevolmente, è influenzato anche dai soggetti con cui interagisce o con cui viene a contatto.

Su questi presupposti si fondano ad esempio le nuove strategie di marketing che le aziende utilizzano sempre più frequentemente: guerrilla marketing, viral marketing, e buzz marketing sono alcuni degli esempi di pubblicità che si basa sul passaparola tra un soggetto e l’altro. 

Nonostante ciò, bisogna necessariamente attuare una distinzione tra l’adesione di opinione del recettore (unico possibile effetto realizzabile dalla azione pubblicitaria), dall’atto di acquisto vero e proprio. In effetti, quest’ultimo è da considerarsi un momento del tutto diverso e distinto dall’adesione all’opinione.

Non è raro imbattersi in un soggetto recettore che si limiti soltanto alla prima fase (adesione all’opinione del promotore) senza poi passare all’acquisto.

In altri termini il professor Francesco Fattorello sostiene che in gran parte gli sforzi pubblicitari delle aziende si possono rivelare completamente inutili al fine di condizionare il consumatore dal momento che lo slogan utilizzato dai pubblicitari “la pubblicità fa vendere” dovrebbe essere sostituito da altra più appropriata affermazione: “la pubblicità accredita un’opinione favorevole al prodotto o servizio per il quale è stata messa in atto”

La Comunicazione in una azienda medio-grande analizzata con i metodi della Teoria sociale dell’informazione

Tesina di TECNICA SOCIALE DELL’INFORMAZIONE a cura di Michele Gianfranco Aita

“La Comunicazione in una azienda medio-grande analizzata con i metodi della Teoria sociale dell’informazione”

  • INTRODUZIONE
  • L’AZIENDA
  • ORGANIZZAZIONE
  • PROCESSI DI COMUNICAZIONE AZIENDALE
  • BENEFICI ATTESI DALL’UTILIZZO DELLA TEORIA SOCIALE

INTRODUZIONE

In prima battuta, immaginando una società che sviluppa e realizza tecnologie di telecomunicazione, ci si aspetterebbe che tecnici, impiegati e dirigenti utilizzino il proprio tempo principalmente nella
predisposizione delle strategie di marketing, redazione di offerte, contratti e specifiche, nella progettazione, realizzazione ed esercizio di sistemi ed impianti tecnologici, in generale in attività gestionali, tecniche e commerciali.

In realtà l’attività principale che viene effettuata è la comunicazione: tra colleghi, funzioni aziendali diverse, tra responsabili e coordinati, tra appartenenti ad un gruppo di lavoro, tra rappresentanti sindacali ed impiegati. All’interno dell’azienda è sviluppata una rete di comunicazioni estremamente articolata che a sua volta si estende verso l’esterno, tramite svariati punti di contatto,
raggiungendo clienti, fornitori, società concorrenti, banche, organi d’informazione, parenti ed amici dei dipendenti.

In questo lavoro non vi è la pretesa di schematizzare e catalogare i processi di comunicazione della società in quanto impresa troppo complessa, ma di descriverne alcuni utilizzando la teoria sociale di Francesco Fattorello.

L’AZIENDA: CT S.p.A. – società di tecnologie di comunicazione

La CT S.p.A. (il nome è ovviamente di fantasia) nasce nella seconda metà del XX secolo per sviluppare nuove tecnologie di telecomunicazione. All’inizio l’azienda è costituita da pionieri, ingegneri e sperimentatori che con tecnologie anche non consolidate avviano collegamenti di
telecomunicazioni.

L’azienda si sviluppa rapidamente, anche per la grande richiesta di sistemi e servizi di
telecomunicazione, e di conseguenza anche la parte economica legata alle attività diventa
importante. L’importanza dei servizi resi e la dimensione economica sono tali da portare ad un certo punto ad una svolta: la società di pionieri e tecnici diventa una società da gestire politicamente, chi non è d’accordo deve fuoriuscire e così avviene. I fuoriusciti creano una nuova società caratterizzata da una gestione tecnica.

