Cambia i pensieri e cambierai il mondo, cambia il linguaggio e cambierai i pensieri: rigore linguistico o torre di Babele ?

Università degli Studi “Carlo Bo” Urbino
Laurea Specialistica in Editoria Media e Giornalismo
Esame di “TECNICHE DI RELAZIONE”
Prof. Giuseppe Ragnetti
Elaborato scritto di: Valentina Volpini
Anno Accademico 2009-2010

CAMBIA I PENSIERI E CAMBIERAI IL MONDO, CAMBIA IL LINGUAGGIO E CAMBIERAI I PENSIERI: RIGORE LINGUISTICO O TORRE DI BABELE?

Partiamo da un concetto, quello di cultura. Esistono diverse accezioni di questo termine, a seconda che ci si riferisca al suo rapporto con la natura, con l’educazione, con la civiltà, con la società. Forse scegliere quest’ultima accezione può essere più utile ai fini di un discorso generale. Da un punto di vista sociologico la cultura viene definita come l’insieme della produzione spirituale e materiale di una certa entità sociale.

Ogni società ha una propria cultura, intesa come l’insieme dei modi di vita che contraddistinguono quella società o un gruppo sociale determinato, e che questi riconoscono come proprio e tramandano di generazione in generazione: valori, norme, usanze, credenze, istituzioni, prodotti artistici ecc. La condivisione di tali elementi è il risultato di un processo che si svolge gradualmente nel tempo, e si articola in un’ assimilazione di opinioni, che si cristallizzano e si stabilizzano.

E’ questa caratteristica a rendere difficile la modificazione della cultura di una società. Così come la cultura, anche la visione del mondo di un soggetto, è frutto di una sedimentazione, avvenuta gradualmente, cominciata nell’ambito familiare, proseguita attraverso l’educazione ricevuta e consolidatasi nel tempo. Difficilmente un soggetto rinuncia alla propria opinione, al proprio pensiero sul mondo.

E’ pur vero, che un individuo, nella realtà attuale, si trova immerso in una rete di rapporti di informazione, ed è soggetto quindi a un notevolissimo numero di formule d’opinione diverse che riceve da altrettanti soggetti promotori, valutando poi se adottare tali opinioni o rifiutarle.

Se agendo da soggetto recettore, l’individuo decide di adottare la formula d’opinione che ha ricevuto e quindi di dare la sua adesione d’opinione, dal punto di vista del soggetto promotore che ha messo in moto il rapporto d’informazione, si può parlare di comunicazione; se non c’è adesione d’opinione, la comunicazione non avviene.

Affinché avvenga la comunicazione, affinché cioè il rapporto di informazione vada a buon fine, bisogna considerare il condizionamento reciproco degli elementi di tale rapporto.

x) M
Sp Sr
O

Il fatto, la notizia, l’evento, il motivo per cui viene iniziato un rapporto di informazione (x), condiziona innanzi tutto le scelte del soggetto promotore (Sp). Egli sceglie il mezzo (M) con cui comunicare e configura il messaggio in base al soggetto recettore (Sr). Il mezzo impone al Sp di rispettare le proprie caratteristiche tecniche e al Sr di possedere certe facoltà per gestire tale mezzo. Inoltre la formula d’opinione (O) è messa in forma in un certo modo dal Sp, e condiziona la scelta del mezzo con cui essere comunicata.

Infine il Sr obbliga il Sp a conoscere le sue facoltà e ad adeguare di conseguenza la formula d’opinione e il mezzo. Un Sp quindi, nel mettere in atto un rapporto d’informazione, deve tener ben presente che il suo obiettivo è ottenere un’adesione d’opinione e che per riuscirci, non può prescindere dai condizionamenti interni.

Dunque è fondamentale il modo in cui viene portato avanti il rapporto comunicativo. Da ciò deriva che l’idea che un contenuto possa essere comunicato così come è nella mente del soggetto promotore è un’illusione; la formula d’opinione va adattata al recettore, affinché egli, prima di poter valutare se aderire o meno, possa comprenderla.

Uscendo per un attimo dalla teoria, possiamo verificare tale concetto in due ambiti importanti della vita sociale, entrambi appartenenti alla sfera del contingente, cioè alla sfera della tempestività, dell’immediatezza, dell’istantanea adesione d’opinione: l’informazione giornalistica e la propaganda politica. Nel primo caso, il problema si verifica nella difficoltà che molti lettori hanno nel comprendere il contenuto di un articolo, perché espresso con un linguaggio troppo complesso, spesso di tipo elitario che sfugge quindi all’universale comprensione dei lettori.

Un sintomo di tale disagio è ad esempio il fatto che molti dichiarano di preferire la free press al quotidiano acquistato, non solo per la gratuità ma soprattutto per il dispendio di energie che richiederebbe leggere un articolo su tale giornale. Nel caso della propaganda, il problema si riscontra nella diversa efficacia che la comunicazione politica ha nel momento del risultato elettorale. Infatti è innegabile che nella contemporaneità, la chiave per un risultato politico soddisfacente per un candidato o un partito, sta nell’efficacia della comunicazione.

Non si tratta, come si potrebbe pensare, di una questione di diffusione della propaganda attraverso i mezzi di comunicazione sociale, specialmente la televisione, ma spesso di una questione di linguaggio. Spesso i politici cadono in un grossolano errore, che è quello di non farsi capire dal proprio elettorato, al quale stanno chiedendo un’adesione d’opinione, da esprimere con l’istituto del voto.

Il promotore, nei processi contingenti, ha un tempo limitato per realizzare il suo scopo, per questo la sua formula d’opinione deve essere dotata di una notevole carica sociale, deve possedere un fattore di conformità, cioè la forza di raggiungere il recettore nella sua sensibilità, adeguandosi alla sua curiosità e ai suoi desideri. Appare dunque chiaro come il soggetto recettore debba avere un ruolo preminente nel rapporto di informazione. Una formula d’opinione, soprattutto in un rapporto da uno a molti, deve avere una caratteristica fondamentale, l’universale comprensibilità.

In questo senso risulta importante l’attenzione posta al linguaggio utilizzato, perché come detto in precedenza, il mezzo deve essere adeguato al recettore. Trascurare l’importanza di tali elementi comporta una situazione fallimentare.

