Intervista a Francesco Fattorello per il suo 80° compleanno nel 1982

Riprendiamo l’intervista al Prof. Francesco Fattorello che Roberto di Nunzio pubblicò sulla rivista “Antologia di Cultura, Arte e Scienza” – Anno IV, N.14 – Roma – Luglio 1982 – Pag.1

“In occasione del suo ottantesimo compleanno abbiamo sentito il desiderio di approfondire, direttamente con lui, alcuni aspetti, talora inediti, della sua lunga attività di ricercatore e docente.”


Professor Fattorello, cominciamo con una domanda che può sembrare banale; quando è nato e dove è nato?

«Sono nato il 22 febbraio 1902, là dove le Alpi chiudono nella loro cerchia il Friuli e aprono le loro porte alla Regione veneta».

Questa sua descrizione geografica sembra voler porre un particolare accento sulle sue origini, facendo della sua città natale un anello di congiunzione tra il Friuli, una regione che, nel 1902 appariva particolarmente “chiusa”, ed il resto dell’Italia. Ci sono forse degli intenti polemici?

«No, non c’è alcun intento polemico. Io mi sono sempre occupato, sin dal 1920, di studiare le manifestazioni letterarie e culturali di lingua italiana nel Friuli. Questa regione, soprattutto ai tempi della mia giovinezza, era invece particolarmente attenta ad esaltare le manifestazioni culturali e letterarie della lingua ladina. Il mio impegno andava in senso opposto. Così nel ricercare le manifestazioni culturali in lingua italiana che si erano avute nel corso dei secoli e che si avevano in Friuli».

Può citarci qualche sua opera in campo letterario?

«Ce ne sono parecchie, tutte edite più o meno negli anni ’30. Ho fondato e diretto due riviste e scritto diversi libri. Particolarmente cara mi è l’attività di ricerca svolta proprio attraverso le due riviste: la “Rivista Letteraria delle Tre Venezie” (1923-1927) e la “Rivista Letteraria” (1929-1.930). Dai lavori di ricerca apparsi, elaborai il mio volume, pubblicato nel 1929, “Storia della letteratura italiana e della cultura in Friuli”».

Professor Fattorello, lei è conosciuto, forse più all’estero che in Italia, non per i suoi lavori letterari, ma per la sua attività; prima, di storico del giornalismo e, poi, di sociologo dell’informazione. Come mai passò dagli studi letterari a quelli sul giornalismo?

«Furono le mie ricerche in campo letterario che mi portarono a quelle in campo giornalistico. Molti letterati erano stati giornalisti e le loro opere erano apparse su giornali. Già nella “Rivista Letteraria” vennero pubblicate opere attinenti al giornalismo. Meglio, alla storiografia e alla bibliografia del giornalismo».

Giornalismo e letteratura, una commistione, un tempo molto frequente e ancor oggi dura a morire. Lei si è mai occupato del giornalismo letterario anche in sede nazionale e non solo regionale?

«Certo. Nel 1929 pubblicai una breve storia del giornalismo letterario in Italia nella collana «PROBLEMI ED ORIENTAMENTI CRITICI DI LINGUA E LETTERATURA ITALIANA», sotto il semplice titolo di “Giornali e Riviste”. La collana era diretta da Attilio Momigliano e fu edita da Marzorati, che la ristampò nel 1960».

Professore, vorremmo chiederle perché, ad un certo momento della sua vita di studioso, arrivò alla determinazione di cambiare oggetto del suo studio?

«Non direi che l’oggetto del mio studio sia mutato. Piuttosto è mutato l’approccio. Nel 1929, iniziò ufficialmente nelle nostre Università l’insegnamento della Storia giornalistica sia con dei corsi liberi, come quello che tenni a Trieste, sia con corsi ufficiali. Successivamente, la “Storia Giornalistica” fu inserita, dopo che ci fu il riordinamento delle Facoltà di Scienze Politiche, nelle materie “complementari” di dette facoltà. Ma sia agli inizi che in seguito ci furono grosse difficoltà nello stabilire i compiti e i limiti di questa disciplina. Tale incertezza era dovuta al fatto che non si avevano chiare nozioni scientifiche proprio del “fenomeno giornalistico”, né contribuiva al chiarimento il clima culturale dominante dell’epoca che era di indirizzo esclusivamente storicistico letterario. Ebbi in dubbio che la vicenda dei giornali costituisse un ramo della storiografia, ma non si era ancora definito cosa fosse in realtà il giornale e quindi Il giornalismo. Nel corso degli anni, ma soprattutto nell’immediato dopoguerra venni maturando l’idea, grazie all’apporto della Sociologia e della “Teoria dell’opinione”, che il giornale altro non era se non uno strumento, tramite il quale si agisce sull’opinione pubblica. Cioè, il giornale era uno degli strumenti pubblicistici dell’informazione contingente».

Professore, l’anno scorso lei è diventato Vicepresidente “onorario”, dopo esserlo stato “effettivo”, per circa 20, dell’Association Internationale des Etudes et Recherches sur l’Information, istituita nel 1957 dall’UNESCO, per studiare i problemi dell’informazione dei vari stati membri. Questi riconoscimenti, se non andiamo errati, le sono venuti soprattutto per aver sviluppato una sua teoria del processo dell’informazione. Potrebbe veramente sintetizzarla?