La CT S.p.A. continua a crescere, aumenta il numero dei suoi impiegati, crescono le infrastrutture, aumenta la dimensione economica. Verso la fine del millennio si ha l’esplosione della borsa e la fine dei monopoli nelle telecomunicazioni, energia. Rapidamente l’esplosione termina lasciando i brandelli delle aziende: la bravura dei manager diventa cercare di raccogliere i beni che le aziende
hanno accumulato nel dopoguerra operando in un mercato protetto.

La CT S.p.A., passa di mano nel nuovo millennio e, quando il salvadanaio è svuotato, rischia di sparire nel nulla.

Ma la gestione politica la salva nuovamente, con un nuovo passaggio di mano dopo cinque anni, tramite l’acquisizione effettuata da un gruppo di gestione finanziaria di società tecnologiche.

La mission della CT S.p.A. diventa quindi creare ritorni agli azionisti, ossia contribuire a mantenere alto il valore azionario ed il ritorno sugli investimenti della società di gestione finanziaria.

ORGANIZZAZIONE DELL’AZIENDA

L’organizzazione dell’azienda è di tipo gerarchico, caratterizzata da un vertice aziendale e figure apicali che rispondono al vertice. Lo strumento grafico per rappresentare la gerarchia è
l’organigramma aziendale che viene comunicato insieme alle Comunicazioni Organizzative ed agli Ordini di Servizio che indicano le persone e relative funzioni, obiettivi, responsabilità ed allocazione nell’organigramma aziendale. Tipicamente, ma non obbligatoriamente, esiste una corrispondenza tra la posizione nell’organigramma e l’inquadramento aziendale. Ragionamento analogo vale per la retribuzione: salvo eccezioni, livelli più alti di inquadramento e posizioni più vicine al vertice nell’organigramma aziendale corrispondono a retribuzioni maggiori.

PROCESSI DI COMUNICAZIONE AZIENDALE

In un’azienda medio-grande i processi di comunicazione sono molteplici, è cosa ardua cercare di elencarli e descriverli senza lasciarne sfuggire alcuni.

Comunicazioni Organizzative ed Ordini di Servizio.

Fanno parte delle comunicazioni di gestione del personale, tipicamente siglate dal capo azienda e vistate dal responsabile del personale oppure emesse dal responsabile del personale.

In questo tipo di comunicazioni si delinea una comunicazione di tipo contingente, ossia la notizia dell’assegnazione di funzione o responsabilità ad una certa persona, ed una comunicazione assimilabile alla comunicazione non contingente: chi dovrà rivolgersi ad una certa funzione aziendale potrà in seguito consultare in ogni momento l’organigramma e gli ordini di servizio così come si consulta un manuale per sapere a chi rivolgersi.

Sino a qualche anno fa tali comunicazioni venivano appese in bacheca, costituendo motivo immediato di aggregazione e commento. Poiché ognuno dispone di una postazione informatica e di un indirizzo di posta, il Mezzo utilizzato è diventato un messaggio di posta elettronica inviato a tutti contenente la scansione elettronica della comunicazione e del grafico firmate e siglate.

Il Soggetto proponente è il vertice aziendale e tutti gli appartenenti all’azienda costituiscono i Soggetti recettori.

Ancora una volta troviamo una conferma della teoria del Fattorello: il Soggetto recettore è opinante e riconoscerà la posizione e funzione solo se aderirà alla formula proposta.

Comunicazione Esterna.

E’ un processo di comunicazione così importante da meritare una struttura aziendale dedicata. Si occupa di rapporti con organi di informazione ed agenzie, di gestione del logo aziendale, della preparazione di eventi, stand, della partecipazione a esibizioni ed esposizioni, della redazione di note informative e del periodico aziendale. Note e periodico costituiscono un mezzo di comunicazione interno oltre che esterno cui si aggiungono le pagine web dell’intranet rivolte esclusivamente all’interno.