Possiamo descriverla attingendo alla tradizione biblica. Come racconta l’Antico Testamento, dopo il diluvio universale i discendenti di Noè, stabilitisi nella regione del Sennaar, in Babilonia, vollero innalzare una torre tanto alta da raggiungere il cielo. Il Signore, adirato per la loro presunzione, li punì facendo parlare a ognuno un idioma diverso; prima la lingua era una sola, dopo quell’episodio gli uomini non si capirono più.

Contestualizzando, possiamo dire che se un promotore ha la presunzione di comunicare la propria idea, il proprio pensiero, utilizzando un linguaggio adatto alla propria soggettività, senza tener conto di chi riceverà tale messa in forma, realizza una situazione di incomunicabilità, una Babele, in cui ognuno porta avanti la propria opinione, senza che gli altri membri della comunità possano comprenderla.

All’estremo opposto, tuttavia, non bisogna pensare che si possa verificare automaticamente una totale e completa adesione all’opinione del promotore.

Questo sarebbe un caso limite, difficile da ottenere. Potrebbe essere la pretesa di un’impostazione ideologica, ma neanche nel caso di una pianificazione rigorosa del rapporto d’informazione, anche dal punto di vista del linguaggio, si può avere la certezza dell’adesione d’opinione del recettore. Egli infatti resta sempre e in ogni caso un soggetto opinante e assolutamente indipendente e insensibile a qualsiasi speranza di condizionamento da parte del promotore.

Come in molte altre cose, dunque, possiamo dire che la verità è a metà strada. Possiamo cioè dire che nella normalità, un rapporto d’informazione, correttamente pianificato rispettando tutti gli elementi in gioco, diventa un rapporto comunicativo se il Sr recepisce, attraverso il filtro della propria soggettività, la formula d’opinione trasmessa, vi aderisce, se ne appropria, e la comunica a sua volta, in qualità di Sp, ad altri Sr.

Questa considerazione permette di porre l’accento sulla reale condizione in cui si trovano i soggetti nella loro esperienza quotidiana. Non sono riparati all’interno di una bolla d’aria che li protegge, tutt’altro, ciascuno di noi è costantemente immerso in una rete fittissima di rapporti di informazione, contingenti e non, che costantemente trasmettono formule d’opinione diverse a ognuno di noi.

Possiamo riformulare dicendo che riceviamo e trasmettiamo visioni del mondo soggettive e frutto della nostra personale esperienza e acculturazione.

Allo stesso tempo, in quanto soggetti appartenenti a un gruppo o a una data società, possediamo una serie di opinioni cristallizzate e di valori che abbiamo ricevuto e assimilato attraverso rapporti di informazione non contingenti.

Possediamo una data cultura, che ci appartiene e che in generale condividiamo con gli altri membri della società. Possiamo vedere i vari gruppi-società, come un grande soggetto collettivo con una propria formula d’opinione, la propria cultura.

Come il singolo, anche il soggetto collettivo, difficilmente rinuncia alla propria personale visione del mondo e alla propria cultura, perché entrambe appartengono alla sfera del non contingente, sono il risultato di un processo graduale e lento, cristallizzato e consolidato. In questo senso possiamo facilmente comprendere l’estrema difficoltà, se non l’impossibilità, di cambiare tali visioni, tali pensieri sul mondo.

Tuttavia si potrebbe forse contrapporre a tale concetto un fatto che probabilmente molti di noi hanno spesso considerato inevitabile e cioè che ci siano dei comportamenti, diciamo pure delle idee, delle opinioni, delle mode, che attecchiscono fortemente nella società e si diffondono a largo spettro. Si tratta di formule d’opinione ben trasmesse? Oppure la responsabilità è la grande diffusione attraverso i mezzi di comunicazione?

A tal proposito bisogna mettere in gioco un altro elemento, che ha una fortissima rilevanza in tale fenomeno e cioè il conformismo sociale di ciascuno di noi, quel bisogno di essere simile a un gruppo per non correre il rischio di una esclusione dal gruppo stesso.

Tale fattore ha a che fare con le personali attitudini, con le proprie esigenze e sicuramente va considerato nella pianificazione di un rapporto di messa in forma, ma non ha a che fare con lo strumento, che resta sempre un tramite tra i due soggetti del rapporto ma non determina il risultato del rapporto.

A cosa serve tale considerazione? A sottolineare la diversa collocazione del discorso sulla cultura. In questo caso il fattore rilevante è l’aspetto non contingente, la dimensione temporale, riflessiva potremmo dire, che di sicuro non appartiene ai fenomeni definiti di informazione pubblicistica, il giornale, la propaganda, la pubblicità, nei quali invece è il conformismo ad avere possibilità d’azione.

Nel caso dei Pensieri sul mondo, della cultura come patrimonio, dei valori, andiamo a toccare non più la superficie del lago, ma la dimensione profonda, quasi nucleare, evidentemente difficile da raggiungere e solleticare.

Di conseguenza il sogno, se così vogliamo chiamarlo, o meglio il tortuoso cammino verso una modificazione dei pensieri e di conseguenza delle visioni del mondo, e quindi, per estensione del mondo stesso, non può prescindere da una lentissima e costante trasmissione di nuovi valori e credenze.

L’applicazione implicita della tecnica sociale nell’Antropologia

Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

Corso di laurea in Editoria, Media e Giornalismo

ESAME DI TECNICHE DI RELAZIONE
PROF. GIUSEPPE RAGNETTI

Stud. MARTINA CELEGATO
Anno acc. 2009/2010

L’APPLICAZIONE IMPLICITA DELLA TECNICA SOCIALE NELL’ANTROPOLOGIA CULTURALE

1. La nascita dell’antropologia culturale

L’antropologia (come dice la stessa etimologia greca della parola ànthropos = “uomo” e lògos = nel senso di “studio”) è attualmente una disciplina sociale che si configura all’interno del grande insieme delle scienze umane in due grandi ramificazioni: da un lato quella culturale che più si concentra nello studio delle reti sociali, dei comportamenti, degli usi e costumi, degli schemi di parentela, delle leggi e istituzioni politiche, dell’ideologia, delle religioni e credenze, degli schemi di comportamento nella produzione e nel consumo dei beni e negli scambi e nelle altre espressioni culturali; dall’altro lato quella fisica o biologica, per così dire più “antica”, che studia l’evoluzione delle caratteristiche fisiche degli esseri umani, la genetica delle popolazioni e le basi biologiche dei comportamenti della specie umana e dei suoi parenti più stretti, le grandi scimmie (primatologia).

