Un lavoro necessario quello che conduce all’utilizzo esatto della parola. Lei crea, comunica, significa, emoziona, dialoga e si confronta. Noi siamo ciò che diciamo.
In virtù di questo nobile concetto, considerato l’utilizzo dilagante di parole errate e di ossimori ingiustificabili, ho deciso di dedicare un Saggio all’utilizzo delle parole, a quelle che nell’ambito dei Diritti Umani contribuiscono alla percezione negativa “dell’altro”.
La ricerca, pubblicata dal Wall Street Journal in un articolo dal titolo «What words tell us» («Cosa le parole raccontano di noi»), restituisce l’istantanea di una società individualista, competitiva e poco educata.
Parole come famiglia, collettivo, tribù, sono lentamente sfumate: il senso di comunità è stato sostituito da uno spirito competitivo. Tutto questo comporta una non più educazione ai sentimenti del cuore.
La coppia di studiosi americani Pelin e Selin Kesebir hanno scoperto che l’uso di parole come “coraggio” e “forza d’animo” è diminuito del 66 per cento, quello di “gratitudine” e “apprezzamento” del 49 per cento.
Entriamo subito nel merito per far comprendere quanto una definizione, una parola, una frase possano indurre in stereotipi resi normali. Cito il caso dei Verbali ad uso del Ministero dell’Interno, ove, quando si tratta di un caso di trasferimento da una struttura ad altra per un migrante, leggiamo come dicitura in alto: “Verbale di Consegna”.
È drammatico, è pericoloso, è quanto di più offensivo possa esserci. Non si trasferiscono le persone, ma le merci. Se una Istituzione attribuisce valore materiale e non umano alle persone, stiamo servendo tutta quella parte che desidera denigrare il diverso.
Altra definizione è “Carico Residuale”. Le persone sono un carico? Siamo davvero capaci di ritenere le persone un carico?
E per entrare nel merito del nostro impegno riguardante i viaggi esteri con la finalità degli abusi sessuali minorili, volgarmente definito Turismo Sessuale, accolgo l’analisi dell’Avvocato Francesca Ghidini, la quale afferma: “Cambiare le parole può aiutare a cambiare la società e a modificare la percezione della realtà, ingenerando consapevolezza.”
L’uso del termine (improprio) “turismo sessuale” per descrivere un abuso sessuale perpetrato a danno di un minore è inaccettabile poiché accosta due parole avulse dal fenomeno sotteso e dalla connotazione intrinsecamene positiva come il turismo (viaggio, scoperta) e il sesso (inteso come atto consapevole, libero, gioioso).
Peraltro, “turismo sessuale” non ha alcuna valenza giuridica poiché non descrive alcun reato, né si conforma alla definizione Europea della fenomenologia (“sexual exploitation and sexual abuse”, cfr. Lanzarote Convention).
Si tratta (solo) di una parola di comodo, totalmente fuorviante rispetto alla percezione del fenomeno che dovrebbe descrivere, ovvero, gli abusi sessuali sui minori.
“Turismo sessuale” suona meno ripugnante, l’abominio resta in sordina. Il viaggio volto allo sfruttamento sessuale dei minori potrà essere indicato come “viaggio per abuso sessuale di minore” (oppure con altra definizione analoga). È ora di rendere giustizia alle vittime della violenza. Chi parte per abusare sessualmente di un minore non è un “turista”, bensì un pericolosissimo criminale.
Giorgia Butera
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