La comunicazione effettuata dalla struttura comunicazione adopera una formula di opinione per cui tutte le notizie vengono date in chiave positiva, incluse notizie di assegnazione contratti ad altre aziende anche concorrenti.

E’ interessante soffermarsi su un dettaglio del logo aziendale: caratterizzato da un simbolo grafico seguito dal nome della società e, inizialmente, da una descrizione del tipo di telecomunicazioni sviluppate. Nella prima vendita la descrizione scompare per riapparire dopo la seconda vendita,
diventando “una società di proprietà della società finanziaria” . Non è semplice dire chi sia il soggetto proponente di questo tipo di comunicazione, potrebbe essere il gruppo finanziario acquirente che intende informare gli azionisti dell’avvenuta acquisizione oppure i vertici aziendali che dicono in questo modo “facciamo pare di un grande gruppo”. Il messaggio però arriva anche ai dipendenti e per taluni l’opinione sarà diversa e potendo essere ad esempio “la proprietà dell’azienda è il gruppo finanziario” e quindi un spinta alla deresponsabilizzazione, dovendo lavorare per la proprietà.

Comunicazione tra vertice aziendale e corpo dirigente

Frequentemente il vertice aziendale riunisce dirigenti di più linee o funzioni per analizzare dati economici, situazione vendite, avanzamento attività o progetti. In questi casi il vertice parla ed il corpo dirigente ascolta senza possibilità di replica. Durante l’incontro non esiste contradditorio o la possibilità di discutere modalità alternative di impostazione attività, di allocare diversamente le
risorse o concordare azioni correttive.

In tali contesti non è corretto dire che la comunicazione sia monodirezionale ma occorre osservare che cambia il mezzo è la forma data all’oggetto dell’informazione a seconda della direzione. Nella direzione vertice verso corpo dirigente sarà prevalente l’utilizzo di dati e verbale con tutte le
tonalità della voce mentre nella direzione opposta ci sarà prevalenza nell’utilizzo della postura, dello sguardo ed espressione, dei movimenti.

Comunicazione tra vertice aziendale e corpo aziendale riunito

Questo tipo di comunicazione viene attivato sporadicamente, ad esempio in occasione delle festività natalizie per lo scambio di auguri. La modalità organizzativa prevede la preparazione nella sala mensa di un banco e un pulpito dal quale parla il vertice aziendale, la presentazione di slides. Il personale dipendente della sede è ospitato nella sala e le sedi periferiche sono collegate in
videoconferenza.

Analogamente alla comunicazione tra vertice aziendale e corpo dirigente non esiste contraddittorio: vengono presentati una raccolta di dati economici, descritte alcune iniziative, ascoltate le domande preconfezionate e concordate dalle sedi periferiche e data risposta.

In alcuni casi non sono previste domande da parte della platea, allo scopo viene preparato un banco con un rinfresco. Pertanto terminata la comunicazione viene improvvisamente invitata la platea ad approffittare del rinfresco, impedendo di fatto qualsiasi tipo di intervento o replica.

Le modalità adottate rendono tale comunicazione prevalentemente di tipo contingente ed unilaterale. Quanto rimane nei recettori a distanza di tempo, è la sensazione provata ed il ricordo di alcune promesse che la maggior parte delle volte risultano non venire attese.

Comunicazione tra appartenenti a diversi enti aziendali

E’ la tipologia di comunicazione più frequente in azienda e spesso la più difficoltosa. Consiste
tipicamente nella richiesta che un appartenente ad un ente aziendale fa ad uno o più appartenenti di altri enti aziendali di fare qualcosa. La difficoltà principale è nella diversità di obiettivi e priorità tra gli appartenenti ai diversi enti aziendali. Si pensi ad un addetto alla produzione che chiede l’approvvigionamento di un bene ad un addetto agli acquisti. L’addetto alla produzione avrà necessità del bene quanto prima, mentre l’addetto agli acquisti avrà l’interesse di fare una ricerca di mercato ed una trattativa con i fornitori per avere il massimo sconto o il prezzo più basso (le due cose possono non coincidere).