Con l’avvento dell’Illuminismo iniziarono gli studi sistematici della specie umana, studi che diedero vita alla cosiddetta corrente fisica o biologica dell’antropologia che quindi in questo periodo si caratterizza più come vera e propria scienza che come disciplina sociale.

Questo periodo, per così dire “fisico” dell’antropologia sarà un grosso limite per lo sviluppo della disciplina soprattutto perché verrà ripreso nel XX secolo, precisamente in Italia.

Non è comunque un caso che l’antropologia si sviluppi proprio durante questo periodo. Questo infatti è il periodo delle grandi colonizzazioni, i periodo in cui i grandi stati europei si stanziano in zone quali l’India, l’Africa e le Americhe. Ma questo è anche il periodo in cui le teorie evoluzioniste di Darwin, dopo un breve periodo di titubanza, vedono il loro massimo splendore e vengono applicate non solo al campo della biologia ma anche a quello umano e sociale.

L’antropologia culturale, come oggi la intendiamo noi, nasce ufficialmente nel ‘800, principalmente in Gran Bretagna per mano di Edward Tylor e Lewis Henry Morgan, e apporta grandi variazioni alla cosiddetta antropologia fisica anche se ne mantiene ancora alcune caratteristiche.

Questa antropologia, giustamente nei manuali definita etnologia, è ancora fortemente caratterizzata da una relazione indiretta e interposta dell’antropologo con le società considerate “altre”: infatti non era l’antropologo che si occupava di analizzare direttamente queste società, ma al contrario questo veniva fatto da un etnografo (spesso semplici mozzi di navi che si dirigevano in terre lontane) il cui compito era quello di raccogliere più informazioni possibili osservando questi popoli e dialogando con chi ne era venuto a contatto.

Questi taccuini venivano poi recapitati al cosiddetto antropologo che rielaborava le informazioni riportate. Questo dava quindi alla disciplina un taglio fortemente autoritario e semplicistico nel senso che ovviamente l’antropologo non poteva cogliere le sottili sfaccettature delle nuove realtà sociali, ma, per forza di cose doveva limitarsi a un giudizio fermo e distaccato.

Non bisogna comunque dimenticare che un importante fattore politico in influenzava queste ricerche cioè quello del colonialismo, che si doveva tutelare al fine di tutelare altresì il proprio lavoro. Quindi nonostante queste ricerche dal punto di vista della disciplina abbiano un valore abbastanza limitato o quasi nullo, all’interno del loro contesto storico-sociale rappresentano una forma di innovazione che non può passare inosservata.

Già con l’avvento del Romanticismo la visione di queste società “altre” viene valorizzato dal punto di vista della formazione sociale, anche se il forte limite di questa tradizione, sebbene totalmente opposto a quello precedente, è quello di creare il mito del selvaggio, dell’opposizione natura-cultura, che se da un lato è importante per rimuovere il senso di superiorità proprio dell’Occidentale e della sua tradizione sociale, da un lato ne limita le ricerche più strutturali e mirate.

Nel XX secolo gli antropologi per la maggior parte rifiutarono la concezione secondo la quale tutte le società umane dovrebbero passare attraverso tutti gli stadi di sviluppo nello stesso ordine, quindi la teoria Darwiniana applicata alla società, e dalle ceneri di questa tradizione nacquero le due più grandi teorie antropologiche destinate a stravolgere la storia e le modalità della stessa: lo strutturalismo francese di Claude Levi-Strauss e il funzionalismo inglese della Scuola di Manchester e di Bronislaw Malinowski.
Con queste due correnti culturali infatti nasce la concezione dell’antropologia ancorata alla realtà che no può essere descritta per così dire “a distanza” ma deve essere guardata e testata.

Tutti questi antropologi infatti scrivono i loro testi e traggono le loro conclusioni solo ed esclusivamente dopo aver passato un periodo più o meno lungo a contatto diretto con le società considerate “altre” ( Levi- Strauss nei Tropici e nell’Amazzonia, Malinowski nelle Isole Trobriand….).

Proprio grazie alla “discesa in campo” diretta degli antropologi nasce quella che oggi è considerata la caratteristica principale e peculiare della ricerca antropologica: l’osservazione partecipante. Questa tecnica di ricerca è fondata sull’osservazione appunto delle società, delle tradizioni e delle relazioni con l’antropologo che si pone a diretto contatto con esse, chiedendo informazioni, interagendo con i soggetti e a volte provando sulla sua stessa pelle alcune esperienze più difficili da descrivere.

2. il passaggio dell’antropologia da informazione non contingente riconosciuta a informazione contingente

Come già detto tracciando brevemente la storia dell’antropologia nel paragrafo precedente essa è nata come una ramificazione principalmente della sociologia e più in generale delle discipline sociali.

Come tale l’antropologia intesa, come del resto tutte le discipline sociali alla loro nascita, si può dire quindi venga definita come una disciplina non contingente, statica, da insegnare così come si propone sulle basi etnografiche e porta insita in sé stessa tutte le caratteristiche dell’informazione non contingente cioè:

• La materia, cioè le ricerche e le informazioni etnografiche sono cristallizzate;

• Non ha limiti di tempo, le ricerche necessitano di tempi lunghi sia di stesura che di rielaborazione;

• Le novità non sono frequenti e comunque non manomettono le caratteristiche principali del corpus di teorie;

• Il promotore delle teorie è comunque un antropologo o etnografo ben qualificato con una certa fama all’interno del suo ambito scientifico e politico di appartenenza;

• Il recettore di tali informazioni è solitamente un soggetto qualificato alla ricezione di tali nozioni, l’etnografia non è soggetta a divulgazione popolare;

• Il contenuto è specifico e non generalizzabile (l’analisi di determinate popolazioni no è espandibile ad altre)

• Si basa sull’esistenza di determinati processi logici razionali e valori già esistenti all’interno della comunità scientifica,

• Vi sono degli strumenti e delle tecniche che vengono utilizzate solo ed esclusivamente per queste ricerche e per la conferma di queste teorie,

• È bilaterale nel senso che le teorie possono essere ampliate o approfondite con nuove ricerche senza però variarne il senso principale.