«Come esiste una tecnica industriale per lavorare sulle cose, così esiste una tecnica per agire sulle opinioni degli uomini. Da qui la possibilità, una volta individuata questa tecnica, di agire in ogni attività sociale. Infatti, la dinamica della vita condotta in società si concreta in rapporti sociali: costituiscono l’ordito del tessuto sociale. Essi sono messi in moto dalla iniziativa dei soggetti promotori e si articolano tramite i mezzi di cui detti soggetti si possono giovare: sia quelli di cui la natura ha dotato l’uomo, sia quelli artificiali, inventati nella età nella quale viviamo. Sono questi i rapporti di informazione. Questi rapporti si sviluppano nel rispetto di determinate leggi e di una tecnica che l’uomo pratica se ne è consapevole, ma nei termini della quale è costretto ad operare anche se, per avventura, la ignora. Secondo le leggi di questa tecnica l’uomo non comunica, cioè non trasmette come una macchina, l’oggetto della informazione, ma trasmette la forma nella quale ha configurato per se e per gli altri l’oggetto che ha percepito. L’uomo è un essere intelligente e perciò dotato delle facoltà di percepire, e poi di configurare ciò che ha percepito e quindi di predisporre la trasmissione ad altri di questa rappresentazione. La trasmissione non avviene senza uno scopo, che è sempre quello di ottenere da parte del soggetto recettore una adesione di opinione a quella forma o formula di opinione che il promotore ha proposta. In questa forma si identifica lo scopo della informazione. Ma questa formula, proprio per le intenzioni del promotore, e anche al di là di queste intenzioni, può essere più o meno rappresentativa dell’oggetto del rapporto di informazione, può anche divergere in tutto o in parte: non ci potrà mai essere identificazione fra oggetto della informazione, rappresentazione del medesimo al recettore, ricezione della medesima da parte del recettore. È questa una delle caratteristiche fondamentali del rapporto di informazione».

Da quanto ci ha detto ci sembra di capire che per lei “informazione” e “comunicazione”, non sono affatto sinonimi. Potrebbe chiarirci questo concetto?

«La domanda mi interessa particolarmente perché proprio l’anno scorso sono rimasto colpito da un episodio che considero molto increscioso. Come è noto, il Ministero della pubblica istruzione, ha proposto agli studenti candidati agli esami di maturità nella sessione estiva dell’anno corrente, fra gli altri il tema: “L’influenza dei mezzi di comunicazione di massa nell’evoluzione della società”. L’interpretazione di questo tema ha suscitato gravi divergenze perché, gli estensori del medesimo, poco esperti della materia cui quel tema faceva riferimento, avvalendosi dell’autorità dei luoghi comuni o edotti soltanto della letteratura degli americani culminata nelle teorie di MacLuhan, avevano inteso di fare riferimento ai grandi mezzi di informazione, mentre altri più semplicemente intendevano fare riferimento ai treni, alle navi, agli aerei che sono senza dubbio mezzi per le comunicazioni di massa. Il guaio sta nel fatto che i comuni modi di dire, il linguaggio dell’uomo della strada e anche quello dei giornalisti, non possono essere assunti, specie in sede ufficiale e tanto autorevole quale è quella del Ministero della Pubblica Istruzione, senza una verifica, in sede scientifica, della loro significazione. In un paese come il nostro dove vi è stato un Ministero delle comunicazioni, cioè dei trasporti, dove vi è un Istituto Internazionale delle comunicazioni che si interessa proprio alle comunicazioni dei treni, delle navi, degli aerei non vi è dubbio che il termine “mezzi di comunicazione di massa”, sta a indicare il rapporto fra questi mezzi e gli effetti da essi esercitati sulla società; si ricordi per esempio quanto lo sviluppo della rete ferroviaria abbia contribuito alla unificazione politica dell’Italia. Che oggi, dopo la Seconda guerra mondiale, il termine abbia assunto convenzionalmente anche un diverso significato è un fatto, ma è convenzione non universalmente accettata. Infatti, i cultori della cibernetica che hanno preteso di configurare una teoria della comunicazione dicono che si può parlare di comunicazione sia fra le macchine che fra gli uomini; ma è difficile accettare questa tesi che evidentemente confonde fenomeni di diversa natura perché non si possono identificare rapporti meccanici con rapporti sociali.   I rapporti fra gli uomini di cui qui si parla, danno luogo a fenomeni di opinione e le macchine evidentemente non possono diventare soggetti opinanti».

Professore, noi sappiamo che lei continua la sua attività di docente e di ricercatore, quale presidente di alcuni organismi nazionali, oltre ad essere Vicepresidente di un organismo internazionale, le facciamo quindi, visti i suoi ottanta anni una domanda provocatoria che è però anche il nostro caloroso augurio. Quali sono i suoi progetti per il futuro?

«Credo, continuare le mie attività: a settembre sarò a Parigi, all’Assemblea Generale dell’Association Internationale des études et recherches sur l’lnformation».

Auguri caro Professore e buon viaggio!

Roberto Di Nunzio