Le modalità di comunicazione sono numerose e varie. Di seguito un elenco che non vuole essere esaustivo:

  • verbale telefonica
  • verbale andando a trovare il recettore nella sua postazione di lavoro
  • verbale in occasione di un incontro occasionale (nei corridoi, davanti alla macchina del caffè/distributore/mensa/garage, ecc.)
  • verbale durante una riunione (spesso seguita da verbalizzazione scritta)
  • scritta tramite una nota o comunicazione
  • scritta tramite e-mail

Tra queste modalità, la comunicazione tramite e-mail è diventata di gran lunga la più frequente.

Semplice e rapida da attivare, permette multiple destinazioni, comprende tre modalità di indirizzamento dei destinatari (A, CC e CCN), permette di allegare immagini, documenti, programmi.

L’informazione trasmessa tramite messaggi di posta elettronica è di tipo contingente. Nonostante grossi sforzi nel cercare di utilizzare i messaggi e gli allegati organizzandoli in cartelle, archivi,
argomenti, clienti e progetti, si ottengono risultati insoddisfacenti nel descrivere o sintetizzare un argomento tramite i messaggi inviati per posta elettronica così come nel ricercare le informazioni che interessano a distanza di tempo.

La semplicità e facilità nel preparare e inviare un messaggio di posta elettronica ha come
contropartita degli aspetti negativi: mentre una comunicazione verbale può essere adeguata (mitigata oppure accentuata) dal comportamento del soggetto recettore, l’e-mail è come una cannonata: una volta emessa è difficile e non sempre rapido vederne gli effetti.

La quantità di e-mail che arrivano quotidianamente è in continua crescita. Si è passati nel tempo dal riceverne qualcuna in una settimana a diverse decine al giorno, per taluni anche un centinaio. La prima reazione difensiva è il rafforzamento della barriera, con diverse modalità: utilizzando sistemi automatici per instradare i messaggi pubblicitari o indesiderati (SPAM) in apposite cartelle, non considerando le mail in cui si è in copia CCN / CC, le mail ricevute da colleghi in posizioni gerarchiche inferiori o pari, ecc.

Taluni hanno la seguente convinzione: è importante scrivere ed inviare il messaggio di posta elettronica, mentre che il destinatario non legga o non dia seguito a quanto scritto, è di importanza secondaria. E’ la comunicazione di chi ha interesse nell’apparire e non nel fare o ottenere risultati, ovvero è la negazione della comunicazione.

La comunicazione diviene efficace solo se il destinatario, soggetto recettore, condivide gli intenti dell’informazione ed aderisce alla formula proposta. Allo scopo è indispensabile che il soggetto promotore consideri, del destinatario, le modalità di funzionamento della funzione aziendale, gli obiettivi preposti, i mezzi a disposizione, la possibilità di dar seguito a quanto richiesto, il livello culturale.

BENEFICI ATTESI DALL’UTILIZZO DELLA TEORIA SOCIALE

Per poter ipotizzare i benefici che potrebbero derivare dall’applicazione della teoria sociale dell’informazione occorre dapprima valutare la modalità di comunicazione attuale.

Interconnessioni nella formula

La verifica dell’interconnessione della formula nella comunicazione utilizzata dal vertice aziendale può essere fatta analizzando gli obiettivi posti al corpo dirigente ed ai responsabili di funzione e la modalità organizzativa adottata.