Come si può facilmente dedurre con le nuove scoperte sociali da parte di tutte le discipline che si occupano di tale argomento un’impostazione così rigida e precostituita non è certamente accettabile, infatti dalle impostazioni di Bronislaw Malinowski in poi l’antropologia, assumendo consapevolezza dei suoi limiti e delle sue insite potenzialità, si pone in un’ottica meno storicistica e più contingente, coordinandosi ( e non subordinandosi) alle altre discipline sociali, quindi ponendosi i un’ottica più contingente.

Quindi vi è un passaggio formale da informazione non contingente riconosciuta a informazione contingente:

• La materia, cioè gli studi e le ricerche sono i continua variazione cioè possono cambiare di volta in volta, approfondendo peculiari caratteristiche;

• Vi sono dei limiti di tempo dettati dall’ambiente accademico e soprattutto dalla consapevolezza della sempre più rapida dissoluzione delle società che si studiano;

• Vi sono frequenti novità, dovute soprattutto al fatto che le realtà sociali e culturali subiscono profonde e costanti variazioni;

• I promotori delle teorie non sono solo antropologi affermati ma nella maggior parte dei casi ricercatori o seguaci di determinate teorie;

• I ricettori oltre ad essere qualificati in materia sono anche i comuni studenti di qualsiasi facoltà umanistica (non è un caso infatti che vi sia un corso di antropologia culturale in pressoché tutte le lauree che confluiscono sotto la facoltà di lettere e filosofia);

• Si tenda di far in modo che il contenuto sia sempre più generalizzabile e applicabile a più società possibili;

• Qualsiasi teoria già esistente può essere confutata e rielaborata per una maggiore comprensione del fenomeno sociale;

• Sebbene vengano mantenuti gli strumenti “storici” della ricerca non si escludono totalmente altre tipologie di ricerca;

• Può essere un processo unilaterale, anche se in linea di massima si mantiene bilaterale.

In linea di massima si può dire che questi siano stati i maggiori cambiamenti riguardo alla disciplina antropologica anche se mi sento di sottolineare che, essendo una disciplina accademica, e in quanto tale fonte di insegnamento e apprendimento, alcune caratteristiche dell’informazione non contingente si mantengono, soprattutto nello studio della storia antropologica, ed è giusto che sia così, per non perdere l’autorevolezza che le è stata attribuita con tante difficoltà.

3. il rapporto “studioso-studiato” e le sue evoluzioni

Fino ad adesso ho volutamente trascurato il rapporto diretto dell’etnografo e successivamente dell’antropologo con le popolazioni e le culture che si pone ad analizzare.

Come prima infatti vi sono delle sostanziali differenze tra il primo periodo più etnografico e quello più spiccatamente antropologico. Nel periodo etnografico infatti si può vedere come, sia per l’influenza dell’evoluzionismo sia per una sorta di superiorità sociale insita nell’europeismo in sé, l’etnografo, e poi l’antropologo che rielabora le informazioni, si pongano con un certo distacco nei confronti delle popolazioni che si vanno a valutare.

“Il selvaggio”, sostantivo che viene spesso attribuito a queste popolazioni, viene visto come una sorta di cavia, di target da colpire, di soggetto senza capacità pensanti o volontà, atteggiamento questo che limita fortemente lo sviluppo di una disciplina sociale in senso lato, che ne minimizza gli sforzi e che soprattutto semplifica l’articolazione inevitabilmente. Il non-capire il soggetto con il quale si vuole fondare una teoria, il non-capire le motivazioni di determinate usanze o riti, li semplifica con mere descrizioni.

Nella seconda fase, cioè quella antropologica e soprattutto quella più contemporanea, al contrario, la considerazione del soggetto analizzato, il suo studio e soprattutto le sue esigenze sono state messe al centro di discussioni che sono tuttora vivaci e molto sentite all’interno della comunità accademica mondiale.

Attraverso le modalità dell’osservazione partecipante infatti quello che prima era catalogato come “selvaggio” ora viene considerato come “uomo”, “essere pensante” e le sue esigenze come tali vengono percepite e approfondite. Proprio con il metodo di indagine infatti i soggetti studiati vengono direttamente a contatto con gli studiosi, i quali tentano di capirne caratteristiche e necessità, per poter portare avanti una ricerca ricca di presupposti teorici come di conoscenze pratiche.

Si può quindi dire che proprio in questa fase vi è una comunicazione fattorellianamente intesa, con soggetto promotore e soggetto recettore che collaborano e formano un corpus di opinioni fondato e ricco.

Conclusioni

Nonostante la storia dell’antropologia sia ovviamente più ampia e articolata spero che le semplificazioni e la sintesi qui riportate siano abbastanza esaurienti da far capire l’importanza delle evoluzioni che sono avvenute al suo interno. La comprensione di tali cambiamenti è di vitale importanza per un approccio creativo e non solo passivo allo studio della disciplina stessa.

Il cambiamento radicale avvenuto ovviamente non è solo per la disciplina antropologica, ma coinvolge tutte le discipline sociali e la teoria della Tecnica sociale dell’informazione mi ha aiutato a palesare le sostanziali variazioni avvenute e che ancora stanno avvenendo. Inoltre mi ha aiutato a vedere come sia di primaria importanza la comprensione del recettore, o del soggetto “studiato” per poter dare il giusto ruolo a colui senza il quale non avrebbe senso parlare di “ricerca”.

Riferimenti Bibliografici
Fattorello, F. “ Teoria della tecnica sociale dell’informazione”, QuattroVenti, Urbino, 2005
Ragnetti, G. “Opinioni sull’opinione”, QuattroVenti, Urbino, 2006
Fabietti, U. “Storia dell’antropologia”, Zanichelli, Bologna, 2005 [2001]
Clifford, J. e Marcus G. E. (a cura di), Scrivere le culture: poetiche e politiche dell’antropologia, Meltemi, Roma, 1997 [1986].
Fabietti, U., Antropologia culturale: l’esperienza e l’interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 1999

“La Chimera dell’obiettività giornalistica”

 

Laurea specialistica in Editoria Media e Giornalismo – Università “Carlo Bo” Urbino

Esame di Tecniche di relazione – Prof. Giuseppe RAGNETTI

SOFIA ALBERTO presenta :

 

LA CHIMERA DELL’ OBIETTIVITA’ GIORNALISTICA

Si è soliti rivendicare nell’ambito degli studi sui mass media la pretesa di perseguire la ricerca dell’ “obiettività”, in particolare nel campo dell’informazione giornalistica. Si tratta di una tendenza radicata principalmente nelle scuole americane di giornalismo dove si porta avanti una netta distinzione tra news (fatti) e views (commenti), in nome dell’imparzialità e della trasparenza nel riferire le notizie.