Le caratteristiche principali risultano essere le seguenti:

  1. Obiettivi di risultato: vengono dati obiettivi non basati su valutazioni oggettive che
    normalmente risultano essere irraggiungibili e quindi non raggiunti
  2. Obiettivi delle funzioni: gli obiettivi dati alle diverse funzioni sono normalmente in
    contrasto tra di loro
  3. Modalità organizzativa: volta alla puntualizzazione dei rapporti gerarchici tra le posizioni apicali e non finalizzata a favorire l’attività produttiva
  4. Ripartizione del lavoro: caratterizzato da duplicazione delle attività e lacune funzionali: determinate attività necessarie sono senza assegnazione

La valutazione che ne consegue è l’assenza di chiusura, almeno a livello di comunicazione del vertice, della formula di comunicazione. I motivi ipotizzabili sono almeno due:

  1. la conoscenza insufficiente dei meccanismi del processo di comunicazione
  2. la volontà di nascondere le scarse competenze manageriali evitando il confronto con pari grado e coordinati.

Obiettivi e modalità organizzative sopra descritti hanno come conseguenza condizioni di sovraccarico di lavoro per taluni e l’impossibilità di adempiere a quanto richiesto o desiderato (la cosiddetta coperta troppo corta) e vuoto lavoro per altri.

Entrambe le situazioni sono causa di stress e mortificano la maggior parte delle persone con
conseguenze che si estendono anche al di fuori dell’ambito lavorativo.

L’applicazione della teoria avrebbe come conseguenza il miglioramento dell’organizzazione ed una migliore efficienza dei processi produttivi a spese di un minor potere di chi occupa posizioni apicali per motivi diversi dalla capacità o merito.

Ipotesi per l’introduzione del processo di comunicazione fattorelliano

Nella CT S.p.A., analogamente alle altre aziende di pari dimensione e tipologia, viene data rilevanza alla formazione.

In particolare nel settore che si occupa di Risorse Umane è definita l’area Formazione con relativo budget ed il sistema informatico aziendale prevede la registrazione delle esigenze di formazione e la formazione effettuata da ciascun dipendente.

Il punto di partenza è riuscire a far comprendere a chi ha la responsabilità di gestire la formazione ed alle figure apicali aziendali i benefici attesi dall’utilizzo della teoria fattorelliana.

L’area Formazione è caratterizzata da un elevato livello culturale ed è ben disposta ad introdurre nuovi processi formativi. La difficoltà maggiore è con le figure apicali, spesso focalizzate nel contenimento dei budget ritenuto ottenibile tramite effettuazione della sola formazione obbligatoria (ad esempio per la sicurezza). La dimostrazione dei benefici attesi va pertanto effettuata in termini di saving ottenibili oppure in termini di maggiori introiti/redditività delle attività aziendali.

Raggiunta la convinzione dell’opportunità di una formazione sul processo di comunicazione
fattorelliano, l’area Formazione dispone delle competenze e dell’esperienza necessaria per
organizzare una serie di corsi articolati per dirigenti, quadri ed impiegati.

Così è se vi pare !

Tesina di Alessio Colantoni

“Così è se vi pare !”

Premessa

Prima di iniziare la trattazione del tema che ho scelto per questo lavoro vorrei fare alcune considerazioni riguardo il corso e spiegare cosa mi ha portato a scegliere questo tema.

Quando mi fu proposto di partecipare al corso ero molto scettico poiché lontano dai miei studi e pertanto non ritenevo potesse interessarmi credendo si trattasse di
un mero corso di comunicazione, ma decisi comunque di accettare attratto dalla
possibilità di avere un certificato riconosciuto a livello internazionale.

Questa mia idea del corso però venne smentita dalla prima lezione, in cui parlammo di tutto tranne che di comunicazione toccando tematiche che mai avrei immaginato e che addirittura sminuivano il potere della comunicazione, perciò mi chiesi “se la comunicazione non ha tutto questo potere che le si attribuisce, a cosa serve questo corso di comunicazione?”.

La risposta del Prof. Ragnetti, che era appena tornato da uno degli incontri sul Tibet riservati ai pochi eletti come lui fu, “la comunicazione e il modo di comunicare può influenzare e modificare le nostre opinioni, ma solo l’educazione è in grado di influenzare i nostri comportamenti”.

Questa risposta, nonostante risalga ad una delle prime lezioni, mi fece comprendere il significato del corso e l’importanza di un elemento che mai avevo ritenuto importante, l’opinione!

Perciò ho deciso di approfondire questo tema, l’opinione, prendendo alcuni spunti dalla visione di Pirandello sulla soggettività della realtà e dell’io.

Per concludere le mie considerazioni sottolineo come questo corso in realtà non
mi ha insegnato niente che già non sapessi ma ha messo in evidenza concetti che non sapevo di sapere.

L’opinione questa sconosciuta!

Quando parliamo di opinione ci riferiamo a qualcosa di opposto alla certezza la quale deriva da uno stato d’animo “di riposo” pur sempre soggettivo, cioè la certezza è la coscienza di una verità soggettiva che può essere differente dalla verità di qualcun altro; la certezza spesso si confonde con la convinzione ma questa non si fonda su un evidenza dell’oggetto bensì deriva dall’adesione totale ed irrazionale ad una opinione.

L’opinione è la propria conoscenza di fatti contingenti. Cosa significa?

L’opinione nasce dal dubbio, da uno stato di incertezza, dalla mancanza di una verità riconosciuta, questo stato d’animo porta le persone alla ricerca di verità e quindi alla formulazione di giudizi di opinione.

Quindi l’opinione è un punto di vista, un modo personale di spiegare un fatto, una idea di verità; questi elementi la caratterizzano come provvisoria ed estremamente soggettiva, dipendente dallo specifico stato d’animo di quel momento, perciò come dice Platone è una falsa verità destinata a mutare.

Le opinioni sono valide nello specifico momento in cui vengono espresse condizionate dallo specifico stato d’animo e contesto ma non è detto che queste
rimangano tali in altri contesti o che addirittura esse rappresentino veramente il
proprio pensiero.

Essa non si costituisce di valori, credenze, conoscenze forti ma soltanto di stereotipi determinati soprattutto dal gruppo o gruppi a cui si appartiene e dai processi informativi che mirano a generare determinate opinioni, è qui che la comunicazione e l’informazione agisce e manipola fino a generare convinzioni.

Questa debolezza dell’opinione spiega appunto come questa sia suscettibile a frequenti cambiamenti dovuti a fattori come gli avvenimenti della vita quotidiana, il diffondersi di nuove idee, nuovi movimenti e, ciò che più ci interessa ma che non approfondiremo, i mezzi d’informazione come la radio, la televisione, il giornale.

Questi mezzi agiscono sull’opinione delle persone, ovvero sull’opinione pubblica,
attraverso la manipolazione delle informazioni a seconda dell’interesse e del valore che vogliono attribuirgli; le informazioni date da un giornale, per esempio, solitamente sono diffuse secondo l’orientamento politico dei lettori per cui queste saranno esattamente come il lettore, da noi chiamato soggetto recettore, le vuole e in queste esso si rivede e trova conferma delle proprie opinioni generando così in esso la convinzione. Quindi perché ci sia comunicazione è necessario che ci sia
convergenza di interpretazione del fatto tra promotore e recettore.

Questo è il grande potere ma anche il grande limite della comunicazione.

I mezzi di comunicazione agiscono sulle opinioni ma non sono in grado di influenzare i comportamenti, come appunto dicevamo all’inizio; l’esempio portato frequentemente dal Prof. Ragnetti è il voto politico.

Quindi concludendo possiamo affermare che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, cioè molto spesso a dichiarazioni verbali non corrispondono le azioni.

L’opinione pubblica.

A proposito dei mezzi di informazione abbiamo accennato all’opinione pubblica, cosa intendiamo.

In una accezione sociologica il termine “pubblico” indica un gruppo non organizzato con determinate caratteristiche, una collettività. Il soggetto dell’opinione pubblica è quindi l’insieme delle persone che hanno un’opinione tra loro condivisa, non è necessario che queste si conoscano o siano in contatto e perciò lo definiamo come gruppo non organizzato.