In Italia invece il perseguimento dell’obiettività è indirizzo rivolto dal Parlamento all’azienda radiotelevisiva di stato (RAI), tanto che è stata istituita anche nel 1975 la Commissione di indirizzo e vigilanza dei servizi radiotelevisivi, organo bicamerale, teso appunto a controllare che i principi di imparzialità e obiettività, definiti “inderogabili”, siano appunto rispettati.

L’obiettività sta inoltre alla base della deontologia professionale del giornalista stesso.
Appare però necessario domandarsi se, effettivamente, sia possibile essere obiettivi.

Il fraintendimento nasce da un presupposto fondamentale : la notizia non è l’evento, ma la relazione di tale evento.
Informare significa infatti “dare forma” ad un fatto, “vestirlo”: il giornalista dà forma a ciò che intende trasmettere al proprio recettore ai fini del consenso.

Già l’americano Ivy Lee affermava negli anni ’20 come la trasformazione di un fatto in notizia sia il risultato di una selezione degli eventi della realtà. Nessuno era in grado secondo lo studioso di presentare la totalità dei fatti relativi ad un dato (s)oggetto.

Ciò che era possibile era solo offrire una visione personale, un’interpretazione dei fatti, influenzata da un insieme di fattori, background culturale e appartenenza sociale in primis.

Anche Fracassi affermava come il soggetto osservatore non sia in grado di riferire senza interferire: la notizia è una rappresentazione della realtà e come tale è sempre frutto d’incontro tra ciò che accade e colui che decide di raccontarlo.

La comunicazione quindi è relativa a proprietà non intrinseche all’oggetto di cui si parla, ma che dipendono dall’osservazione. Secondo tale teoria possiamo affermare come in realtà si parli di de-formazione e non di informazione, data dal punto di vista dell’osservatore nel momento in cui questi decide di descrivere la realtà.

Allo stesso modo l’informazione giornalistica non rispecchia, dunque, la realtà quanto, piuttosto, valorizza frammenti di realtà, che appaiono interessanti in base alle contestualizzazioni di natura culturale, politica, economica e sociale.
La regola aurea del giornalismo anglosassone era quella per cui la notizia appariva come “sacra”, mentre il commento facoltativo, oltre alla già citata separazione tra fatti ed opinioni.

Il mito di stampo positivista relativo alla possibilità di descrivere la “realtà in sé” appare però fin dagli studi di Karl Popper solo una chimera. A cadere è di conseguenza anche il costrutto giornalistico della priorità nella scala gerarchica dei fatti rispetto alle opinioni.

L’osservazione può essere infatti definita come un processo di esplorazione della realtà, che presuppone la selezione e l’interpretazione del soggetto osservante. Il costruttivismo poi illustra come sia impossibile affermare l’esistenza di una realtà oggettiva: ogni descrizione è inevitabilmente interpretazione, nel senso che il suo significato viene – almeno parzialmente – determinato dal background storico-culturale che i soggetti, i giornalisti nella fattispecie, possiedono.

A tali studi si aggiungeranno le riflessione dell’ Interazionismo Simbolico che giudica la realtà come una costruzione sociale.
preferiva parlare di paradigma. Nel momento in cui ci confrontiamo con persone dotate di schemi concettuali molto diversi dai nostri e che “leggono” la realtà in modo profondamente diverso da come la vediamo noi “occidentali del XXI secolo”, appare chiaro come non esista un’unica realtà, bensì un insieme di realtà, ognuna influenzata dalle diverse pratiche di osservazione.

E’ una concezione tipica del post-moderno, che tende ad eliminare e rifiutare ogni verità ed ordine precostituito e che valorizza invece il relativismo culturale, principio basilare per la democrazia, considerando che le visione totalizzanti sono tipiche dei regimi e delle dittature o, in generale, delle ideologie acritiche.

Partendo dal presupposto per cui non esiste una visione unica di realtà, allo stesso modo appare impensabile perseguire nel giornalismo la ricerca dell’obiettività.

Il giornalista non è obiettivo, e non perché non vuole, ma semplicemente perché non può; però ha un obiettivo: ottenere il consenso del recettore, perché senza consenso non c’è comunicazione.
L’uomo, sia esso uno scienziato, uno storico, un giornalista, non può uscire dalla propria soggettività: pertanto, coloro che credono di essere obiettivi, esprimono solo la loro verità.

Certo occorre non cadere nel nichilismo: relativismo significa ammettere la validità del pluralismo dei punti di vista e quindi dei differenti “modi di leggere il reale”. Occorre dunque distinguere tra giudizi di valore non ammessi (arbitrari) e giudizi di valore ammessi, cioè quelli che hanno un riscontro di coerenza nell’esperienza e che rendono conto dei valori presenti all’interno di quella data esperienza.

Il fenomeno dell’informazione, secondo la teoria della tecnica sociale dell’informazione di Francesco Fattorello, è il risultato di un processo del quale possiamo distinguere due fasi:

  • il rapporto tra il soggetto promotore e la forma che egli dà a ciò che è oggetto di informazione;
  • il rapporto tra il soggetto recettore e questa stessa forma che riceve per mezzo di uno strumento, ovvero l’adesione di opinione del recettore (consenso) alla “forma” che il promotore gli ha trasmesso.

Secondo questo modello, pertanto, non c’è posto per l’obiettività all’interno del rapporto di informazione. Ponendo al centro del processo di informazione i due soggetti con le stesse capacità opinanti, e considerando questo fenomeno come il risultato di due interpretazioni soggettive, possiamo affermare che l’obiettività, come pura e semplice aderenza ai fatti, come mera corrispondenza tra le notizie date dai mezzi d’informazione ed una supposta realtà esterna, non esiste. Anzi, si potrebbe sostenere che se l’obiettività esistesse si negherebbe l’informazione, dato che questa appare come l’incontro di due soggettività, di due formule di opinione.

Il giornalista che pretende di rincorrere l’obiettività mette invece in moto lo stesso meccanismo di fidelizzazione rispetto alle idee, credenze e convinzioni politiche, sociali, religiose. Non basta quindi nemmeno apprendere le diverse interpretazioni su un determinato fatto, in quanto ciò significa darne una visione, non obiettiva, ma pluralistica.