La condizione affinché un’opinione sia condivisa da una collettività è che questa
riguardi un oggetto noto, conosciuto, non privato e di interesse a molte persone
altrimenti, spesso, queste non sono portate a formulare opinioni a riguardo ed infine necessità di posizioni contrastanti a questa altrimenti si trasforma in una credenza profonda.

I soggetti dell’opinione pubblica sono definiti: “soggetti attivi”, cioè quelli che definiamo soggetti promotori dell’informazione, coloro che hanno una propria opinione riguardo gli avvenimenti e cercano di interpretarli nel modo più originale e non sulla base di luoghi comuni; solitamente questi soggetti corrispondono a gruppi che condividono interessi o ideali politici, religiosi, economici e che necessitano della condivisone e adesione di massa ricercata proprio attraverso
l’utilizzo dei mass-media con i quali non può comunicare la realtà ma soltanto trasmettere la sua forma, l’opinione, in modo che il soggetto recettore la comprenda e quindi aderisca.

“Soggetti passivi”, coloro che si limitano ad accettare o rifiutare l’interpretazione proposta, anche i soggetti recettori opinano nel momento in cui aderiscono o meno alle opinioni proposte sulla base dei propri valori e della propria cultura. 

Tanto i promotori che i recettori sono protagonisti del rapporto d’informazione
poiché essi rappresentano il pubblico, sostengono l’opinione dei promotori ma non
solo, questa distinzione dei soggetti non è così netta come appare ma si tratta di un
rapporto circolare in cui anche un soggetto recettore può diventare promotore.

Possiamo notare come, qualsiasi sia il tipo di soggetto considerato, si parla sempre di gruppo e non di individuo, quasi ad intendere che non esiste una propria opinione ma soltanto un’opinione comune a più persone e allora cosa succede se una persona appartiene a più gruppi con opinioni contrastanti. Questa sosterrà le opinioni che più salvaguardano i suoi interessi e ciò sottolinea ancora una volta
come sia volatile l’opinione in quanto non si mantiene costante ma varia al variare dei propri interessi, anche qualora sia generata da valori radicati in gruppi organizzati; la condivisone delle opinioni deriva dalla personalità e acculturazione dell’individuo.

Nasce così un problema, l’individuo è tale in quanto individuo, oppure, in quanto relazione con altri individui?

Chi siamo?

Dall’alto della mia presunzione ho sempre ritenuto che Alessio fosse Alessio, uno ed unico per tutti, e non nego che in fondo ancora ci credo o forse ci spero; ma in questo corso ho dovuto rivedere, mio malgrado, molte delle mie posizioni.

Più precisamente ho sempre sostenuto che ognuno di noi adatti i propri comportamenti alle circostanze in base al proprio interesse, esattamente come il soggetto promotore manipola la realtà in base al soggetto recettore,

“l’individuo impara prestissimo ad essere cose diverse con persone diverse”. (Cooley)

ma che tutto ciò non andasse oltre la finzione, che anche modificando i propri atteggiamenti a seconda dell’ambiente contingente le proprie opinioni rimanessero immutate; ciò che penso sia giusto lo è sempre in ogni momento, non è così.

Spesso le relazioni con altri individui influenzano le tue opinioni fino a farle cambiare, soprattutto se sono in molti a contraddire la tua opinione, l’influenza della massa è innegabile; con ciò non si vuole negare l’esistenza di opinioni c.d. cristallizzate che rifiutato l’influenza dell’ambiente contingente.

Uno, nessuno, centomila.

Ho sempre ritenuto affascinante la visione relativista della realtà di Pirandello e per questo ho deciso di riprendere il suo pensiero in questa trattazione perché “secondo me” è colui che meglio ha colto ed espresso il significato di realtà.

Quando abbiamo definito l’opinione abbiamo parlato di una “propria realtà” dettata soprattutto dal particolare stato d’animo di quello specifico momento e anche quando parliamo di certezza non possiamo trascendere da un concetto soggettivo.