Il modello di Fattorello ci spiega il perché la descrizione di un fatto ci appaia obiettiva rispetto ad un’altra: la presunta “obiettività” sta nel fatto che il resoconto considerato “obiettivo”, ma che in realtà è di carattere soggettivo, in quanto coincide con la nostra opinione personale sul fatto.

Per questo è possibile concludere affermando come tutto il giornalismo sia in realtà parziale, non solo i quotidiani politici. E questo non significa affermare che il giornalismo non abbia alcuna funzione o sia specchio di una visione distorta o erronea della realtà.

Occorre infatti assumere come principio inderogabile il carattere relativo e costruzionistico della realtà. Solo così sarà possibile “informarsi” senza l’illusione di “possedere” la verità : ovviamente dipenderà dai singoli interessi/background/convinzioni socio-politiche e culturali, assumere come “propria” una determinata visione, ma partendo però dal presupposto che si legge solo una delle tante possibili ricostruzioni di un determinato evento e che sia comunque opportuno leggere diverse interpretazioni dello stesso fatto, non per ricercare una verità che appare probabilmente irraggiungibile, ma al fine di possedere delle alternative, valide o meno, di giudizio.

Ogni ricostruzione – o quasi – potrà così possedere i requisiti di veridicità, in quanto grazie all’ onestà intellettuale di chi scrive, il lettore saprà a priori che il fatto è stato costruito secondo la visione più obiettiva possibile, ovvero la propria!

SOFIA ALBERTO – Editoria, Media e Giornalismo, Anno 2009 – 2010

Testo di riferimento:
Francesco Fattorello, Teoria della Tecnica Sociale dell’Informazione, a cura di Giuseppe Ragnetti
Edizione QuattroVenti, Urbino 2005

La tesi del Fattorello

..ma chi l’ha detto che le BUONE NOTIZIE non fanno notizia?!?

Il prof. Giuseppe Ragnetti, Direttore dell’Istituto Fattorello ha il piacere di condividere con gli amici del nostro BLOG nella sezione “Le Tesine” la gioia di Daniela e Nicoletta per l’importante traguardo raggiunto. Entrambe fattorelliane doc, si sono brillantemente laureate all’Università la Sapienza di Roma.

DANIELA PATTA :

Laurea in “Economia, Finanza e Diritto per la gestione delle Imprese”

NICOLETTA BORIELLO :

Laurea Specialistica in “Ingegneria per l’ambiente e il Territorio”

L’Istituto Fattorello e il prof Ragnetti, ringraziano per i….ringraziamenti e per le parole di stima e apprezzamento che Nicoletta e Daniela hanno voluto riservare nella loro Tesi di Laurea, alla nostra piccola-grande Scuola di comunicazione. Per i cultori delle rispettive discipline e per i più curiosi, pubblichiamo una sintesi dei due apprezzati lavori, che troverete nella sezione ” Le TESINE”.

……e allora NON C’E’ DUE SENZA TRE!!!

Anche le buone notizie a volte ritornano…e dopo la Laurea di Daniela e Nicoletta , siamo lieto di comunicare “Urbi et Orbi” la felicissima conclusione del suo percorso di studi di un’altra appassionata fattorelliana.

LIDIA AVELLA, dopo aver inanellato ottimi risultati in tutti gli esami sostenuti, si è laureata in SCIENZE DELLA COMUNICAZIONE all’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”

Con la valutazione di: 110/110 e LODE

Titolo della Tesi: “Spettacolarizzazione e personalizzazione della Comunicazione politica.

Il ruolo dei media nell’affermazione della politica spettacolo.”

Relatore: Prof. Giuseppe Ragnetti

Siamo particolarmente orgogliosi del lavoro di Lidia Avella che è riuscita a presentare e sviluppare egregiamente alcuni aspetti salienti dell’impostazione teorica fattorelliana, sotto l’esperta guida del nostro Direttore, prof .Ragnetti, docente di “Tecniche relazionali e comunicative” al Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione.

E sempre per i più curiosi e per tutti gli interessati alle nostre discipline di studi, volentieri pubblichiamo sul nostro Blog “Le Tesine”, l’introduzione e le riflessioni conclusive della suddetta.

Spettacolarizzazione e personalizzazione della Comunicazione politica: riflessioni

Lidia Avella

SPETTACOLARIZZAZIONE E PERSONALIZZAZIONE DELLA COMUNICAZIONE POLITICA: RIFLESSIONI

Introduzione

La politica oggi ha ormai completamente cambiato la sua natura. Da luogo del dialogo, del confronto tra idee, dell’esposizione argomentata si è trasformata in spazio del consumo.

La comunicazione di massa ha imposto agli attori politici e al pubblico dei cittadini lo scenario dello spettacolo. Il ruolo della leadership è stato amplificato e la maggior parte delle élite politiche è selezionata con criteri che non hanno più nulla a che fare con le logiche politiche.

Tutto è iniziato nel XX secolo, quando si è avviato il processo di mediatizzazione della società e quindi parallelamente della politica.

Il ruolo primario di agenzia di socializzazione viene svolto dai media e non più dalle tradizionali agenzie come la famiglia, la scuola, la chiesa e il partito.

La politica dunque muta, diventando anche pettegolezzo, scandalo, spettacolo. Si arriva al punto in cui i media quotidianamente si comportano da intermediari fra il personaggio politico e il cittadino, interpretando ciò che l’opinione pubblica vuole sapere allo scopo di poter valutare l’idoneità di una persona a ricoprire cariche pubbliche.

La comunicazione politica allora non è più riferita solo al rapporto tra istituzioni, partiti, movimenti e cittadini, ma crea e veicola anche idee, conoscenze, gusti e stili di vita.

I media col passare del tempo, quindi, hanno prodotto una profonda modifica dei caratteri tradizionali della politica e dei partiti. I nuovi luoghi della deliberazione e della rappresentanza sono oggi esclusivamente gli stessi media. È ormai solo nel contesto mediale che le istituzioni, le forze politiche, i leader e i candidati comunicano tra di loro e con i cittadini-spettatori. I media rappresentano oggi la ribalta della scena politica.

In questo scenario i tre attori dello spazio pubblico, sistema dei media, sistema politico e cittadino elettore, sono così in una relazione asimmetrica e piramidale con al vertice proprio il sistema mediale.

Con la mia tesi mi propongo di analizzare in modo più profondo tutti questi cambiamenti che nella politica e nella sua comunicazione si sono avuti negli ultimi anni. In particolare ho osservato il peso dei media in questo percorso, cioè come il sistema mediale abbia accompagnato la trasformazione della politica fino allo stato attuale. Ho cercato di fare una sorta di punto della situazione, provando quindi a capire come la comunicazione politica sia cambiata e come si presenta oggi, ma soprattutto se questo cambiamento così decisivo abbia fatto bene o meno alla politica.

L’idea dell’argomento da affrontare è arrivata con la lettura del testo di Mazzoleni e Sfardini “La politica pop”. I due autori in questo libro approfondiscono la questione del mutamento della comunicazione politica in Italia e spiegano come questo sia un fenomeno nato in realtà ben oltre i nostri confini. Fanno chiarezza sulle nuove tipologie di programmi che appartengono ai neonati generi dell’infotainment e del politainment e le caratteristiche di ognuno.

Prendendo spunto da alcuni argomenti del libro, ho voluto approfondirne altri con la ricerca e lo studio di ulteriori testi e affidandomi al web. La mia guida scientifica e teorica è stato il testo di Mazzoleni “La comunicazione politica”, mentre confesso di aver riso e di essermi a volte stupita leggendo “Il teatrone della politica” di Ceccarelli.

La lettura dei primi libri mi ha permesso di capire cosa approfondire e quanto sarebbe stato utile inserire nella mia tesi esempi concreti.

Così il mio lavoro ha preso forma, ho analizzato le domande a cui volevo dare una risposta e ho fissato i miei obbiettivi.
Ho cominciato con l’affrontare i concetti di base nel primo capitolo, in cui spiego il fenomeno della mediatizzazione, ovvero i cambiamenti che l’avvento e l’affermazione dei media hanno portato nella comunicazione, e in quella politica in modo particolare. Ho citato autori come Altheide e Snow, che ben spiegano come sia stata per lo più la logica politica ad adeguarsi a quella dei media, e non viceversa.

Ho approfondito con maggiore attenzione il ruolo della televisione in questo processo di cambiamento della comunicazione politica, poiché tra i vari vecchi e nuovi media è il mezzo di comunicazione principale nel nostro Paese, il punto di riferimento informativo per i cittadini italiani. La televisione ha cambiato molto il mondo politico, tanto che ormai la politica dell’era televisiva è molto diversa rispetto a quella del passato.

Ho analizzato poi i principali effetti della mediatizzazione, distinti in effetti mediatici, che riguardano gli aspetti mediali della comunicazione politica (effetto di tematizzazione, effetto di spettacolarizzazione ed effetto di frammentazione del discorso politico) ed effetti politici, che riguardano più propriamente il sistema politico (effetto di personalizzazione, effetto di leaderizzazione, effetto di selezione delle élite politiche).

In questa descrizione ho rivolto la mia attenzione specialmente alla spettacolarizzazione e personalizzazione del discorso politico, che rappresentano il fulcro della mia tesi, essendo gli effetti che attirano oggi maggiormente l’attenzione degli addetti ai lavori e non solo.

La spettacolarizzazione della politica è fonte continua di critiche e sdegno da parte dei cittadini, così come la sua personalizzazione ha portato effetti rilevanti nel modo di comunicare la politica stessa.

Ho proposto infine una descrizione del principale esempio di questo cambiamento della politica italiana, da molti considerato l’artefice dei mutamenti avvenuti nel nostro scenario politico: Silvio Berlusconi.

Ho voluto sottolineare come il Cavaliere sia il culmine dei cambiamenti analizzati, come la sua comunicazione abbia saputo, per l’Italia, precorrere i tempi, come essendo un buon conoscitore del mondo dello spettacolo sia stato il primo ad adattare alle sue logiche anche il discorso politico, riuscendo evidentemente nell’intento e accaparrandosi il favore di molti elettori. Ho raccontato dunque alcune delle principali trovate da lui messe in atto e alcuni aspetti del suo marketing politico.

Nel secondo capitolo ho cercato di mettere ordine tra i concetti che si usano parlando di questa svolta popolare della politica, appunto spettacolarizzata e personalizzata. Ho introdotto così i termini infotainment, politainment e soft news, elencando le varianti di questi nuovi generi di informazione-intrattenimento e proponendo alcuni esempi di programmi del palinsesto italiano che appartengono all’uno o all’altro genere.

Ho poi descritto e analizzato il programma che è a mio parere il miglior esempio di come si affronti oggi la politica in TV, ovvero Porta a Porta di Bruno Vespa. Dopo aver descritto il programma, spiegato i suoi punti forti e le critiche rivolte alla trasmissione e al suo conduttore, ho raccontato alcuni rilevanti episodi andati in onda che mescolano bene politica e spettacolo.

Infine il terzo ed ultimo capitolo è dedicato ad un argomento che molto mi ha appassionata.

Quello che ho cercato di capire è se tutti questi cambiamenti avvenuti nella comunicazione politica abbiano modificato la partecipazione dei cittadini alle questioni di interesse pubblico.

Ho aperto il capitolo parlando di quanto sia solo un’utopia oggi l’ideale del cittadino ben informato, che conosce in modo profondo la politica e vi partecipa attivamente. Ho spiegato come il modo di informarsi sia cambiato e come l’informazione non possa più prescindere dai media.

Ho poi descritto le due opposte posizioni degli studiosi rispetto alla questione. Ovvero quella degli ottimisti, sostenitori della teoria del circolo virtuoso, che considerano i media, pur con alcuni limiti, capaci di informare i cittadini, e non solo. Infatti i media eserciterebbero anche un effetto di mobilitazione poiché stimolano l’interesse e la curiosità dei cittadini nei confronti della politica.

La tesi opposta è quella del video malaise, sostenuta invece dai pessimisti. Questa ritiene che i mass media non aiutino la conoscenza, anzi al contrario sono addirittura strumenti di cattiva informazione. In particolare le accuse sono rivolte alla televisione, che ha reso il cittadino spettatore passivo della politica.

Secondo questa tesi la politica “pop” non fa altro che aumentare la sfiducia e lo sdegno del cittadino verso il mondo politico, visto sempre più come un teatro fatto di personaggi, di litigi e risse, di apparenza e di poca sostanza.