Queste considerazioni portano Pirandello a rivedere anche l’oggettività dell’io, dell’individuo interpretando questo concetto nel protagonista dell’opera Uno, nessuno e centomila, Vitangelo Moscarda, che dapprima si considera unico (Uno) e poi attraverso le relazioni con gli altri percepisce come questi lo considerino in modi differenti dal suo e tra di loro, individuando in lui Centomila se stesso, giungendo così a concepirsi un nulla (Nessuno); Vitangelo cercherà disperatamente di distruggere queste centomila immagini che la gente ha di lui, ma finirà per essere considerato pazzo perché non è possibile distruggere le immagini che gli altri hanno di lui.

Secondo Pirandello la “persona” è una maschera con cui l’individuo si presenta a se stesso, non esiste però la sola forma che l’io dà a se stesso; nella società esistono anche le forme che ogni io dà a tutti gli altri. E in questa moltiplicazione l’io perde la sua individualità, da «uno» diviene «centomila», quindi «nessuno».

Si evince come il rapporto Io/Altro è centrale, in ogni Io sono presenti anche diversi Io percepiti in centomila prospettive differenti e allora “l’Io si configura anzitutto come relazione” (Heidegger):

“Non solo l’io può comprendere se stesso solo attraverso gli altri, ma di più, in qualche misura, esiste esclusivamente attraverso gli altri. Già la riflessione sul nostro linguaggio esprime perfettamente questo paradosso: io non vedo me stesso che allo specchio, cioè riflesso in un’immagine. l’unico modo per indicare cosa sono io è parlarne, ma la parola “io” può essere determinata soprattutto in riferimento alla parola “tu” a cui si rivolge e non in se stessa. L’io si determina e si costituisce in relazione a se stesso”. (Andreoli)

Il mezzo con cui si instaura una relazione è quindi il linguaggio ed è questo che fa dell’individuo un soggetto, un “io”; il linguaggio ha senso in quanto relazione (verbale o non verbale), il linguaggio esiste in quanto esiste la relazione.

“Comunico ergo sum”.

“Dove vi è un uomo ve ne sono altri che sono in relazione reciproca mediante concetti veicolati da segni. Ebbene, questa relazione reciproca è il linguaggio, senza il quale l’uomo non può esistere”. (Fichte)

Il linguaggio rende oggettiva la realtà, rende possibile rappresentare l’esperienza in oggetti identificabili.

“E’ nel e attraverso il linguaggio che l’uomo si costituisce come soggetto; perché solo il linguaggio fonda in realtà, nella sua realtà il concetto di ego”. (Benveniste)

Possiamo allora affermare che il nostro modo di comunicare, il nostro linguaggio identifica i nostri centomila “io” e soprattutto il modo in cui il nostro linguaggio viene percepito e compreso fa si che esistano non “Uno” Alessio ma realmente esista “Nessuno” Alessio, l’io è l’espressione di uno specchio la cui luce è il nostro linguaggio.

“Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di se; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per se, del mondo com’egli l’ha dentro?” (Pirandello)

In questo passaggio di sei personaggi in cerca d’autore Pirandello si chiede come
possiamo intenderci se le parole assumono un senso che dipende dal mondo che è
dentro di noi. 

Dunque le parole, il linguaggio sono il mezzo con cui si configura l’Io che tutta via
avrà sempre bisogno di un soggetto “tu” per legittimare il suo essere “Io”.

“E allora, l’opinione individuale per sua natura non può che essere collettiva, senza pubblicità l’opinione non sarà mai nata e, pertanto, non potrà mai esistere. Sono gli altri che nel loro essere altro da me mi autorizzano e legittimano il mio “secondo me…a mio giudizio…a mio modo di vedere..” , me….mio…mio modo…, che non potrei neppure pronunciare se non fosse certo dell’esistenze de tuo…loro…” (Prof. Ragnetti).