Ho poi analizzato un punto di vista intermedio, ovvero quello della teoria del cittadino vigile.

Si parla cioè di un cittadino che seppur distratto dalle proprio cose, non appassionato alla politica e spesso non ben informato, è attento e vigile, appunto, sulle questioni che lo toccano da vicino ed è capace di attivarsi su quelle questioni che per lui contano. Insomma nonostante il cittadino si dedichi in gran parte alla visione di programmi politici leggeri e scanzonati, secondo questo orientamento, può ancora essere pienamente “cittadino”.

Ho proposto infine un ultimo spunto di riflessione sulle qualità civiche che secondo alcuni avrebbe la comunicazione politica così cambiata. Grazie all’infotainment, al politainment e alle soft news, la politica oggi è addirittura più vicina ai cittadini, poiché non appartiene più ad un mondo lontano e separato, ma entra sempre con più facilità nella loro vita quotidiana.

Così anche i programmi di puro intrattenimento come i reality show possono svolgere una funzione pubblica, rappresentando e insegnando aspetti della cittadinanza contemporanea a vasti ed eterogenei pubblici. E le soft news, dal canto loro, riescono a far arrivare le informazioni su problemi politici importanti anche a pubblici poco inclini a seguire i TG o i programmi di approfondimento.

Arrivo quindi alle mie conclusioni, in cui tiro le somme del mio lavoro e esprimo le mie considerazioni e riflessioni, guardando soprattutto alla Teoria della Tecnica sociale dell’informazione di Francesco Fattorello.

Conclusione

Appare evidente dal mio lavoro che la politica e la sua comunicazione abbiano subito rilevanti cambiamenti e questo, come detto, è un fenomeno che caratterizza in maniera piuttosto omogenea tutto il mondo occidentale.

Dopo i discorsi affrontati nei precedenti capitoli, voglio dare spazio ad un’ultima importante riflessione, partendo dal contesto italiano, ma che vale in generale per i temi trattati.

Da quando in Italia nel 1994 Berlusconi è entrato nel mondo politico il mutamento ha avuto inizio. È cambiato innanzitutto il concetto di elettore, che pian piano è stato uniformato a quello di consumatore, con importanti conseguenze.

Berlusconi per primo ha infatti impostato il suo movimento politico su una serie di valori e contenuti che ha presentato agli elettori come merce da acquistare. Agendo come un’azienda, il neonato movimento propone il proprio prodotto esaltandone i vantaggi, rispetto alla concorrenza, per gli elettori e per il sistema generale.

La strategia di Berlusconi è stata chiara fin dall’inizio. Ha organizzato il suo partito utilizzando principalmente le strutture aziendali dedicate alla vendita di spazi pubblicitari che già usava per le sue reti televisive e affidandosi a politiche di marketing mirate, che provenivano chiaramente dal mondo aziendale.

Questa strategia del Cavaliere ha iniziato il cambiamento della politica italiana di cui abbiamo discusso, visto che dal momento del suo arrivo sulla scena politica e dalla sua successiva vittoria elettorale, tutte le altre parti politiche hanno dovuto fare i conti con un tipo di strategia totalmente diversa rispetto al passato. E soprattutto vi si sono dovute adattare.

Quindi anche la controparte ha cominciato a confrontarsi in modo diverso con gli elettori e quindi a considerarli come potenziali clienti, come consumatori. Si è giunti così al punto estremo: la politica è diventata una merce da vendere e i partiti-aziende riempiono di vantaggi il proprio prodotto tentando di convincere i consumatori-elettori ad acquistarlo.

Partiamo da queste considerazioni e analizziamo il fenomeno tenendo presente la Teoria della tecnica sociale dell’informazione di Francesco Fattorello per capire soprattutto quali siano gli effetti sulla politica.

La teoria parte dal presupposto che ci siano due tipi informazione, quella contingente e quella non contingente. Ognuna delle quali ha propri mezzi per essere comunicata, diversi tra loro e adatti a differenti scopi.

L’informazione contingente è quella legata al presente e all’attualità. È l’informazione che soddisfa l’urgenza, la tempestività, è pensata per l’oggi, e si esaurisce nella quotidianità. Si avvale di stereotipi per ottenere una rapida e tempestiva adesione di opinione, ovvero condivisione del messaggio che si vuole trasmettere.

L’informazione contingente è tipicamente l’informazione giornalistica, quindi sia scritta che radio-televisiva. Ma anche più in generale si fa riferimento all’informazione pubblicistica, compresa quindi la pubblicità.

L’informazione non contingente al contrario non ha esigenze di tempestività e di urgenza.

Si preoccupa di rispettare i valori che sono volti a formare attitudini profonde. È un’informazione praticata per il domani e soprattutto da vita ad opinioni cristallizzate e largamente condivise, al contrario dell’informazione contingente che da vita ad opinioni anch’esse contingenti.

L’informazione non contingente è quella che richiede tempo, come il processo del maestro che insegna ai suoi allievi opinioni accettate attraverso un processo storico da un gruppo, da una società, di cui sono diventate patrimonio nazionale.

La politica così come nasce appartiene sicuramente all’informazione non contingente, poiché è un processo lungo, trasmette valori profondi e socializza la comunità.

Oggi però si tende a trattare la politica come qualcosa di contingente, e soprattutto si usano i mezzi dell’informazione contingente per la comunicazione politica, cadendo ovviamente in errore. Si cerca cioè di trasmettere valori, nello specifico valori politici, nei modi e con i mezzi con cui invece si trasmettono le opinioni contingenti. Così si tende a trasformare la politica semplicemente in un prodotto, da utilizzare e da cercare solo quando serve.

In sintesi, quindi, oggi la comunicazione politica è cambiata, parla esattamente la lingua della pubblicità ed usa i suoi stessi mezzi. Di conseguenza è cambiata anche la politica, che è stata trasformata in un prodotto, comparabile con altri. Tra i prodotti proposti il cittadino sceglie il proprio preferito, cioè quello che più soddisfa le proprie esigenze, non più secondo una condivisione di valori profondi, come in passato, ma in base ad opinioni contingenti, legate al momento.

Allora, si può parlare di politica con i mezzi dell’informazione contingente? Si, si può e oggi lo si fa. Ma chiaramente questo ha delle conseguenze. E la principale delle conseguenze è l’impoverimento della politica, divenuta una merce al pari di altre.